
- 280 pagine
- Italian
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Notte e nebbia a Bombay
Informazioni su questo libro
Nella tumultuosa solitudine di Bombay, Hugo Baumgartner, ebreo tedesco arrivato in India ormai da cinquant'anni, si è ritagliato un angolo tranquillo, rinunciando per sempre alla patria e alla sua lingua. Ma nonostante il tempo trascorso, i ricordi tornano ad affacciarsi con dolorosa intensità . L'agiata infanzia in Germania, l'affetto delicato della madre, ma anche la salita al potere del nazismo, la fuga verso l'Oriente.
In India, sempre firanghi, sempre straniero, Baumgartner ha imparato quelle poche parole che gli servono per sopravvivere, fino all'incontro con un ragazzo tedesco, un giovane dio del male che segnerà il suo destino.
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Informazioni
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9788806187668eBook ISBN
9788858422304Capitolo quarto
Gli era parsa una bolgia, quando era sbarcato e aveva cominciato a camminare su quello che, gli avevano garantito, era suolo indiano – la folla, di indiani, inglesi, americani, gurkha – portatori con il loro bagaglio, bauli e materassi da viaggio, ufficiali inamidati e scintillanti di lucido da scarpe, ambulanti e venditori che correvano intorno con ceste e vassoi, memsahib e bimbi con caschetti a forma di catino sbilenco sui capelli chiari, donne indiane in abiti informi accoccolate passivamente con i loro cesti o bambini – e sopra tutti, a rapprenderli in un’unica marea irrequieta e ansante, la luce del cielo, e del mare, un’invasione di luce come non aveva mai immaginato che potesse esistere, e calura come olio bollente rovesciato da un calderone sopra le loro teste, che colava giú per il collo, nei colletti e nelle camicie.
Restò immobile a lungo, malfermo sulle gambe ormai da tempo abituate al beccheggio della nave, cercando il coraggio per farsi strada in mezzo a quel tumulto e trovare un albergo, l’indirizzo che aveva in tasca. I portatori non lo importunavano, non aveva nessun bagaglio che potessero trasportare; era abbandonato a se stesso. Quel primo giorno come sempre, abbandonato a se stesso.
Avrebbe voluto, quel giorno, che una mano gli si posasse sul polso, che lo guidasse. O avrebbe voluto, almeno, scorgere un cartello. In una lingua familiare. Un viso con un’espressione familiare. Non poteva decifrare quei volti, o le loro espressioni – gioia? angoscia? panico? Sentà il proprio panico riversarsi fuori, mescolarsi con il loro. Poi la paralisi lo abbandonò e si mise in moto, quando la calca cessò di turbinare e cominciò a defluire per i cancelli verso la città . La folla si era assottigliata, ora si aprivano spazi vuoti fra la gente, attraverso i quali riusciva a scorgere una via, raccolse la sua borsa di tela e finalmente si avviò.
Questo fu il suo ingresso in India.
Al tonga-wallah, mentre saliva sul calesse cigolante che puzzava di sterco di cavallo, disse: – Al Taj Hotel, per favore, – perché gli era stato descritto come un palazzo orientale. Gli avevano raccontato, inoltre, che per errore l’avevano costruito con l’ingresso affacciato sul bazaar cittadino e il retro rivolto verso l’incantevole lungomare, spingendo cosà l’architetto, un italiano, al suicidio, e perciò non si turbò quando il tonga s’inoltrò pian piano nel bazaar, il cavallo scampando per un soffio alla morte un centinaio di volte, il guidatore gridando insulti e direttive finché il sangue non gli colò dalla bocca – Baumgartner lo prese per sangue, ma in Oriente i colori non erano, lo sapeva, gli stessi che in Occidente – per scaricarlo infine sui gradini dinanzi alla sudicia facciata verde di un edificio di ferro rugginoso e stucco, a molti piani ma assai stretto, in una viuzza gremita di veicoli la cui varietà superava di gran lunga quella che Baumgartner sarebbe mai riuscito a immaginare. Ecco la famosa, o infame, facciata a rovescio, si disse, e smontò. Portò dentro lui stesso la sua borsa perché ad accoglierlo non c’era nessun portiere, come sarebbe stato ragionevole aspettarsi in base alle liriche descrizioni di lusso orientale udite dai compagni di viaggio. Una volta nel vestibolo, che era solo uno stretto corridoio, fetido di cibo e pieno di chiazze rosse che l’impaurito Baumgartner interpretò come sangue di un combattimento, si ritrovò in una casa cadente senza illuminazione e fu scosso da un grave dubbio. Sarebbe fuggito, se non gli fosse venuto in mente che un posto come questo era sicuramente piú alla sua portata di una suite in un albergo di lusso. Dopo essere rimasto un po’ là a ciondolare, disorientato, si schiarà infine la gola e scoprà che gli doleva. Un germe? Una malattia mortale? Tutto sembrava possibile, fin troppo possibile, in quello scenario. Finalmente apparve una donna, apparentemente dalle fessure del piano di sopra, che sgusciò giú per le scale accomodandosi i capelli e la veste di cotone con la mano bagnata, gocciolante.
– Vuole camera? – gridò a Baumgartner, sporgendo aggressivamente il mento come per provocarlo. – Una di sopra, camera quattordici libera.
Mentre la seguiva per le scale di legno, Baumgartner si schiarà di nuovo la gola, questa volta per chiedere, esitante: – Questo è Taj Hotel?
Si girò verso di lui come un gatto selvatico, sibilando. – SssÃ, – strillò, – questo è Taj Hotel. Perché non Taj Hotel, eh? Solo uno può essere Taj Hotel? Dieci, venti Taj Hotel a Bombay, nessuno può dirmi questo non è Taj Hotel, questo è Bombay Hotel, Goa Hotel, Hindu Hotel, io non ascolto! – urlò. – Io dico Taj Hotel, allora questo è Taj Hotel, – e proseguà decisa nel corridoio buio fino a una porta in fondo, che spalancò. – Vuole? – lo sfidò, incrociando le braccia in attesa di una risposta.
Baumgartner chinò docilmente il capo, passò oltre la donna ed entrò, troppo sfinito e nervoso per discutere. Aveva avuto problemi a riconoscere la sua lingua; gli era sembrata simile ai semi di un peperoncino rosso che gli scoppiavano in faccia dal baccello. Si asciugò il viso e si voltò per porle alcune urgenti domande ma lei scomparve sbattendo la porta. Gli occorse un certo tempo per abituarsi al buio. Non solo l’unica finestra si affacciava su un muro di cemento distante un paio di metri, impedendo completamente alla luce e all’aria di entrare, ma la tenebra era accresciuta dall’estremo sudiciume che rivestiva ogni superficie, la lampadina come il materasso di cotone e il pavimento.
Si fermò accanto alla finestra e prese a studiare la scena con grande serietà , sapendo di essere stato raggirato. Era la prima beffa dell’India. Ma era poi una beffa?
Non era forse il modo indiano di rivelare il mondo che stava dall’altra parte dello specchio? L’India faceva balenare lo specchio dinanzi al volto, con il fulgore e il riso rauco di una banda da strada. Si poteva restarne accecati. Ma per chi rifiutasse di guardarci dentro, per chi insistesse a girarci intorno, allora l’India si tirava da parte, ammettendolo dove non aveva pensato di poter arrivare. L’India era due mondi, o dieci. Essa stava dinanzi a lui, le mani sui fianchi, ridendo quel riso macchiato di sangue: scegli! scegli!
L’uomo dietro la scrivania, che si faceva aria sul viso con un giornale piegato, non era ciò che a Baumgartner era stato detto di aspettarsi. Per lo meno, sosteneva di non esserlo. – No, no, sbagliato, sbagliato, – continuava a ripetere, mentre Baumgartner cercava di fargli domande, nel suo inglese nuovo ed esitante, sugli affari che, come gli aveva assicurato il signore di Amburgo, esistevano a Bombay. L’uomo dietro la scrivania sembrava perplesso sentendo nominare Amburgo, il legname, le spedizioni... a ogni parola che Baumgartner riusciva a concepire nella nuova lingua, estraendola dalle proprie labbra con una riluttanza che rasentava la paralisi, l’uomo scuro e calvo nella lunga camicia di cotone bianco dai minuscoli bottoni d’oro scuoteva il capo in uno sconcertato diniego. Sul muro dietro di lui era appesa l’immagine di una dea con undici braccia, e sopra la cornice era disposta una ghirlanda decorativa. Baumgartner, nella sua frustrazione, si ritrovò a fissarla – attirava e tratteneva la sua attenzione e gli sembrava sempre piú bizzarra, straniera, esotica e imperscrutabile.
Poi, per caso, pronunciò la parola Ex-port. Ex-phott disse, e il suo grasso, perplesso e sudato interlocutore sembrò arrotolarsi in una palla tesa per l’eccitazione, e poi esplodere fuori della sedia.
– Ex-pawt! – boccheggiò, afferrandosi un lato del capo. – Ex-pawt. Ma certo, ex-pawt. Germania, Europa. Spedizioni, legname, conosco, conosco –. Si precipitò oltre la scrivania, afferrò la mano di Baumgartner e prese a scuoterla su e giú, poi, per buona misura, gli assestò una pacca sulla spalla, quindi cominciò a chiacchierare a una tale velocità che Baumgartner non cercò nemmeno piú di seguirlo. Fissava, invece, la dea con undici braccia in cerca di una spiegazione, forse aveva provocato lei questo diluvio comunicativo, forse era la dea della buona fortuna. Certo la ghirlanda ammiccava e brillava, mentre fremeva sussurrando piano nella brezza del ventilatore elettrico.
Attese finché l’uomo non ebbe esaurito tutti i gesti e i toni di eccitazione, e sedette per asciugarsi con il suo grande fazzoletto colorato. Allora estrasse dalla tasca la lettera di Herr Pfuehl e gliela consegnò.
– Una lettera da Fu-ol? Ce l’ha? – La testa calva emerse dietro il fazzoletto, raggiante, ma chiaramente la lettera non era piú necessaria. – La prego di venire a colazione con me. Usciremo, mangeremo, e parleremo.
Mentre raggiungevano il ristorante, filando sul lungomare in una carrozza a cavalli, Chimanlal agitò il braccio verso un’imponente massa di pietra che costeggiava e dominava la baia. – Il Taj Hotel, – esclamò, ostentando la visione con orgoglio, e sembrò compiaciuto quando Baumgartner si voltò sul sedile e spalancò gli occhi come se avesse dinanzi qualcosa che in tutta la vita non si sarebbe mai aspettato di vedere.
– Quello, il Taj Hotel? – Baumgartner domandò con meraviglia.
Chimanlal annuÃ, soddisfatto che fosse tanto impressionato, ma al guidatore della carrozza disse di procedere un poco oltre. – Ristorante vegetariano, cibo vegetariano, – spiegò mentre smontavano, – è famoso per questo. Le piace il cibo vegetariano?
In realtà , Baumgartner non avrebbe saputo dire se quello che si era messo in bocca fosse pesce, carne, pollo o foglie – il sugo in cui tutti i pezzetti galleggiavano era cosà infuocato che gli ustionò la lingua e lo fece zampillare di sudore come una fontana.
Anche a quello il suo anfitrione sembrò compiaciuto, come se fosse uno speciale gesto di gentilezza da parte di Baumgartner. Rise e gli vuotò un’altra palata di riso sul vassoio di metallo lucente. Il riso fumava, gli intingoli sfrigolavano, Baumgartner sudava e pescava in ogni cosa con un grosso cucchiaio di latta, guardando ammirato il suo compagno di tavola districarsi in tutti i complicati esercizi richiesti usando solo le dita. Infine il fuoco del cibo e la calura dell’ora vinsero entrambi; non era possibile mangiare di piú. I vassoi furono sgomberati dal ragazzo-cameriere che intorno al collo portava un amuleto infilato in uno spago, e vennero serviti piattini di condimenti che Baumgartner si sentà obbligato ad assaggiare; i sapori si rivelarono inimmaginabili. Il dolce, l’aspro e l’aromatico gli turbinarono in bocca; tenne le labbra ben strette, in modo che nulla di quella mistura letale potesse sfuggirgli. Quanto a Chimanlal, in bocca se ne gettò manciate, frantumò con naturalezza i semi profumati, si appoggiò all’indietro sulla sedia, lavorò di stuzzicadenti e cominciò a parlare di affari, esportazioni, spedizioni marittime e commerci in quella che a Baumgartner suonava come una sbalorditiva combinazione di due o tre lingue. Rispose nel proprio assortimento di altre due o tre. Sembrava che Chimanlal potesse offrirgli un’utilissima presentazione per un socio di Calcutta; a quanto pareva, nel mondo degli affari indiano esistevano opportunità di ogni sorta. Come per miracolo, a Baumgartner veniva prospettato di assumervi un ruolo che si sarebbe probabilmente rivelato assai redditizio.
Fuori sulla veranda a grate la luce del cielo pomeridiano cadeva in grandi blocchi di calor bianco. In qualche luogo al di là della veranda c’erano la strada, il traffico, il frastuono, e oltre questi il mare, le navi, l’arco rosato del Gateway of India. Baumgartner sentà che il suo mondo non solo si apriva, ma veniva lacerato, squarciato alla luce dell’Oriente.
– Il tuo primissimo giorno che cosa hai mangiato del curry? E non ti sei preso un’intossicazione alimentare? La dissenteria? Nemmeno la diarrea? – Lotte era scandalizzata quando glielo raccontò, anni dopo. – Mensch, dev’essere come un pezzo di copertone, il tuo stomaco –. Baumgartner rise, con un certo orgoglio. Questo lo distingueva dai suoi compatrioti, dagli altri pallidi come lui in quella terra straniera. Era un ennesimo tratto, si rese conto infine, che lo distingueva da loro.
Poi i due giorni e le due notti sul treno, che sferragliava e sussultava lungo binari che correvano sulla terra piú arida che si potesse immaginare. Sedeva accanto al finestrino, fissando il terreno duro e piatto – dapprima di un rosso friabile, poi di un nero sgretolato, e infine miglia su miglia di grigio incolore, finché il sole non lo rese febbricitante e la monotonia dello scenario non lo fece rabbrividire. Abbassò l’imposta di legno in una nuvola di polvere e fuliggine e si accomodò con la testa appoggiata alla cuccetta, sobbalzando. Perfino chiuso dentro, inscatolato, ancora vedeva la piattezza, l’aridità e l’immutabile scoloramento della terra che gli passava accanto rombando, per centinaia e centinaia di miglia. Le palme da cocco che si stagliavano come pali anneriti e non recavano frutti, nulla, solo foglie secche, morte, a forma di ventagli, simili a ombrelli rotti. Le cittadine o i villaggi che sembravano troppo stentati, troppo simili al suolo pallido e piatto per distinguersi come insediamenti umani – rifugi che non erano tali, ma solo parte della terra uniforme. Il bestiame con la pelle ciondolante in pieghe flosce attorno allo scheletro vagava senza meta in cerca di erba inesistente. Uccelli come nugoli di zanzare sospesi nell’aria in lontananza. Solo l’improvviso balzo di un ragazzo, un pastore di capre, esultante alla vista dei vagoni lungo i binari, che salutò con la mano Baumgartner quando sollevò l’imposta e si affacciò nel grigiore della sera. Baumgartner restituà il saluto, il cuore che cominciò di colpo a martellargli di gioia e di paura.
Poiché accanto al treno si allungava l’ombra del passato, di un altro luogo, di ciò che era stato e mai si sarebbe potuto abbandonare – un animale nella sua pelliccia grigia, che avanzava di pari passo, si attaccava, rifiutando di andarsene. Un animale simile a uno sciacallo di giorno, a una iena di notte. Nel buio, continuò a inseguire il treno, a inseguire Baumgartner.
I passeggeri. Un padre gesuita diretto al seminario di Chanderanagore. Di ritorno dopo un congedo per malattia. Vestito di nero, il viso scavato e verde per le molte stagioni di malaria e dissenteria. Intento a leggere una Bibbia, anch’essa nera. Le labbra che si muovevano, mangiando le parole, poi una banana. Guardò verso Baumgartner e disse: – L’unica cosa che si può mandar giú mentre si viaggia in questo paese. Le loro mani non la toccano, capisce, è protetta dalla buccia. La pelle, guardi, è piú spessa della nostra –. La aprà delicatamente, con meticolosità , poi lanciò la buccia sul marciapiede della stazione dove una vacca, che rovistava fra pacchetti di sigarette vuoti e sacchetti di carta, abbassò rapida il muso, la afferrò con la lunga lingua nera e prese a masticarla con aria lugubre. – E le arachidi, con il loro guscio, – aggiunse, come ispirato. Quasi li avesse evocati, da dietro la vacca apparvero alcuni bimbi, senza nulla indosso tranne quegli amuleti appesi a cordicelle nere che Baumgartner aveva già visto altrove; offrivano coni di carta pieni di arachidi. Non erano apparizioni – le loro voci squillavano in modo assordante: sembravano di latta, oppure seghe in azione.
Due soldati inglesi in divisa color cachi. Le voci troppo forti, stridule. Eppure Baumgartner non riusciva a comprendere nemmeno una parola, non era neppure certo che fosse inglese. Si rigiravano le parole in bocca, a mo’ di patate. Erano stranieri come i bimbi sul marciapiede – neri, nudi, rauchi.
Fu portato un blocco di ghiaccio, che venne posato in mezzo allo scompartimento in un secchio di latta. Esso si sciolse e gocciolò e colò fuori per tutto il giorno, odoroso di paglia umida e di fango. Nel secchio i soldati inglesi tenevano bottiglie di birra scura. Le rivoltavano con cura come se fossero neonati. Ne aprirono una e la offrirono al sacerdote che rifiutò, seccamente, poi a Baumgartner che sentà di dover rifiutare anche lui, prima che scoprissero la sua nazionalità . Lo guardarono come se i loro peggiori sospetti venissero confermati.
A Calcutta, il verde tropicale. Dopo tutta quella polvere smorta, quel grigio farina di ossa, dalla notte era sorto all’improvviso quel verde brillante, quello scroscio di vegetazione, opprimente quanto l’aridità del giorno prima. Come un deserto, inondato di luce incandescente che faceva brillare la verzura con la violenza del metallo o del vetro. Ma anche pozze di ombra densa, acqua cheta, stagnante. Persino gli uomini erano grondanti – l’umidità filtrava da sotto i loro capelli e scorreva a rivoli, infradiciando le vesti. Anche Baumgartner, affannato eppure statico tra la folla della stazione, fu presto umido e grondante. Ma riuscà ad arrivare, con le ultime riserve delle sue energie in rapida dissoluzione, fino all’indirizzo che gli era stato dato da Chimanlal. Qui, sotto il ventilatore elettrico che girava indolente con le sue larghe pale di legno orlate di sudiciume, l’uomo alla scrivania spianò la lettera di presentazione di Baumgartner sotto le dita brune con le unghie brune. Alzando lo sguardo, sorrise, come offrendo una fetta di cocco fresco. Conosceva l’uomo di Amburgo. Anche Chimanlal di Bombay. Conosceva il commercio di legname. E le spedizioni via mare. Tutto era possibile, a disposizione. Avrebbe offerto un posto a Baumgartner – ondeggiò un braccio nella manica di mussola candida, sottile, delicatamente increspata – là , nel suo ufficio, per esaminare gli schedari, studiare il mercato, fare progetti. Con il suo – di Habibullah – aiuto, con le sue istruzioni, avrebbe potuto finalmente cominciare.
Prese alloggio in un albergo di Middleton Row che avev...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Notte e nebbia a Bombay
- Introduzione di Anita Desai
- Notte e nebbia a Bombay
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Capitolo settimo
- Glossario
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright