
- 320 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
Informazioni su questo libro
Nata nella prigione di Newgate, avventuriera, prostituta, cinque volte sposata (una delle quali con il proprio fratello), per oltre dodici anni ladra, per otto deportata in Virginia: e poi finalmente ricca ed in odore di onestà. Questa è la storia di Moll Flanders, che Defoe racconta calandosi completamente nei panni della protagonista, provando così l'ebbrezza di «vivere» le sue travolgenti esperienze. Il racconto in prima persona gli consente di confondere la propria anima borghese con quella di una povera delinquente, senza peraltro tradire la realtà: la storia di Moll la tagliaborse è infatti ispirata alla vita di una celebre ladra morta a Londra nel 1659 e ben presto divenuta una figura leggendaria nell'immaginazione popolare
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Informazioni
L’AUTORE AI LETTORI
Da qualche tempo il mondo è talmente soverchiato da romanzi e libri d’avventure, che riuscirà difficile a una storia privata venir presa per vera, quando in essa i nomi e le altre circostanze del personaggio siano taciuti; e su questo punto dovremo contentarci di lasciare che il lettore dia sulle pagine che seguono la propria opinione, per la quale ci rimetteremo al suo beneplacito.
Fate conto che qui è l’autrice che scrive la sua storia; fin dal bel principio del suo ragguaglio espone le ragioni per cui le pare di dover nascondere il suo vero nome, dopo di che non avrà occasione di parlar oltre della faccenda.
Bisogna avvertire che l’originale di questo racconto venne acconciato in nuove parole, e lo stile della famosa signora di cui si parla, un tantino alterato; in special modo, si è fatto sí che costei raccontasse la storia con parole piú modeste di quelle che non abbia adoperato la prima volta, dato che la copia capitataci fra mano era stata scritta in un linguaggio piú degno di persona ancor rinchiusa in Newgate che non dell’umile penitente ch’ella ha in seguito asserito di essere.
La penna impiegata a rifinire questa storia e ridurla quale la vedete attualmente, ha trovato non poche difficoltà nel darle una veste presentabile, e far che si esprima in un linguaggio leggibile. Quando una donna depravata nella sua prima gioventú, una donna anzi, che nasce frutto della depravazione e del vizio, si risolve a dare un ragguaglio di tutte le sue azioni perverse, e discende persino alle occasioni e circostanze particolari attraverso cui si aprí per lei la strada della corruzione e non dimentica tutti i successivi passi mossi nel delitto per un periodo di sessant’anni, si trova in un bell’impaccio l’autore che voglia rivestire la storia in modo cosí decente da non dar luogo, specialmente a lettori corrotti, di volgerla a suo pregiudizio.
Tuttavia, è stata spesa ogni possibile cura per evitare tutti i pensieri disonesti, tutte le espressioni men che modeste nel nuovo rivestimento di questo racconto; persino nei suoi tratti peggiori. A questo fine, qualcosa della parte viziosa di questa vita, ch’era impossibile riferire secondo modestia, venne escluso, e diverse altre parti accorciate d’assai. Quanto resta, si spera non sia tale da offendere il piú casto dei lettori né il piú modesto degli ascoltatori; e siccome anche della peggiore delle storie bisogna saper fare l’uso migliore, si spera che la morale del libro terrà desta la serietà del lettore, anche quando il racconto fosse per disporlo altrimenti. A far la storia di una vita di vizio cui sia seguito il pentimento, si richiede necessariamente che la parte viziosa venga rappresentata quanto la verità dei fatti consente piú perversa, per illustrare ed abbellire la parte del pentimento, che sarà certo la migliore e la piú splendida, se raccontata con uguale spirito e vivacità.
Si è fatto presente che non possono darsi la stessa vivacità, lo stesso lustro e bellezza nel riferire la parte del pentimento come in quella delittuosa. Qualunque sia la giustezza di questa osservazione, mi sia consentito di dire che ciò accade perché non si prende lo stesso gusto e lo stesso piacere alla lettura; ed è purtroppo vero che la differenza non giace nell’intrinseco merito dell’argomento quanto nel gusto e nel palato di chi legge.
Ma siccome quest’opera si raccomanda massimamente a coloro che sanno come vada letta e come se ne tragga quel profitto che per tutto il suo corso la storia raccomanda, cosí giova sperare che questi lettori vorranno ben piú compiacersi della morale che non della favola, dell’applicazione che non della esposizione, e del fine cui mira lo scrittore piú che della vita del personaggio trattato.
C’è, in questa storia, dovizia di bellissimi casi e tutti interpretati profittevolmente. C’è, dato loro a bella posta nel corso della narrazione, un piglio piacevole che naturalmente istruisce, in un senso o nell’altro, il lettore. La prima parte intorno alla vita dissoluta che la protagonista conduce col giovane signore di Colchester, è piena di cosí felici accorgimenti diretti a smascherare il delitto e, svelando lo sciocco, spensierato e odioso contegno di tutti e due i colpevoli, mettere in guardia contro la fine funesta di simili avventure tutti coloro i cui casi si adattano alla circostanza, che risarcisce abbondantemente tutta la vivace descrizione che la protagonista ci fa della sua follia e perversità.
Il pentimento del suo amante di Bath, e come questi sia portato ad abbandonarla, per il giusto allarme della malattia; il giusto avvertimento che a quel punto vien dato di guardarsi anche dalle legittime intimità con le persone piú care e come senza l’aiuto divino siamo incapaci di perseverare nelle piú solenni risoluzioni di vita virtuosa; sono tutte parti che, alla persona di vero discernimento, appariranno piene di una piú reale bellezza che non tutta la catena di casi amorosi che le introduce.
A farla breve, siccome l’intiero racconto è accuratamente rimondato da tutte le frivolezze e licenziosità che conteneva, cosí è diretto, e col massimo scrupolo, a fini di virtú e di religione. Nessuno, che non voglia macchiarsi di manifesta ingiustizia, può fare il minimo rimprovero a quest’opera o al nostro proposito nel pubblicarla.
In tutti i tempi, i difensori del teatro hanno fatto di questo il loro massimo argomento per persuadere la gente che le loro opere sono utili e che ogni governo piú civile e timorato di Dio dovrebbe permetterne la rappresentazione. Sostengono cioè, che queste opere sono dirette a fini di virtú e che non trascurano, per mezzo delle piú vivaci descrizioni, di raccomandare la virtú e i principî generosi e di dissuadere e mostrare nella loro deformità ogni sorta di vizi e depravazione di costumi. Fosse vero che cosí facessero e costantemente aderissero a questa massima, come paragone delle loro azioni sulla scena: molto allora si potrebbe dire in loro favore.
Attraverso tutta l’infinita varietà di questo libro, sempre ci si attiene con tutta severità a questo principio fondamentale: non c’è una sola azione perversa, in nessuna sua parte, che non si risolva prima o poi nell’infelicità e nella sventura; non entra in scena un solo grande scellerato che non finisca infelice o penitente; non vien fatta menzione di nessuna cosa cattiva che non trovi la sua condanna nel corso stesso del racconto, né di una virtuosa, giusta, che non porti con sé la sua lode. Che cosa piú esattamente risponde alla regola su esposta, da raccomandare persino la rappresentazione di quelle cose che hanno contro di sé tante altre giuste obiezioni? Voglio dire, l’esempio delle cattive compagnie, il parlare osceno, e simili.
Su questo fondamento, si raccomanda il libro al lettore, come un’opera in ogni parte della quale vi è qualcosa da imparare, e se ne cavano parecchie giuste e pie osservazioni. In queste chi legge potrà trovare qualche insegnamento, se vorrà compiacersi di farne tesoro.
Tutte le imprese di questa illustre signora nelle sue rapine a danno dell’umanità, appaiono come altrettanti esempi per la gente onesta affinché stia in guardia; le fanno comprendere con quali metodi si adescano, svaligiano e derubano i creduli e in conseguenza come si debba guardarsene. Il caso di quando derubò la bimba, che la madre vanitosa aveva vestita vistosamente per la lezione di ballo, è per l’avvenire un ottimo avvertimento a simile gente; come pure, quando portò via l’orologio d’oro dal fianco di quella damigella nel parco.
Il modo come si appropriò del pacco di una ragazza scervellata, allo scalo di St. John’s Street; il bottino fatto durante l’incendio, l’avventura di Harwich, tutto ci offre un eccellente ammonimento ad avere in questi casi una migliore presenza di spirito davanti alle sorprese improvvise, di qualunque genere esse siano.
La storia di quando costei si darà finalmente a una vita onesta e a una condotta laboriosa, nella Virginia, in compagnia del suo sposo deportato, è feconda di insegnamenti per tutte le creature sfortunate che son costrette a ricercare sotto altro cielo come rifarsi un’esistenza, sia per la disgrazia della deportazione, sia per qualche altra calamità. Vi si impara che la buona volontà e l’applicazione ricevono il debito incoraggiamento persino nella plaga piú remota del mondo e che nessuno stato può essere tanto basso, spregevole o privo di possibilità, che un’operosità instancabile non ci debba portare assai avanti sulla via della liberazione, e non possa col tempo risollevare la piú vile delle creature e rimetterla all’onore del mondo investendola di una nuova parte nella vita.
Sono queste alcune delle conclusioni a cui veniamo guidati per mano in questo libro, ed esse sono pienamente sufficienti a giustificare chiunque lo raccomandi al mondo, e molto di piú a giustificarne la pubblicazione.
Restano ancora due delle parti piú belle, di cui la presente storia dà una qualche idea e ci introduce negli episodi. Esse sono però tutte e due troppo lunghe per entrare nel medesimo volume e sono anzi, potremmo dire, intieri volumi esse stesse.
La prima è la vita della sua governante, come lei la chiama, che aveva percorso, a quanto pare, in pochi anni tutti gli illustri stati di gentildonna, prostituta e ruffiana; levatrice e, cosí le chiamano, padrona-levatrice; usuraia, spacciabambini, manutengola, ricettatrice; in una parola ladra e facitrice di ladri e consimili, eppure anch’essa si pentí.
La seconda è la vita del marito deportato, un malandrino che, a quanto pare, trascorse felicemente dodici anni di scelleratezze sulla pubblica strada, eppure alla fine seppe cavarsela cosí bene da venir deportato a domanda, non come un condannato. La vita di costui è incredibilmente avventurosa.
Ma, come dicevo, tutte e due le storie sono troppo lunghe per introdurle qui, e neppure posso promettere che un giorno usciranno a parte.
In verità, non possiamo dire che questo nostro racconto arrivi fin proprio al termine della vita della famosa Moll Flanders, dato che nessuno può scrivere la propria vita interamente fino alla fine, a meno che non vogliamo che la scriva una volta morto. Ma la vita del marito di lei, siccome è scritta da un terzo, dà intiero ragguaglio di tutti e due: quanto tempo vissero insieme in quella terra, e come tutti e due tornarono, dopo otto anni circa, fatti ricchissimi, in Inghilterra, dove lei visse, pare, fino alla piú tarda età, ma non fu piú una penitente cosí eccezionale come era stata in principio. Quel che sembra certo, è che ha sempre parlato con orrore della sua vita precedente, e d’ogni momento di questa.
Nell’ultima scena del Maryland e della Virginia accaddero molte belle cose che rendono quella parte della sua vita assai bene accetta, ma non sono raccontate con quell’eleganza che hanno le altre, di cui lei stessa si occupa; è quindi ancora per il meglio se interrompiamo qui.
Il mio vero nome è cosí noto negli archivi e registri del carcere di Newgate e dell’Old Bailey, e vi sono ancora implicati, riguardo la mia personale condotta, certi fatti di tanta importanza, che non dovrete attendervi che io accompagni al racconto il mio nome o un ragguaglio della mia famiglia; può darsi che ciò si venga a sapere quando sarò morta; per il momento non sarebbe conveniente, no, nemmeno se concedessero un’amnistia generale, magari senza eccezione di persone o di reati.
Basterà se vi chiedo che, siccome per certuni dei miei peggiori compagni che sono ormai nell’impossibilità di nuocermi (essi uscirono da questo mondo, ciò che sovente ho avuto ragione di temere per me, via la scala e la corda) il mio nome era Moll Flanders, cosí mi vogliate permettere di conservare questo nome sino a che io non osi confessare quella che fui e insieme quella che sono.
Mi è stato detto che in una delle nazioni nostre vicine, non so se in Francia o dove, c’è un’ordinanza reale che quando un delinquente è stato condannato a morte, oppure alle galere o alla deportazione, se lascia dietro di sé qualche bimbo, dato che per la confisca dei beni dei genitori, questi in genere vanno derelitti, immediatamente lo Stato se ne prende cura e li ricovera in un ospedale detto la Casa degli Orfani, dove questi ragazzi vengono allevati, vestiti, nutriti, educati e, una volta atti a uscire, collocati a mestiere o a servizio, in modo che riescano in grado di mantenersi con un’onesta e laboriosa condotta.
Se tale fosse stata l’usanza nel nostro paese, io non sarei rimasta una povera bimba abbandonata, senz’amici, nuda, priva di aiuto e di conforto, come fu mio destino, e questa mia condizione non solo mi esponeva a tremende privazioni ancor prima che nemmeno fossi capace di capire il mio stato o rimediarvi, ma mi cacciò per un sentiero della vita in se stesso obbrobrioso e tale che nel suo corso consueto porta alla rapida distruzione di anima e corpo insieme.
Ma la cosa andò altrimenti. Mia madre era stata convinta di delitto capitale per un furtarello che non vale le parole che costa: aveva tolto a prestito tre pezze di fine tela d’Olanda nel negozio di un certo mercante in Cheapside. I particolari sono troppo lunghi a riferirsi, e li ho sentiti raccontare in tanti modi diversi che non saprei io stessa a quale attenermi.
Comunque si fosse, tutti s’accordano in ciò che mia madre invocò il suo stato, e avendola riconosciuta incinta, le concessero un rinvio di circa sette mesi; dopo i quali venne richiamata, come là dicono, all’antica sentenza, ma ottenne in seguito la grazia di venir deportata alle colonie, per cui mi lasciò, che avevo circa sei mesi, in mani, v’assicuro, tutt’altro che virtuose.
È quella un’epoca troppo vicina alle prime ore della mia vita perch’io possa raccontar nulla di me se non quanto so per sentito dire; basterà ricordare che, nata com’ero in quel luogo di sventura, non appartenevo a nessuna parrocchia cui potessi ricorrere per sostentarmi nell’infanzia; e neppure so menomamente spiegarmi come mi abbiano tenuta in vita, se non che, mi hanno detto, qualche parente di mia madre mi prese con sé, ma chi abbia fatto le spese e chi dato l’incarico, ignoro.
Il primo ricordo di me che riesco a raccogliere, o meglio che abbia mai appurato, è che vagabondavo con una banda di quella gente che chiamano zingari, o gitani; ma credo che con loro ci fossi stata pochissimo, perché non feci a tempo a rimetterci il colore della pelle, come succede a tutti i ragazzi che quelli tengono con sé. Nemmeno so dire come sia capitata fra loro né come li abbia lasciati.
Fu a Colchester nell’Essex, che gli zingari mi lasciarono, e ho mezzo in mente che fui io a lasciarli (mi nascosi cioè, e non volli piú saperne di proseguire con loro), ma su questo punto non sono in grado di dare nessun particolare; questo solo ricordo che, raccolta a Colchester da qualcuno degli incaricati della parrocchia, feci un racconto, com’ero venuta in città cogli zingari ma che non avevo piú voluto andar con loro e cosí m’avevano abbandonata, però non sapevo dove si fossero diretti. Pare infatti che, quantunque si fosse mandato attorno per tutta la campagna alla ricerca, gli zingari non fossero reperibili.
Era adesso naturale che provvedessero a me, perché, quantunque per legge non andassi a carico di nessuna parrocchia di questa o di quella parte della città, pure sapendosi del mio caso ed essendo io ancor troppo piccola per poter lavorare (non avevo piú di tre anni), i magistrati della città vennero toccati da compassione e si presero cura di me, tanto che divenni una delle loro orfane come se fossi nata in quel luogo.
Nell’assestamento che mi diedero, fu la mia buona fortuna di venir allogata a balia, come dicono, presso una donna che era povera sí, ma aveva veduto tempi migliori e ricavava un piccolo sostentamento incaricandosi di bambine della mia stessa condizione, e provvedendo loro il necessario, sinché non fossero a una certa età in cui ci si poteva ripromettere di mandarle a servizio o a guadagnarsi altrimenti il pane.
Questa donna teneva pure una piccola scuola in cui insegnava alle bambine a leggere e far altri lavori; e siccome, ripeto, in passato aveva vissuto in società, queste bambine le tirava su con moltissima arte, non solo, ma con moltissima cura.
Inoltre, e ciò valeva tutto il resto, le educava anche molto religiosamente, essendo lei stessa donna molto posata e pia; in secondo luogo, ottima massaia e molto pulita; in terzo luogo, garbata e ben costumata. Sicché, ove s’eccettui il vitto semplice, l’alloggio povero e il vestire grossolano, venivamo allevate con altrettanta gentilezza che se avessimo frequentato la scuola di ballo.
Stetti là continuamente fino a che ebbi otto anni e poi giunse la tremenda notizia che i magistrati (credo si chiamassero cosí) avevano deciso che entrassi a servizio. Io non ero capace di far molto, dovunque mi dovessero destinare, quando si eccettui correre per commissioni e servir da sguattera in una cucina. Ciò me l’avevano molto ripetuto e ne ero spaventatissima, perché sentivo una profonda avversione all’idea di entrare, come si diceva, a servizio, benché fossi cosí giovane. Dissi alla mia balia che credevo di potermi guadagnare la vita senza andare a servizio, se voleva esser cosí buona da darmi il suo consenso; mi aveva infatti insegnato a lavorare d’ago e filare la lana, ch’era la principale industria della città, e le dicevo che, se avesse voluto tenermi, avrei lavorato per lei, lavorato indefessamente.
Quasi ogni giorno le parlavo di lavorare indefessamente, e insomma non facevo altro che lavorare e piangere tutto il giorno, cosa che affliggeva talmente quell’ottima donna che alla fine incominciò a inquietarsi, perché mi voleva molto bene.
Un giorno, in seguito, essa entrò nella stanza dove noi, povere bambine, stavamo lavorando, e mi si sedette vicino proprio in faccia, non nel solito posto di maestra, ma come se avesse il proposito di osservarmi e vedermi lavorare. Io stavo eseguendo qualcosa cui lei m’aveva messo, ricordo che eran camicie da cifrare che lei faceva per le clienti, e dopo un po’ mi rivolse la parola: – Sciocchina, – mi disse, – piangi sempre, tu? – (perché allora piangevo). – Vediamo, perché piangi? – Perché mi manderanno via, – risposi, – e mi metteranno a servire e io non so fare quei lavori. – Ma, piccola, – mi disse lei, – se non sai fare quei lavori, col tempo imparerai e le prime volte non ti daranno delle cose troppo difficili. – Sí che me le daranno, – risposi, – e se non sarò capace, mi picchieranno, e le cameriere mi picchieranno per farmi lavorare molto, ma io sono soltanto una bambina e non sono capace, – e qui mi rimisi a piangere, tanto che non fui piú in grado di parlare.
Il dialogo commosse la mia buona e materna balia, sicché risolse che per il momento non sarei andata a servire; mi disse quindi di non piangere, che avrebbe parlato al signor Sindaco, e non mi avrebbero mandata a servire finché fossi piú grande.
Ebbene, neanche questo mi contentò, perché il solo pensiero di andare una volta o l’altra a servire era per me talmente orribile che, se anche mi avesse assicurato che non ci sarei andata fino ai vent’anni, sarebbe stata per me la stessa cosa, avrei continuato tutto il tempo a piangere, alla semplice idea che cosí sarebbe stato un giorno.
Quando s’accorse che non ero ancora chetata, cominciò a stizzirsi. – E che vorresti fare? – mi disse. – Non ti ho già detto che non andrai a servire finché non sarai piú grande? – Sí, – rispondevo, – ma allora dovrò bene andare. – Ma insomma, – disse lei, – questa ragazza è folle. Come! vorresti fare la signora? – Sí, – risposi e mi rimisi a piangere tanto dirottamente che tornai a strillare.
Ciò fece ridere la vecchia dama alle mie spalle, come potete ben credere. – Ma certo, madamigella, sicuro, – mi disse, canzonandomi, – vorresti fare la signora; e com’è che diventerai una signora? Col lavoro delle tue dita, eh?
– Sí, – ripetei io, con tutta ingenuità.
– Come? che cosa puoi guadagnare, – mi disse, – che cosa puoi raccogliere al giorno col tuo lavoro?
– Sei soldi, – risposi, – a filare, e otto se faccio un cucito semplice.
– Oh, povera signora, – ripeté lei, ridendo – a che vuoi che ti serva questo?
– Basterà per mantenermi, – dissi, – se mi lascerete vivere insieme con voi, – e dissi questo in cosí desolato tono di supplica che quella povera donna, come mi raccontò in seguito, si sentí struggere il cuore per me.
– Ma, – riprese, – ciò non basterà a mantenerti e comperarti i vestiti; chi li ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
- Moll Flanders di Mark Schorer
- Prefazione di Cesare Pavese
- Cronologia
- Bibliografia
- Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
- L’autore ai Lettori
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright