La conversazione necessaria
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La conversazione necessaria

La forza del dialogo nell'era digitale

  1. 456 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La conversazione necessaria

La forza del dialogo nell'era digitale

Informazioni su questo libro

Viviamo in un mondo che sempre piú sacrifica i piaceri e i benefici della conversazione sull'altare delle tecnologie digitali. Parliamo con un amico, ma nel frattempo diamo piú di un'occhiata allo smartphone, e spesso i nostri figli si lagnano se non hanno tra le mani un dispositivo elettronico. Viviamo costantemente in un altrove digitale. Ma per capire chi siamo, per comprendere appieno il mondo che ci circonda, per crescere, per amare ed essere amati, dobbiamo saper conversare. La perdita della capacità di parlare «faccia a faccia» con gli altri - con empatia, imparando nel contempo a sopportare solitudine e inquietudini - rischia di ridurre le nostre capacità di riflessione e concentrazione, portandoci, nei casi estremi, a stati di dissociazione psichica e cognitiva. In questo libro, frutto di anni di interviste e di indagini sul campo, Sherry Turkle, «l'antropologa del cyber-spazio», sottolinea le insidie e gli effetti delle appendici tecnologiche che ci circondano nella società e nella nostra vita quotidiana, per far sí che ognuno ridiventi padrone di se stesso, senza farsene acriticamente dominare.

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Due sedie

In famiglia

«Papà! Smettila di stare su Google! Voglio parlare con te!»

A casa mia litighiamo parlandoci in Gchat. Rende le cose piú facili. Quale sarebbe la proposta di valore di esprimere di persona il reciproco dissenso?
COLIN, STUDENTE AL PRIMO ANNO DI COLLEGE
Un caro amico mi invita a una cena di famiglia nel Maine. Vado in auto da Boston. Ritrovo persone con cui condivido una lunga storia di amicizia; si chiacchiera di politica, di lavoro, di figli, e si scambiano pettegolezzi locali. La mia attenzione cade su una ragazza sui vent’anni, Alexa, che fissa intensamente il cellulare. Scambiamo qualche parola. È gentile, ma quando il cellulare si illumina, mi guarda con un mezzo sorriso e capisco che il nostro tempo insieme è scaduto. Ha appena ricevuto qualcosa sul servizio di messaggistica Snapchat, credo un’immagine che resta visualizzabile solo pochi secondi dopo averla aperta. La ragazza è comprensibilmente ansiosa di guardarla, per cui mi scuso e lascio che si dedichi al suo smartphone. Nelle ore successive, Alexa posa il cellulare e si unisce agli altri ospiti, forse quattro o cinque volte, ogni volta per qualche minuto. Mi guardo intorno cercando i bambini piú piccoli, e anche loro sono al cellulare.
Anche Stan, un amico sui cinquantacinque anni, sta osservando Alexa. Cominciamo a parlare, ripensando alle riunioni di famiglia della nostra infanzia e ricordando che a volte eravamo messi a sedere al tavolo dei bambini e ci sforzavamo di ascoltare le conversazioni dei grandi. Quando i nostri genitori parlavano con altri adulti, sembrava che si esprimessero in una lingua diversa. C’erano succosi pettegolezzi sui vicini. C’erano storie di parenti che non si sapeva nemmeno di avere. Stan dice: «Mi ricordo come ero eccitato quando pensavo di avere finalmente qualcosa da dire agli adulti. E se poi si dimostravano interessati, allora pensavo tra me: “Anch’io so parlare!”» Ho trovato molti nostalgici come me e Stan, ma la nostalgia non è mai affidabile come guida comportamentale. Cosí, allo stesso modo in cui le persone dicono che è sbagliato rompere una relazione con un sms, ma comunque lo fanno, gli stessi che farciscono di poesia le conversazioni che si facevano durante le cene di una volta ammettono che durante le cene di famiglia di oggi stanno incollati ai cellulari, mandando sms.
Capita quindi che i figli, fin dai primi anni, si lamentino di dover competere con gli smartphone per ricevere l’attenzione dei genitori. A cena, una bambina di cinque anni cerca di convincere la mamma quando il suo cellulare vibra per la terza volta: «Per favore! L’hai promesso! Non sono passati nemmeno cinque minuti dall’ultima telefonata!» Un bambino di otto anni si alza dal tavolo e tira per la manica la madre che sta prendendo il cellulare mentre si mangia. «No. Non adesso. Non ora!», implora. Voltando le spalle al figlio, la madre replica: «Mamma deve fare una chiamata veloce». Il ragazzo se ne torna imbronciato alla sua sedia.
In quello che per me rimane un momento iconico, Chelsea, una ragazza di quindici anni che era stata in vacanza in un campeggio estivo senza cellulari e altri dispositivi digitali, descrive il suo disappunto quando il padre, durante un weekend aperto alle visite dei genitori, aveva interrotto la cena per guardare qualcosa sul cellulare.
Sere fa ero a cena con mio padre. Avevamo giusto cominciato una conversazione, e io non ricordavo qualcosa, tipo il nome del regista di un film che avevamo visto. Lui si è messo automaticamente a cercarlo sul cellulare. E io allora: «Papà, smettila di stare su Google. Voglio parlare con te. Non mi importa quale sia la risposta giusta! Voglio solo parlare con te».
Chelsea vuole per sé tutta l’attenzione del padre ed è sconvolta dal suo assillo per il cellulare. Eppure, quando non è al campeggio estivo, dice di trattare gli amici proprio come l’aveva trattata suo padre, cioè interrompe le conversazioni per cercare qualcosa sul telefonino, spedisce un sms o controlla il suo account su Instagram. Ecco quanto è complesso il momento in cui viviamo e quali sono le sue contraddizioni.
Famiglie 2.0. L’utilità delle conversazioni famigliari.
A prima vista, la vita famigliare di oggi assomiglia alquanto a quella di sempre; abbiamo mantenuto l’aspetto formale: si fanno cene, gite scolastiche, riunioni di famiglia e via dicendo.
A uno sguardo piú attento, tuttavia, sembra che viviamo una vita famigliare al quadrato: possiamo condividere molto di piú con i nostri cari: video, fotografie, giochi, il mondo intero. E possiamo stare «con» le nostre famiglie in modi nuovi, per certi versi, senza mai allontanarci da esse. Ricordo ancora la prima notte trascorsa lontano da mia figlia, che all’epoca aveva appena un anno. Parlai con lei, che stava nel Massachusetts occidentale, mentre mi trovavo sola in una stanza d’albergo a Washington D.C. Stringevo forte il ricevitore del telefono mentre mio marito teneva la cornetta all’orecchio di mia figlia e facevo finta che avesse capito che ero io all’altro capo del cavo telefonico. Quando riattaccammo, scoppiai a piangere perché pensavo che non avesse capito niente. Ora, invece, avremmo Skype. Avremmo FaceTime. E se fossimo lontane, potrei stare a guardarla giocare per ore.
Da un altro punto di vista, tuttavia, il ruolo della tecnologia nella vita famigliare risulta piú complesso. Come in molti altri aspetti della vita, siamo tentati di stare uno con l’altro, ma anche altrove. A tavola e nel parco giochi, genitori e figli si dedicano a cellulari e tablet. Le conversazioni che si svolgevano abitualmente faccia a faccia ora migrano online. Alcune famiglie mi dicono che a loro non dispiace condurre le loro discussioni con sms, mail e Gchat e che questo aiuta a esprimersi con maggiore precisione. Alcuni li chiamano «litigi per sms».
Nelle famiglie, la fuga dalla conversazione va ad aggravare una crisi di educazione parentale. Abbiamo bisogno del dialogo famigliare per l’opera che esso riesce a svolgere, a partire da ciò che insegna ai bambini sul loro Sé fino alla capacità di andare d’accordo con gli altri. Partecipare a una conversazione significa immaginare un’altra mente, entrare in empatia e apprezzare all’interno di tale mezzo di comunicazione la gestualità, l’umorismo e l’ironia dell’interlocutore. Come per il linguaggio, la capacità di imparare queste sottigliezze umane è innata, ma il suo sviluppo dipende dall’ambiente in cui il bambino vive1. Naturalmente, le conversazioni a scuola e nel gioco sono fondamentali. Ma è la famiglia, prima di tutti, a doversi occupare del bambino, per lungo tempo e con i rapporti affettivi piú forti. Quando gli adulti dimostrano di ascoltare attentamente gli altri nel corso di una conversazione, essi insegnano ai bambini come funziona la capacità dell’ascolto. Nelle conversazioni in famiglia, i bambini apprendono quanto sia confortante e piacevole essere ascoltati e capiti.
È in queste conversazioni che i bambini imparano per la prima volta a vedere gli altri come persone diverse da loro stessi e degne di comprensione. È dove i bambini imparano a mettersi nei panni di qualcun altro, spesso di un fratello. Se un bambino è arrabbiato con un compagno di classe, potete suggerirgli che sarebbe utile in quel caso cercare di capire il punto di vista dell’altro bambino.
È nelle conversazioni famigliari che i bambini hanno le maggiori possibilità di imparare che ciò che le persone dicono (e come lo dicono) è la chiave per comprendere ciò che esse provano. E che questo è importante. Le conversazioni in famiglia sono dunque un terreno su cui esercitare l’empatia. Quando un adulto chiede «Come ti senti?» a un bambino scombussolato per qualcosa, egli può chiarirgli al tempo stesso che rabbia e frustrazione sono emozioni accettabili e fanno parte dell’essere umano. Non si devono nascondere o negare i sentimenti di turbamento. Ciò che conta è come ci comportiamo a riguardo.
I discorsi in famiglia rappresentano un momento utile a imparare che delle cose bisogna parlare, anziché passare subito all’azione sotto l’impulso delle emozioni, per quanto forte esso possa essere. In questo modo, la conversazione in famiglia può vaccinare i bambini contro il bullismo, che viene facilmente scoraggiato quando i bambini riescono a calarsi nei panni degli altri e a riflettere sull’effetto delle loro azioni.
La privacy della conversazione famigliare insegna ai bambini che si può vivere parte della nostra vita in un cerchio chiuso e protetto. In questo c’è sempre un po’ di una finzione, ma l’idea di uno spazio famigliare custodito è di grandissima utilità, poiché abitua i bambini a pensare che i rapporti hanno delle barriere sulle quali si può contare. Questo rende la conversazione in famiglia un momento in cui si possono lasciare crescere le idee senza operare alcuna autocensura. Nel mondo delle performance del «Condivido, dunque sono», la conversazione famigliare rimane uno spazio dove essere autentici. Essa insegna inoltre che alcune cose richiedono tempo per essere comprese in profondità – anche un bel po’ di tempo – e che si può trovare quel tempo perché ci sono persone che non hanno fretta. Un cellulare a tavola può interrompere tutto questo. Una volta che un telefono ha fatto la sua comparsa, si diventa come tutti gli altri, in competizione con tutto il resto.
La cerchia privilegiata dei discorsi in famiglia è delicata. Roberta, una ragazza di ventun anni, è dispiaciuta che la madre abbia cominciato a pubblicare su Facebook foto di cene di famiglia. Per Roberta, qualcosa si è rotto. Ora non ha piú la sensazione che la sua famiglia sia da sola attorno al tavolo da pranzo: «Non posso neanche rilassarmi con la mia famiglia e indossare pantaloni della tuta quando ho freddo. Mia mamma potrebbe pubblicarne una foto». Roberta lo dice per metà scherzando, ma è evidente che a turbarla è qualcosa di piú che perdere l’occasione di rilassarsi in tuta. Ciò che vuole è un momento in cui potersi sentire «sé stessa», senza preoccuparsi dell’impressione che sta eventualmente offrendo ad altri.
Quando si dispone di uno spazio protetto, non è necessario badare a ogni singola parola. Eppure, negli ultimi tempi, molto di ciò che mi capita di sentire da parte di genitori e figli riguarda proprio il loro desiderio reciproco di dirsi le «cose giuste». Idealmente, la cerchia famigliare è un luogo dove non ci si dovrebbe sempre preoccupare di far ogni cosa per benino. Quello che dovremmo sentire è che la nostra famiglia è impegnata con noi, dovremmo sentire fiducia e senso di sicurezza. Affinché la nostra prole riceva questi premi, gli adulti devono essere ben presenti, mettere via i cellulari, guardare i figli e dare loro il pieno ascolto. E poi, ripetere.
Esatto, ripetere. Nella conversazione famigliare, gran parte del lavoro si può considerare concluso quando i figli imparano di trovarsi in un luogo in cui possono tornare, domani e dopo ancora. Quando i media digitali ci spronano a correggerci fino a quando non formuliamo la «cosa giusta», possiamo perdere di vista il fatto piú importante: i rapporti diventano profondi non perché diciamo necessariamente qualcosa di particolare, ma perché ci sentiamo sufficientemente coinvolti in essi da essere pronti per un’altra conversazione. Nei discorsi in famiglia, i figli imparano che la cosa piú importante non è condividere un’informazione bensí mantenere vivi nel tempo i rapporti. Ed è alquanto difficile mantenerli vivi se siamo tutto il tempo al cellulare.
Altrove: uno studio sulla distrazione.
Nel 2010, una giovane pediatra, Jenny Radesky, cominciò a notare che sempre piú genitori, o le persone che ne facevano le veci, erano occupati con il loro smartphone mentre stavano con bambini piccoli. «Nei ristoranti, sui mezzi di trasporto, nei campi da gioco, – afferma la pediatra, – i cellulari sono onnipresenti». Radesky sapeva bene che in momenti del genere è fondamentale rivolgere la piena attenzione ai bambini: si tratta dei «mattoni fondamentali nella costruzione dei rapporti».
Sono i momenti in cui siamo lí per prestare ascolto ai nostri figli, per rispondere loro verbalmente e non verbalmente, aiutarli a risolvere i problemi generati da nuove sfide o da reazioni intense, aiutarli a capire sé stessi e le loro esperienze. […] È cosí che i bambini imparano a tenere a bada le forti emozioni, a leggere i segnali di carattere sociale delle altre persone e a sostenere una conversazione: tutte capacità che sono molto piú difficili da imparare in seguito, diciamo a dieci o quindici anni2.
Con genitori e baby-sitter impegnati al cellulare, pensò Radesky, quelle prime e cruciali conversazioni venivano interrotte. In che modo interrotte? E quanto tempo passavano realmente al cellulare quegli adulti? Radesky studiò cinquantacinque adulti che sorvegliavano i bambini mentre mangiavano insieme in ristoranti fast food. Risultato: in linea generale, gli adulti prestavano piú attenzione ai loro smartphone che ai bambini3. Alcuni interagivano con i piccoli a intermittenza; i piú si estraniavano del tutto con i loro dispositivi digitali. I bambini, dal canto loro, diventavano passivi e distaccati o iniziavano ad attirare l’attenzione degli adulti con futili esplosioni di comportamenti riprovevoli.
È in momenti simili che assistiamo ai nuovi silenzi della moderna vita famigliare. Vediamo bambini che imparano rapidamente che, qualunque cosa facciano, non riusciranno a distogliere gli adulti dai loro dispositivi tecnologici. Vediamo bambini privati non solo di parole, ma anche di adulti che li guardino negli occhi. Quando nei ristoranti fast food studiati da Radesky i bambini si sforzavano di stabilire un contatto visivo con gli adulti, lo facevano per una loro forma di saggezza interiore. Fin dalla piú tenera età, infatti, le basi della stabilità emotiva e della scioltezza nei rapporti sociali si sviluppano quando i bambini hanno un contatto visivo e interagiscono con volti attenti e solleciti. I neonati deprivati del contatto visivo e posti di fronte al «viso immobile» di un genitore diventano agitati, poi si chiudono in sé stessi e infine cadono in depressione4. Oggigiorno, i neuroscienziati ipotizzano che il genitore concentrato sul proprio cellulare quando dovrebbe occuparsi dei figli può «effettivamente proporre un modello del volto immobile» – in casa o al ristorante –, con tutti i danni connessi5. Non c’è da stupirsi se i bambini deprivati delle parole, del contatto visivo e di volti espressivi si irrigidiscono e diventano indifferenti agli altri.
I genitori si chiedono se l’uso del cellulare possa portare alla sindrome di Asperger. Non serve nemmeno iniziare tale dibattito per affermare un’ovvietà. Se non badiamo ai figli e non li coinvolgiamo nel dialogo, non c’è da stupirsi che essi crescano impacciati e chiusi in sé stessi. Oltre che con l’ansia di dover sostenere una conversazione.
L’ipotesi del «chip mancante».
A casa di Leslie, gli occhi sono spesso abbassati e i pasti vengono consumati in silenzio. Leslie, che ha quindici anni, dice che i silenzi iniziano quando la madre infrange la sua stessa regola che a tavola non ci devono essere cellulari. Poi, non appena compare lo smartphone della madre, avviene una «reazione a catena». Le conversazioni famigliari a cena sono cose fragili.
Insomma, mia mamma è sempre occupata con le sue mail, sempre al cellulare, che quando siamo a tavola tiene sempre accanto a sé. […] Basta il minimo ronzio o vibrazione e lei va subito a guardare. Trova sempre qualche scusa. Quando siamo fuori a cena fa finta di metterlo via, ma in realtà se lo tiene in grembo. Abbassa sempre lo sguardo, ed è tutto cosí ovvio. Io, mio padre e mia sorella le ripetiamo tutti di lasciar perdere il cellulare.
Se poi fossi io al cellulare mentre siamo a tavola, mi punirebbe… intanto lei il suo ce l’ha sempre lí pronto. […] Quando siamo a cena, la mamma si fa i fatti suoi al cellulare, cosí si finisce con mio padre seduto lí, io seduta lí, mia sorella seduta lí, e nessuno che dica una parola o faccia qualcosa. È una reazione a catena. Basta che cominci una sola persona. Basta che smetta di parlare una sola persona.
Leslie vive in un mondo di occasioni mancate. A casa, non sta imparando tutto ciò che una conversazione potrebbe insegnarle: il valore dei suoi sentimenti, come esprimerli e come cap...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La conversazione necessaria
  3. In difesa della conversazione
  4. Una sedia
  5. Due sedie
  6. Tre sedie
  7. La via del futuro
  8. Una quarta sedia?
  9. Ringraziamenti
  10. Indice analitico
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright