Una madre lo sa
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Una madre lo sa

Tutte le ombre dell'amore perfetto

  1. 136 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una madre lo sa

Tutte le ombre dell'amore perfetto

Informazioni su questo libro

Spesso gli articoli di giornale, i dibattiti sui fatti di cronaca, i trattati di scienza forniscono gli elementi per distinguere una «buona» madre. Decretano cosa sia normale e cosa no. Stabiliscono i meriti e le colpe. Ma sono quasi sempre lontani dalla realtà. Da Brooke Shields a Valentina Vezzali, fino alle madri di Plaza de Mayo, Concita De Gregorio racconta venti storie di maternità che scaldano il cuore. Venti vicende vere per scoprire quanti siano i modi di essere madre, o di non esserlo affatto. Di quante ombre sia pieno l'amore perfetto, quello tra madri e figli, e di quante risorse inattese. Quante strade esistano per accogliere quello che viene, quello che c'è. Un libro commovente e sincero che fa arrabbiare e sorridere. E che ognuno di noi dovrebbe leggere. Perché dalle donne passa la vita di tutti, sempre. Dalla pancia, dalla testa, dalle mani e dai ricordi. E una madre tutto questo lo sa.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806230708

Introduzione

Cosa sia una «buona madre» lo decidono gli altri. Il coro. Lo sguardo che approva e che rimprovera. Quelli che sanno sempre cosa si fa e cosa no. Cosa è giusto, saggio, utile. Quelli che dicono «è la natura, è cosí»: devi avere pazienza, assecondare i ritmi, provare tenerezza, dedicarti. Se ti senti affondare è perché sei inadeguata. Se soffochi è perché non hai gli strumenti della maturità. Se i figli non vengono devi rassegnarti, non accanirti, non insistere: si vede che non eri fatta per essere madre. Se non ne hai voluti devi avere in fondo qualcosa che non va. Se non hai nessuno vicino che voglia farne con te è perché non l’hai trovato, sei stata troppo esigente, forse troppo inquieta. Se preferisci il lavoro allora cosa pretendi. Se non ci sei mai che ne sarà di tuo figlio, se gli stai sempre addosso come potrà rendersi autonomo. Se ti stanca sei depressa, se ti fa impazzire sei un mostro. Se hai un padre ingombrante, una madre assente, se sei sopraffatta dalla loro presenza o se sei orfana; se la maternità non ti invade naturalmente e spontaneamente come un raggio di luce, se non ti cambia i connotati rendendoti nutrice solare, improvvisamente dedita e paziente: ecco, allora è chiaro che non hai l’istinto giusto. Sei inadatta, sei contro natura. Colpevole, a pensarci bene. Una cattiva madre.
Eppure gli amori maldestri e asimmetrici, le donne che fanno figli per sempre o per un momento, quelle che non li fanno senza per questo sentirsi mancanti, senza sentirsi mancare, prendendosi intanto cura del mondo: quei casi esclusi dai manuali e dall’approvazione di chi intorno annuisce sono lí, evidenti. Vanno avanti, inciampano, si rialzano, ti salutano, mandano cartoline.
È che la vita per fortuna dà un posto alle cose. Quando sembra che non ce ne sia uno per sé guardarsi attorno aiuta. Le storie, anche poche storie incrociate senza averle cercate, parlano di questo: di come invece ci sia un posto per tutto, a saperglielo dare. Un posto anche per l’assenza. Di quante ombre sia pieno l’amore perfetto, e di quante risorse inattese. Di quanti modi esistano per accogliere quello che viene, quello che c’è. Tanti modi cosí diversi e tutti senza colpa, alla fine: i modi che ciascuno trova. Certi drammatici, certi lievi e pieni di allegria. Cosa sia davvero contro natura è un altro tribunale a decidere. Dalle donne passa la vita, sempre. Dalla pancia, dalla testa, dalle mani e dai ricordi. Dalla capacità e dal desiderio di tenere dentro, a volte dall’impossibilità di farlo. Quello che succede nel transito non è materia per dibattiti.
Vorrei che tu fossi la madre dei miei figli. Non c’è niente di piú grande che una persona possa dire a un’altra. Niente di piú doloroso che sentirselo negare. Non c’è nulla di piú difficile da sostenere e insieme niente di meglio da desiderare. Non serve nemmeno che succeda, poi, e spesso non servono le parole per dirlo. Si sente, è quel pensiero. Vorrei essere la madre dei tuoi figli. Dei miei. Vorrei essere madre. Vorrei essere, e basta. Esserci forte, pianissimo, alla luce o di nascosto. Andare avanti senza perdere nulla di quello che c’è dietro. Tutto intorno è cosí del resto: basta mettersi in ascolto.
Mettersi in ascolto significa identificarsi, vestire i panni dell’altro, immaginare il suo punto di vista. Viviamo in un mondo sordomuto di vite blindate, dove ogni incontro ha il sapore di un miracolo. Negli anni, mesi o istanti in cui vive, l’incontro si alimenta di questo: di comunicazione. Non di parole, non è quello: vive di sintonia. Come con le manopole della radio: bisogna aggiustare la ricezione, trovare la lunghezza d’onda dell’altro e finalmente sentire. Sfiorare anche solo un momento la meraviglia dell’unisono: un solo suono, lo stesso suono, un suono cosí chiaro. Non c’è nessuna comunicazione o – peggio – c’è solo sfinente comunicazione formale, senza quel tentativo di immedesimarsi. Di ascoltare, appunto. Di capire e perciò di «sapere». Io ti conosco come nessun altro, dicono le madri ai figli, gli amanti agli amati. Intendono dire: io ti sento, io ti so. Io ti sono dentro.
Questo libro nasce dal disagio di non trovare fuori quel che c’è dentro. Come quando il suono è disturbato, quel disagio lí: come quando la ricezione è deformata e non c’è corrispondenza tra il tuo ascolto e le voci intorno. Sul tema della maternità – le luci e le ombre dell’amore perfetto – c’è un sentire privato e uno collettivo, c’è la vita com’è e poi c’è la sua rappresentazione corale, pubblica e condivisa: non coincidono quasi mai, com’è possibile? I racconti, gli articoli di giornale, le leggi scritte, i trattati di scienza, i dibattiti sui fatti di cronaca fanno un gran rumore continuo e decretano cosa sia accettabile e legittimo, cosa «normale» e cosa no. Forniscono gli elementi per distinguere la buona madre, giudicano e stabiliscono le colpe, i meriti. Sono quasi sempre lontani dalla realtà. Non sono in sintonia con la verità individuale, non la «sentono». Eppure di madri è pieno il mondo, ciascuno ne ha una. Le madri alimentano l’esistenza, mettendo al mondo anche chi madre non è: la relazione che corre tra madri e figli non è un tema da donne. Non serve essere un cane per fare il veterinario, non occorre essere già morti una volta per lavorare in terapia intensiva. Non bisogna aver partorito per aver voglia di capire come funziona il delicato meccanismo che si mette in moto all’alba dei giorni: è il cuore della vita di tutti.
La mia generazione ha conosciuto le nonne. Ci è cresciuta, spesso. Le nonne venivano da un’altra epoca, quella in cui alle donne era richiesta la cura della famiglia: un lavoro immane, ma solo quello. Facevano i figli a sedici anni perché le loro madri li avevano fatti a sedici, non avevano il compito di assecondare il proprio talento e le proprie inclinazioni, non erano state educate ad anteporre la propria indipendenza culturale ed economica al resto, non avevano master a Boston da seguire per non restare fuori dalla competizione del lavoro, non erano uguali agli uomini: erano diverse, avevano un destino diverso. Rinunciavano molto, soffrivano di certo, insegnavano la sopportazione. Avrebbero potuto essere medici straordinari e si limitavano a curare le ferite dei figli coi rimedi di casa, sarebbero state fantastici amministratori delegati e dovevano invece solo contenere le rovine economiche dei mariti, disapprovati in silenzio. Insegnavano cose come: «Quando il tuo uomo dice qualcosa che non condividi non discutere, fai come se fosse il rumore della pioggia. Lascialo dire, poi passa». Raccontavano ai nipoti favole terrificanti. In Toscana c’è quella di Cecino e il bue, l’ha poi trovata anche Calvino. Si racconta ancora, comincia cosí: «“Mamma ho fame! Mamma ho sete! Mamma prendimi in collo!” gridavano i cento bambini piccoli come chicchi di cece comparsi dal nulla e subito sparpagliati fra i barattoli, i cassetti, i fornelli. La donna, spaventata, prese a inseguire questi esserini, a ficcarli nel mortaio e a schiacciarli col pestello come a farne purea di ceci. Quando credette di averli ammazzati tutti si mise a preparare il mangiare per il marito». La sera, per addormentarci, le nonne cantavano una ninna nanna che dice cosí: «Questo bimbo a chi lo do? Se lo do all’uomo nero me lo tiene un anno intero». Questi figli, da schiacciare nel mortaio e da dare all’uomo nero. Questi figli cosí faticosi, cosí pesanti, questi figli da dare via. Perché racconta questo la saggezza popolare? Perché i genitori troppo poveri per mantenerli abbandonano i loro bambini nei boschi? Lo spiega García Lorca nel suo saggio che raccoglie le ninne nanne spagnole. Nella tradizione orale, quella che ti tramandano nel dormiveglia quando hai un anno e mezzo, i figli per le madri sono un peso. La favola a due anni te la dimentichi, poi a quaranta te la ricordi.
La mia generazione ha avuto madri moderne, madri lavoratrici, consapevoli e colte, madri «anche» madri oltreché giudici, caporeparto, sarte, professoresse, medici. La prima generazione di madri che ci ha insegnato con l’esempio che quel sacrificio lí, quello delle nonne, non si faceva piú: avevano combattuto per noi la battaglia dell’uguaglianza portandoci neonati alle assemblee. L’avevano vinta. In televisione davano Pippi Calzelunghe, la storia di una bambina orfana e felice, sola al mondo e piena di amici, autosufficiente, fortissima, una che si cucina da sola e che non va a scuola, una che a vivere impara da sé. Anche a casa, del resto, qualche volta si cucinava da soli: mamma era al lavoro, papà anche. Era normale cosí: era stata la loro battaglia e la nostra verità, l’unica data. Poi l’estate si andava insieme in vacanza, si scoprivano le cose del mondo, si immaginava di esserne i padroni, tutto sembrava possibile e ancora da succedere. Bisognava solo impegnarsi e studiare, il resto sarebbe venuto da solo. Era ovvio che sarebbe andata cosí.
Noi a vent’anni non ci abbiamo pensato nemmeno per scherzo a metter su famiglia. Avevamo una quantità immensa di altre cose da fare. A trenta, quando la diversità che pure alligna nella biologia chiama a campane di festa, qualcuna si è arresa e poi defilata a crescere i bambini, qualcun’altra no. A quaranta è stato a volte troppo tardi. Nessuno ci aveva avvisate che il «doppio lavoro» avrebbe portato con sé alla fine questo tipo di scelta; in effetti non è sembrata nemmeno una scelta: è andata cosí. I figli arrivano a un certo punto, poi – al netto della medicina – non arrivano piú. Le soddisfazioni di lavoro in genere anche. Purtroppo è lo stesso lasso di tempo.
Cosí diventa tutto eccezionale, fuori norma. La supermamma che vince le Olimpiadi, fa un figlio e dopo tre mesi vince i mondiali di scherma. Fuori norma verso l’alto. La celebre bellissima attrice che a quarant’anni partorisce e sogna di scaraventare il figlio contro un muro. Fuori norma verso il basso. La ragazza che diventa madre da sola: fuori norma a sinistra; quella che tiene in braccio una bambina ammalata e lascia il lavoro, la vita sociale, lascia il mondo per dedicarsi a fare fino in fondo la mamma: fuori norma a destra. Le madri che uccidono e che si uccidono, i padri che non vedono: dove sono i padri in queste storie? Le figlie che vivono schiacciate dall’assenza e dalla distrazione paterna; le figlie che vogliono prendere il loro posto, proprio quello, nel gioco della politica; quelle che girano film per essere viste da tutti poiché gli è mancato, del padre, lo sguardo. Le donne che essere madri non vogliono, per loro articoli di giornale a tutta pagina: ecco l’ostetrica che ha fatto nascere mille bambini e non ne ha avuto neanche uno. Incredibile no? Stranissimo. Le madri adottive, che l’istinto se lo devono costruire pezzo a pezzo, le madri che ai figli devono il riscatto di una vita bruciata da ragazze e poi rifiorita grazie a loro. Storie anche belle, storie felici e però fuori spartito. Eccezioni, appunto, dice il coro: la strada principale è un’altra, il quadretto agiografico della famiglia. Mostri, le cosí tante donne che si accaniscono sui loro bambini. E chi sono questi mostri?
Il nostro codice penale, che non è del secolo scorso ma di venticinque anni fa, stabilisce pene relativamente lievi per l’infanticidio: «La madre che cagiona la morte del neonato immediatamente dopo il parto … quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto è punita con la reclusione da quattro a dodici anni». Meno che per un omicidio, perché si suppone che abbia agito «in stato di grave turbamento» determinato dal parto, appunto, o dalla solitudine e dall’abbandono. Ci fu un lungo dibattito durante la discussione della legge. La senatrice comunista Carla Ravaioli parlò contro le considerazioni di psicopatologia associate alla maternità come se «rientrassero in una concezione maschilista di inferiorità psicofisica della donna». Cosí l’infanticidio ha, per cosí dire, punizione attenuata solo nei casi di donne senza compagno e senza dimora che uccidano il figlio entro cinque giorni dal parto. Vediamo la realtà, adesso. Nel 2003, in Italia, su ventidue donne ricoverate in ospedale psichiatrico giudiziario per infanticidio solo una era nubile. Sedici sposate, nessuna in stato di indigenza. Il delitto avviene molto di rado a ridosso del parto: nella maggior parte dei casi a diversi mesi o persino anni dalla nascita. Cosí, anche in un terreno cosí doloroso come è quello delle madri che uccidono, l’osservazione del reale, la legge italiana che lo codifica, è fuori sintonia rispetto alla vita vera. Come se non la vedesse, non la ascoltasse. Di piú: come se non la volesse vedere né ascoltare.
Le storie degli uomini – i nonni, i figli, i compagni –, che raccontano la loro preoccupazione e la loro premura per le ombre che avvolgono le madri, sono le voci piú limpide di questa raccolta: basta guardare, ci dicono, e vedere si può. Chiunque può farlo. Le voci dei bambini che chiedono tempo e che sempre perdonano per quello che manca sono le piú struggenti. Una madre è quella che ti è data, va bene com’è. Va bene anche una cattiva madre, forse. Di certo va bene una madre fuori norma, va bene una zia che fa da mamma, va bene un po’ di qualcosa, anche solo un pezzo. Va bene accogliere quel che succede, anche quello che non volevi e che non doveva succedere. Le donne sanno farlo meglio, dipende da come funzionano gli emisferi del loro cervello, spiegano i medici: le donne mettono in comunicazione la parte destra e la sinistra, ragionano per sintesi piú che per analisi, tengono insieme quel che insieme altrimenti non sta. Lo dice Almodóvar nel suo bel film: le donne sanno nascondere un cadavere e affettare i peperoni, hanno un posto per tutto. Le madri sono piú brave a uscire da un labirinto, insegnano i biologi: con un figlio sono piú veloci. Se sopraffatte da un’onda con due bambini in braccio lasciano andare il piú grande. Se sopraffatte dalla vita cercano comunque un posto dove mettersi in salvo con loro, e non è mai detto quale sia il peggiore dei mali né cosa sia la salvezza. Chi sia mai uscito in mare aperto, chi sia passato anche solo una volta tra l’onda e lo scoglio lo sa.

Il Cobra allatta. Valentina Vezzali

Quando ti dicono: «Mangia che il bambino ha bisogno, cosa te ne importa se ingrassi, le mamme sono tutte belle». Quando ti spiegano che adesso è meglio che tu non pensi al lavoro, lasciali perdere. Quando ti regalano l’iscrizione al corso di yoga dolce e ti parlano di quelle lezioni di musica per «mamme in attesa» dove si fa tutti insieme «patapim patapum» tenendosi per mano. Quando ti portano a casa dolcetti macrobiotici che sanno di intonaco e ti indicano nelle vetrine pigiamoni di felpa con cani bassotti giganti chiedendoti: «Ti piace, non è delizioso?» Quando va cosí è il momento di ricordarsi del Cobra.
Il Cobra quando è rimasta incinta è ingrassata venti chili. A Natale mangiava lasagne e tortelli fatti a mano dalla mamma. Venti chili, in totale settantatre: da sentirsi male al pensiero. Il 9 giugno ha partorito Pietro, diciotto giorni dopo ha ricominciato a combattere. Grassa, certo. In quattro mesi li ha persi tutti e venti mangiando anche un gelato ogni sera. Niente barrette né beveroni schifosi: dieta a zona, non piú di cinque ore fra un pasto e l’altro, 40 per cento di carboidrati, 30 di proteine e 30 di grassi, gelato compreso. Dopo quattro mesi è ritornata in pedana e ha vinto. Campionessa del mondo, di nuovo. La migliore di tutte, ancora. È stato a Lipsia: aveva al collo una tartarughina di Pietro come portafortuna e negli occhi quella luce lí. La stessa di tutta la vita, una luce che taglia. Ha fatto le stesse capriole che fa sempre, si è rotolata e ha urlato, pazza di gioia e di adrenalina ancora in circolo. Un attimo dopo, con la visiera alzata, ha telefonato a casa: come sta Pietro? Valentina Vezzali non è una donna dell’altro mondo, è una ragazza che dice anche frasi qualunque: «Fare un bambino è la cosa piú bella che mi sia mai capitata», «A mio figlio ci penso sempre», «A una certa età le donne hanno proprio bisogno di un figlio», «Non è importante quanto ci sto ma come ci sto». Sí, d’accordo. Poi però le altre si lasciano sopraffare: stanno ferme un anno, rinunciano alle gare. Solo mamme, prima di tutto mamme e il resto pazienza. Lei no: lei anche mamma. Mamma insieme al resto, mamma senza perdere niente della vita che corre e che brucia, che non è vero che si ferma in quel momento lí, che ti riduce prima a un contenitore senza forma e poi a un distributore di cibo a comando: no, la vita accelera con un bambino in braccio. Si illumina, si accende di senso, si moltiplica e sposta l’orizzonte lontanissimo. Bisogna solo governare la corsa. Essere allenati e attrezzati a farlo, questo sí. «Ho avuto fortuna perché tutto è venuto quando l’ho desiderato, e io ero pronta». In effetti è una fortu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Una madre lo sa
  3. Introduzione
  4. Il Cobra allatta. Valentina Vezzali
  5. Il figlio del bancomat
  6. La madre della madre
  7. Molly, vita di una bambina
  8. L’uomo che non dorme
  9. Raccontami la notte in cui sono nato
  10. A scuola con Alice
  11. Pippi, la bambina senza mamma
  12. Una madre lo sa
  13. Maman blues. Le parole degli altri
  14. Partorire è un po’ morire. Brooke e le altre
  15. Ninne nanne
  16. Non andare, io sto nudo
  17. Un’ora sola ti vorrei
  18. Mi vuoi bene anche se sono cattivo?
  19. Charlotte e Justine, lo sguardo del padre
  20. In ricordo di Greta
  21. Al suo posto, i figli di Craxi
  22. Sei nei miei piedi
  23. Hijos
  24. Sono nata coi figli. Franca Viola
  25. Volver
  26. Il libro
  27. L’autore
  28. Dello stesso autore
  29. Copyright