Mi senti?
Ricordo la sua voce, nella notte.
Svegliandomi di colpo, quell’estate, sentivo l’acqua scorrere nel bagno, i passi di mio padre in corridoio, i suoi colpi di tosse. Mia madre lo chiamava: – Vieni a dormire –. Lui rispondeva: – Non ho tempo.
Scendeva giú in garage o si sedeva al tavolo, in cucina.
Io mi riaddormentavo.
Una di quelle notti sentii il respiro di mio padre dietro la porta chiusa della mia camera da letto.
Rimasi immobile, in ascolto, e lui l’aprà ed entrò.
– Elia?
C’era la luce accesa alle sue spalle.
– Elia, mi senti?
Socchiusi appena gli occhi. Avrei dovuto chiedergli: Che cosa vuoi, papà ? che cosa ti succede?; invece mi voltai dall’altra parte, fingendo di dormire, tirandomi il lenzuolo sulla testa.
Il nome di mio padre, la voce bassa e roca con cui lo pronunciava – «Mi chiamo Ettore Furenti».
Mia madre lo adorava. La sorprendevo spesso a contemplarlo, il mento sulla mano, un sorriso stampato sulle labbra.
«Tuo padre è cosà bello. E riesce sempre a farmi ridere».
Perché lui era divertente: aveva una risata contagiosa e tutto un repertorio di storielle che amava raccontare.
«Elia? Vieni un po’ qua».
«Che cosa c’è?»
«Devi sentire questa».
Un uomo grande e grosso, la fronte ampia, capelli neri e gli occhi di un azzurro acquoso – lei era piccola, minuta e freddolosa, capelli e occhi castani. Lo vedo ancora adesso mentre la stringe a sé, tornato dal lavoro, con il giaccone addosso, entrambi cosà giovani: si voltano e sorridono, perché li sto guardando. Li vedo entrare in camera da letto, la testa di mia madre arriva appena alla sua spalla, e lui chiude la porta mentre mi strizza l’occhio.
D’estate, la domenica, mi portava al fiume a fare il bagno, oppure al cinema – il suo profilo in una nuvola di fumo, nella penombra della sala, e il modo in cui, appena usciti, incominciava a fischiettare e poi diceva: «Quando arriviamo a casa, facciamole uno scherzo». Svoltava sul vialetto, scendeva lentamente fino al garage e accostavamo piano le portiere, ridacchiando, e lei sapeva cosa avevamo in testa, però diceva ad alta voce: «Chissà quando ritornano», lui l’afferrava per la vita e le baciava il collo e lei lanciava un urlo e poi scoppiava a ridere.
«Mi hai fatto prendere paura».
«È colpa sua, – diceva lui. – È stata una sua idea».
Ma c’erano momenti in cui cambiava, e allora si chiudeva giú in garage e noi non dovevamo disturbarlo. Sedeva sotto il portico, sul dondolo, per ore, torcendosi le mani, mordendosi le labbra. E lo sorpresi a singhiozzare, un pomeriggio – andava ancora tutto bene – immerso nella vasca, pallido e tremante, con le ginocchia strette contro il petto.
Quand’era molto stanco o preoccupato, balbettava: doveva prendere una pausa e scuotere la testa, e si batteva il pugno su una coscia.
Poteva raggelarsi all’improvviso – a lei non capitava mai – e diventare rigido e sarcastico: allora ci fissava come se fossimo sbagliati, le labbra storte in una smorfia, ma poi tornava tutto come prima e li sentivo sussurrare, sentivo la risata di mio padre.
Sapevo poco riguardo al suo passato.
Aveva perso i genitori a diciott’anni, nel giro di tre mesi. Nessun altro parente, come lei. Per un’estate, prima che morissero, aveva lavorato in officina, alla stazione di servizio, poi era stato assunto allo stabilimento.
«Non ho molti ricordi», rispondeva quando provavo a chiedergli qualcosa.
Usciva spesso con mia madre: andavano in paese a fare quattro passi, a prendere un caffè, o a cena al ristorante Il cacciatore, lungo la strada tutta curve che attraversava i boschi e che portava a casa nostra e a quella di Ida Belli, ma non aveva amici e non sembrava sentirne la mancanza.
«Non ho bisogno di nessuno».
Chiedevo a lei, a volte, com’era da ragazzo.
«Come lo vedi adesso».
Un uomo divertente, mi dicevo, con la battuta pronta, e mi pareva strano trovarlo sotto il portico, mentre fissava silenzioso il prato e il bosco, oppure rintanato giú in garage.
Mia madre invece aveva Ida, e le voleva bene.
«È come una sorella».
Era una donna alta, capelli corti, mascella spigolosa, i modi sbrigativi e la risata cavallina: poteva stritolarti in un abbraccio, all’improvviso, e batterti la mano sulla spalla.
Aveva divorziato dal marito, lui si era trasferito a Roma e si era risposato. Viveva con sua figlia, che consideravamo ancora una bambina sebbene avesse la mia età – qualcuno la chiamava ritardata, con quella schiena curva, la testa grossa ciondolante, le labbra umide e sporgenti.
Ida diceva sempre: «Stiamo benissimo da sole, io e Simona».
Dietro le spalle della madre, cosà me la ricordo, mentre borbotta e biascica il mio nome.
Era difficile toccarla senza che lei reagisse urlando o mugolando, e non andava a scuola: passava il tempo a disegnare, inginocchiata a terra, impiastricciandosi la faccia di colore quando qualcosa la turbava.
Ida, contabile alla fabbrica di mobili, aveva assunto una ragazza a tempo pieno perché si occupasse di sua figlia.
Quella ragazza veniva su in corriera, la mattina, e se ne andava il tardo pomeriggio, diretta a passo svelto alla fermata, con una sigaretta tra le dita, mentre la luce calava dietro gli alberi.
Finché non incontrò mio padre.
Abitavamo in cima a una collina – la casa in cui era cresciuto – dove la strada moriva in un sentiero, a tre chilometri da Ponte, un piccolo paese di provincia che chiamavamo la città per via dello stabilimento. La valle stretta, una miniera di pirite abbandonata, un fiume serpeggiante, torrenti, un vecchio ponte in pietra in una gola, un altro a due corsie sopra le rapide del fiume e boschi tutt’intorno. Ma c’erano le scuole, il cinema Futura, la biblioteca comunale – il regno di mia madre, l’unica bibliotecaria –, un bar con sala giochi. La fabbrica di mobili, con un’esposizione di cucine e armadi, in quella che veniva definita la zona industriale. E lo stabilimento, cinto da un muro di mattoni, il fumo delle ciminiere.
Era un cotonificio, cresciuto e prosperato dal 1939. Duecento dipendenti a fine anni Sessanta. Mio padre era un manutentore, quel lavoro gli piaceva e non l’avrebbe mai cambiato.
Quando le commesse presero a calare e i costi a lievitare, la società venne venduta. Mio padre ci diceva: «Tira una brutta aria». I nuovi proprietari truccarono i bilanci, rubarono dei soldi, fregarono la gente. Nel 1977 fu dichiarato fallimento. Lo vidi piangere, quel giorno di settembre, mentre mia madre seduta accanto a lui lo consolava.
Rimase il muro di mattoni coi cocci di bottiglia. Le ciminiere fredde. Il vento che sibilava tra gli edifici vuoti.
Nei mesi che seguirono ci divertimmo a scavalcare il muro – un gruppo di ragazzi che allora frequentavo. Forzammo porte, entrammo nei reparti. Lanciammo pietre contro le vetrate e ribaltammo gli schedari. Pisciammo contro i muri e ci scrivemmo sopra frasi oscene. Ci sedevamo a terra, accanto ai macchinari, nella penombra polverosa, passandoci una sigaretta. Trascorrevamo il tempo in quello spazio enorme e silenzioso, come se fosse nostro.
All’improvviso ci stancammo – dicembre, quando scomparve quel bambino.
Mio padre usciva tutti i giorni, allora, ma non avevo alcuna idea di dove andasse.
Fu il fallimento del cotonificio l’inizio della fine.
Per Ponte era stato un disastro. Parecchi se ne erano andati, in cerca di lavoro. Qualcuno aveva preso a bere o a ciondolare in giro.
Mio padre si chiuse in camera da letto e ci restò per settimane, alzandosi soltanto per andare in bagno o per venire a tavola, in pigiama, quando mia madre lo chiamava. Fissava il piatto con una sigaretta tra le labbra, e lei gliela sfilava dolcemente.
«Vedrai, ce la faremo».
«Come?»
«Adesso non pensarci. Mangia».
Mia madre s’informò – la fabbrica di mobili, un magazzino edile –, ma non cercavano nessuno. E poi venne a sapere di un terreno comprato da un’impresa, a una ventina di chilometri da Ponte, su cui era in progetto un piccolo complesso di villette.
«Magari viene fuori qualche cosa».
Gli si sdraiava accanto, quando tornava dalla biblioteca, ed è cosà che li ricordo, sebbene fossero diversi in ogni senso: vicini l’uno all’altra e quasi indistinguibili.
Rinchiuso in camera lui maturò un’idea, una certezza folle.
Un giorno venne a tavola, riempà d’acqua il bicchiere, ne bevve un sorso e disse: – Ho avuto tempo di pensarci.
Mia madre lo guardò e gli occhi le brillarono: – A cosa?
Come poteva immaginarlo?
– Hanno trovato il modo di togliermi di mezzo, – disse lui. – È questo che volevano. E adesso ridono di me.
– È capitato a tutti voi, tesoro.
Mio padre tese le labbra in un sorriso amaro. – È quello che raccontano. Però non è cosÃ.
Scostò la sedia e tornò in camera da letto.
Io mi voltai verso di lei.
– Ma che voleva dire?
– Tranquillo, non è niente...