Tutti vogliono possedere la fine del mondo.
Questo ha detto mio padre, in piedi, davanti alle finestre all’inglese del suo ufficio di New York: gestione del patrimonio, dynasty trusts, mercati emergenti. Stavamo condividendo un momento raro, contemplativo, col tocco finale dei suoi occhiali da sole vintage che portavano la notte fra quattro mura. Osservavo con attenzione le opere d’arte, vagamente astratte, e cominciavo a capire che quel silenzio prolungato seguito alla sua osservazione non apparteneva né a me né a lui. Pensavo a sua moglie, la seconda, l’archeologa, quella la cui mente e il cui corpo, sempre piú provati ormai, presto avrebbero cominciato a fluttuare, come da tabella di marcia, nel vuoto.
Quel momento è poi riaffiorato alcuni mesi dopo, all’altro capo del mondo. Ero seduto, con la cintura allacciata, sul sedile posteriore di una berlina blindata dai finestrini fumé, ciechi in entrambe le direzioni. L’autista, dietro il pannello divisorio, indossava la maglia di una squadra di calcio e un paio di pantaloni da tuta con un rigonfiamento su un fianco che lasciava intendere la presenza di un’arma. Dopo un’ora di strade accidentate, l’uomo ha fermato l’auto e ha detto qualcosa in un dispositivo che aveva sul risvolto della maglia. Poi ha girato lentamente il capo di quarantacinque gradi in direzione del sedile posteriore, verso destra. L’ho preso come il segnale che era il momento di slacciarmi la cintura e scendere.
Quel tratto in macchina era stato l’ultima tappa di un viaggio-maratona. Mi sono allontanato dalla vettura e mi sono fermato per qualche istante, stordito per il caldo, con il borsone in mano; avvertivo che il corpo cominciava a rilassarsi. Ho sentito il motore che si avviava e mi sono girato a guardare. La macchina era tornata verso la pista d’atterraggio dell’aeroporto privato. Era l’unica cosa in movimento là attorno, e in breve tempo sarebbe stata risucchiata dalla terra, dalla luce che andava svanendo o semplicemente dall’orizzonte.
Ho completato il mio giro, una lunga e lenta ispezione di piane di sale e pietrisco, vuote, a eccezione di alcune basse strutture, forse interconnesse, quasi tutt’uno con il paesaggio scolorito. Non c’era nient’altro, da nessun’altra parte. Non conoscevo la natura precisa della mia destinazione, sapevo solo che era remota. Non era difficile immaginare che mio padre alla finestra del suo ufficio avesse pronunciato quelle parole ispirato da questo stesso aspro terreno e dai lastroni geometrici che si fondevano con esso.
Lui era qui ora, c’erano tutti e due, padre e matrigna, e io li avevo raggiunti per una visita brevissima e dare il mio incerto addio.
Dal mio punto di vista ravvicinato era difficile stabilire il numero esatto delle strutture. Due, quattro, sette, nove. O una soltanto, un’unità centrale con degli annessi disposti a raggiera. La immaginavo come una città che sarebbe stata scoperta nel futuro, autosufficiente, ben conservata, senza nome, abbandonata là da una civiltà migrante.
Avevo l’impressione di restringermi sempre piú per effetto del caldo, ma volevo rimanere ancora un altro po’ a guardare. Erano costruzioni occultate, agorafobicamente sigillate. Costruzioni cieche, mute e tetre, dotate di finestre invisibili, progettate, cosà pensavo, per piegarsi su se stesse nel momento del collasso digitale del film.
Mi sono incamminato su un sentiero di pietra che conduceva a un ampio portone con due uomini di guardia. Indossavano maglie di squadre diverse, ma sul fianco avevano lo stesso rigonfiamento. Erano fermi dietro una fila di paletti che avevano lo scopo di impedire ai veicoli di accedere nell’area circostante.
Su un lato, all’altro capo del portone, la strana presenza di altre due sagome, in chador, donne completamente coperte, in piedi, immobili.
Mio padre si era fatto crescere la barba. La cosa mi ha sorpreso. Era leggermente piú grigia rispetto ai capelli e aveva l’effetto di mettere in risalto gli occhi, rendeva il suo sguardo piú intenso. Era forse quel genere di barba che hanno gli uomini ansiosi di entrare in una nuova dimensione di fede?
Gli ho chiesto: – Quand’è che succederà ?
– Stiamo programmando il giorno, l’ora, il minuto. Presto, – mi ha risposto.
Aveva piú di sessantacinque anni, Ross Lockhart, scattante, spalle grosse. Gli occhiali scuri erano poggiati sul tavolo, davanti a lui. Ero abituato a incontrarlo in uffici situati in posti ogni volta diversi. Questo qui era un ufficio improvvisato, una serie di schermi, tastiere e altri dispositivi sparsi per la stanza. Sapevo che aveva investito ingenti somme di denaro in questa operazione, quest’impresa chiamata Convergence, e l’ufficio era stato una gentile concessione per permettergli di mantenere gli opportuni contatti con la sua rete di società , organismi, fondi, enti, fondazioni, cartelli, comuni e clan.
– E Artis?
– Lei è prontissima. Non c’è ombra di esitazioni o ripensamenti.
– Non stiamo parlando di una vita spirituale eterna. Qui si tratta del corpo.
– Il corpo verrà congelato. Sospensione criogenica, – ha detto.
– E poi nel futuro.
– SÃ. Un giorno sarà possibile neutralizzare le circostanze che conducono alla fine. La mente e il corpo verranno risanati, riportati in vita.
– Non è nuova come idea. Dico bene?
– Non è nuova come idea. È un’idea, – ha detto, – che si sta avvicinando alla sua completa realizzazione.
Mi sentivo disorientato. Era la mattina di quella che sarebbe stata la mia prima giornata piena là e di fronte a me, dietro la scrivania, c’era mio padre, e niente mi era familiare: la situazione, l’ambiente fisico, l’uomo con la barba. Sarei tornato a casa senza il tempo di assimilare nulla.
– E tu hai piena fiducia in questo progetto.
– Piena. Dal punto di vista medico, tecnologico, filosofico.
– C’è chi prenota un posto per gli animali domestici, – ho detto io.
– Non qui. Qui non c’è niente di ipotetico. Niente di velleitario o marginale. Uomini, donne. Morte, vita.
La sua voce aveva il tono pacato di una sfida.
– Posso vedere il luogo dove tutto questo avviene?
– Ho i miei seri dubbi, – mi ha risposto.
Artis, sua moglie, era afflitta da diverse malattie invalidanti. Sapevo che il deterioramento della sua salute dipendeva in larga parte dalla sclerosi multipla. Mio padre era là prima come devoto testimone del suo trapasso e poi in veste di osservatore competente delle metodologie iniziali che avrebbero consentito la conservazione del corpo fino all’anno, il decennio, il giorno in cui fosse stato possibile risvegliarlo senza correre alcun rischio.
– Quando sono arrivato qui sono stato accolto da due uomini armati. Mi hanno fatto passare per i controlli di sicurezza, mi hanno portato nella mia stanza, senza, in pratica, proferire parola. Non so altro. A parte il nome, che ha qualcosa di religioso.
– Tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune nostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo, è vero, mantiene le promesse.
– La vita dopo la morte.
– In ultima istanza, sÃ.
– Convergence.
– SÃ.
– Ha un senso in matematica.
– Ha un senso in biologia. Ha un senso in fisiologia. Lascia perdere, – ha detto.
Quando mia madre è morta, in casa, io ero seduto accanto al letto e sulla soglia della camera c’era una sua amica, una donna col bastone. È cosà che racchiuderei quel momento, lo restringerei, ora e per sempre, alla donna nel letto, alla donna sulla soglia, al letto, al bastone di metallo.
Ross ha detto: – A volte scendo in un’area che funge da hospice, mi fermo tra le persone che vengono preparate per essere sottoposte alle procedure. Un misto di attesa e soggezione. Molto piú palpabili dell’apprensione o dell’incertezza. C’è un senso di riverenza, uno stato di stupore. Si ritrovano ad affrontare la stessa cosa insieme. Una cosa enorme che va al di là di qualunque loro immaginazione. Sentono di avere una missione comune, una meta. E io mi ritrovo a immaginare un posto del genere secoli fa. Un alloggio, un rifugio per i viandanti. Per i pellegrini.
– Ecco, i pellegrini. Si torna alla religione dei vecchi tempi. Posso visitare l’hospice?
– Probabilmente no, – mi ha risposto lui.
Mi ha dato un braccialetto su cui era montato un piccolo disco piatto. Ha detto che era un po’ come quell’affare che a volte le persone in libertà vigilata indossano alla caviglia, tramite il quale le forze dell’ordine controllano ogni loro movimento. Mi era consentito l’accesso ad alcune aree di quel livello e del livello superiore, e poi basta. Se mi fossi tolto il braccialetto avrei allertato la sicurezza.
– Non trarre conclusioni affrettate su quello che vedi o che senti. Questo posto è stato progettato da persone serie. Rispetta l’idea. Rispetta lo scenario. Artis dice che dobbiamo considerarlo un lavoro in corso d’opera, un’opera fatta di terra, una forma di land art, arte fatta con il paesaggio. Sorge dalla terra e in essa affonda le sue radici. L’accesso è limitato. Regna la quiete, sia umana sia ambientale. Ricorda vagamente una tomba. La terra è il principio guida, – ha detto. – Ritornare alla terra, riemergere dalla terra.
Passavo il tempo a camminare nei corridoi. Erano quasi vuoti; ogni tanto incrociavo tre individui, che io salutavo uno per uno con un cenno del capo, ricevendo in risposta solo un’occhiata riluttante. Le pareti erano dipinte di varie sfumature di verde. Alla fine di un ampio corridoio ne imboccavo un altro. Muri spogli, niente finestre, porte ampiamente distanziate l’una dall’altra, porte tutte chiuse. Porte con colori affini, tenui, e io mi chiedevo se ci fosse un significato da leggere dietro quei frammenti dello spettro. Facevo cosà in ogni ambiente nuovo. Cercavo di introdurre significati, dare coerenza a un posto o quantomeno di localizzare la mia posizione al suo interno, per confermare la mia inquieta presenza.
In fondo all’ultimo corridoio c’era uno schermo che spuntava da una rientranza nel soffitto. Ha cominciato ad abbassarsi; si estendeva da una parete all’altra e arrivava quasi fino a terra. Mi sono avvicinato lentamente. All’inizio le immagini erano solo di acqua. C’era acqua che scorreva nei boschi e che superava a fiotti argini di fiumi. C’erano scene di pioggia che cadeva su terreni terrazzati, lunghi attimi di sola pioggia, e poi ovunque gente che correva, altre persone in balia di barchette che rimbalzavano su rapide. C’erano templi inondati, case sbilenche arroccate sulle pendici di colline. Guardavo l’acqua che cresceva nelle strade di una città , macchine e automobilisti sommersi. Date le dimensioni dello schermo, le immagini non sembravano tratte da un servizio per il telegiornale. Ogni cosa sullo schermo incombeva, le scene duravano molto piú della solita lunghezza televisiva. Era tutto là davanti a me, alla mia altezza, vicino e reale: una donna a grandezza naturale seduta su una sedia storta in una casa distrutta da una colata di fango; un uomo, una faccia, sott’acqua, che mi fissava negli occhi. Non ho potuto fare a meno di indietreggiare, ma allo stesso tempo non riuscivo a smettere di guardare. Era difficile distogliere lo sguardo. A un certo punto mi sono girato verso il corridoio aspettandomi di veder apparire qualcuno, un altro testimone, una persona che potesse stare vicino a me mentre le immagini si accumulavano e rimanevano impresse.
E tutto senza audio.
Artis era sola nella suite che occupava con Ross. Era seduta in poltrona, in vestaglia e pantofole, e sembrava addormentata.
Cosa dico? Come comincio?
Sei bellissima, ho pensato, ed era vero, purtroppo, nonostante fosse infiacchita dalla malattia; la faccia magra, i capelli biondo cenere, spettinati, le mani pallide unite in grembo. All’inizio, per me, lei era stata la Seconda Moglie, poi la Matrigna e dopo ancora l’Archeologa. Se quest’ultima etichetta risultava meno riduttiva delle altre era principalmente perché avevo finalmente cominciato a conoscerla. Mi piaceva immaginarla quel genere di scienziato asceta che vive per lunghi periodi di tempo in rudimentali accampamenti, una persona che si adatta facilmente a condizioni diverse, estreme.
Perché mio padre mi ha chiesto di venire qui?
Voleva che fossi con lui nel momento della morte di Artis.
Ero seduto su una panca coperta di cuscini, osservavo e aspettavo, e poco dopo i miei pensieri hanno cominciato a staccarsi dalla figura ferma, in poltrona; e poi eccolo, Ross, eccoci, io e lui, in uno spazio mentale miniaturizzato.
Era un uomo forgiato dai soldi. Si era fatto presto un nome analizzando il profit impact ...