In custodia
  1. 240 pagine
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Deven, un modesto e pavido maestro di hindi che ha dovuto abbandonare le lusinghe di Delhi per guadagnarsi una magra esistenza in una desolata cittadina di provincia, ha un'unica consolazione nella vita: la poesia. Luce segreta delle sue mediocri giornate è infatti l'amore per la grande tradizione poetica urdu, nata nelle sfavillanti corti islamiche dell'India settentrionale e, a dire il vero, ormai un po' appannata dai rivolgimenti della storia. Un giorno, finalmente, proprio la poesia urdu sembra offrire a Deven un'inattesa possibilità di riscatto, quando per caso si ritrova insignito del glorioso incarico di intervistare addirittura il massimo vate di Delhi, l'anziano Nur. Ma il povero insegnante scoprirà, suo malgrado, che la missione pullula di insidie. La poesia urdu, fra donne ferine e comprimari debosciati e infidi, ancora si nutre degli intrighi di corte, e non mancano, per di più, i rischi tutti moderni dell'incontro con la tecnologia: che cosa potrà mai ottenere il debole Deven facendo il suo ingresso in un mondo, per lui, così sbalorditivo ed esigente? Pirotecnico, comico e al contempo malinconico, questo geniale romanzo mette a confronto contemporaneità e passato, dandocene un ritratto spettacolare. «Una grande opera... un romanzo straordinario».

Salman Rushdie

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806149321
eBook ISBN
9788858421482

Capitolo terzo

Non fosse stato per i colori e il chiasso, Chandni Chowk avrebbe potuto essere il bazaar di un incubo; tanto era simile a un labirinto, dal quale egli non sapeva trovare via d’uscita, e dove vagava fra i muri scrostati e sudici degli uffici e i banchi straripanti di negozi e bancarelle, domandandosi se il monello mandato per fargli da guida non fosse in realtà un diavoletto malvagio che lo portava a scomparire irrevocabilmente nel cuore fetido del bazaar. Il caldo e la folla lo opprimevano dall’alto e da ogni lato, solidi e soffocanti come il sonno.
Con la sua sottile malevolenza, il ragazzo propose: – Una bibita fredda? – a una bancarella dove liquidi rossi e verde veleno in bottiglie tappate con mezzi limoni, nonché succo di carota in vasi di coccio umidi e trasudanti sembravano assai richiesti.
Deven scosse il capo con disprezzo e i due proseguirono lungo il vicolo dei sari, dove orrendi tessuti giapponesi di nylon, coperti da disegni floreali simili a piovre e ragni, da reti d’oro e ricami d’argento brillavano sulle soglie come prostitute volgari ma scintillanti per adescare gli avventori, mentre le sete tradizionali, ricche e soffici, erano piegate e accatastate in pile sobrie e matronali all’interno. Alcuni negozianti li guardarono di sfuggita, ma non si alzarono dai cuscini né cessarono di titillarsi le dita dei piedi per attirare la loro attenzione; era talmente ovvio che non ne valeva la pena.
Svoltarono poi nei vicoli dei generi alimentari dove a quell’ora i clienti erano pochi, alle mosche era concesso di frugare indisturbate nelle piramidi di frutta candita, e il latte fumava e gorgogliava in tegami sonnolenti.
Oltrepassarono maleodoranti negozi dall’aria equivoca, dove individui che assomigliavano con troppa ostentazione a ciarlatani impacchettavano medicine e panacee a base di erbe; banchi dove astrologi, chiromanti e indovini avevano steso gli esotici arnesi del loro commercio – rotoli con illustrazioni elaborate, gracule in gabbia e pietre di nascita in scatole aperte – e bancarelle da marciapiede dove sciarpe, fazzoletti e biancheria erano ammucchiati in pile di cotone inamidato, oppure spessi bicchieri e piatti di smalto erano esposti in precario equilibrio gli uni sugli altri, infine spuntarono in uno spiazzo rotondo dove si allineavano argentieri e gioiellerie.
Qui Deven si fermò, disperato. Sapeva che non poteva essere vicino alla dimora del poeta, in quel pullulante alveare del commercio. Allargando le braccia, disse al ragazzo: – Dobbiamo esserci smarriti. Questo non è il posto giusto. È inutile proseguire. Non intendo proseguire –. Lo sconforto gli faceva pulsare il sangue nelle orecchie, cosicché non udí il suono convulso di un campanello e per un soffio non fu travolto da un risciò a pedali diretto alla stazione, stracolmo di pacchi. Il guidatore, acrobatico come una scimmia col berretto rosso, riuscí a sterzare in tempo limitandosi a passare sul piede di Deven, ma i pacchi scivolarono dal viscido sedile di finta pelle sparpagliandosi sulla strada. Deven restò cosí stordito da questo mezzo incidente che gli occorse un bel po’ per capire che ne veniva incolpato, con insulti osceni e fragorosi. Il ragazzo, intanto, aiutava il guidatore del risciò a raccogliere i pacchi, ma quando Deven si chinò per collaborare fu spinto da parte con una gomitata e costretto a proseguire. I due si precipitarono affannosamente in uno stretto vicolo fiancheggiato soltanto da canaletti di scolo e che apparentemente serviva da latrina a tutto il quartiere. L’alto muro verde che vi proiettava un’ombra profonda apparteneva a un ospedale di medicina ayurvedica. Era lugubre come una prigione.
Deven si lanciò in una corsa zoppicante, nel tentativo di raggiungere il fondo del vicolo senza respirare l’aria nausebonda. Il ragazzo lo seguí, ansando: – Una tazza di tè? Qui c’è un negozio, prenda almeno una tazza di tè, sahib!
– No, niente tè, – sibilò Deven. – Voglio arrivare a casa di Nur sahib per le tre. Dove sta? Lo sai oppure no?
– Molto lontano, – rispose il ragazzo, guardandolo con fermezza e restando immobile dinanzi alla bottega, dove pacchetti di tè e cestini di uova ciondolavano sulla porta fuligginosa a mo’ di invito. – Prima sarebbe meglio bere un tè e riposare un po’.
– Niente tè, niente riposo, – urlò Deven, chinandosi per mostrare i denti al ragazzo.
Questi scrollò le spalle, ma senza mutare di espressione. Scavalcò un canaletto d’acqua corrente, fece spostare un grosso toro gibbuto pacificamente intento a ruminare sacchetti di carta da una pattumiera aperta che s’era rovesciata su un lato, spargendo il proprio contenuto in mezzo al canale di scolo il quale s’era perciò ostruito e aveva cominciato a traboccare, poi svoltò in un altro vicolo. Qui da una parte si levava la parete del tetro ospedale verde, e dall’altra correva una fila di porticine di legno, sbarrate, lungo muri diritti e scoloriti. Nessuna aveva la targhetta ma il ragazzo si diresse verso una di queste e cominciò a battervi con il palmo delle mani, finché, dopo un lungo intervallo, qualcuno aprí.
Allora Deven seppe che non si trattava del suo solito incubo perché altrimenti la porta sarebbe rimasta chiusa.
Prima di riuscire a distinguere chi aveva aperto l’uscio e ora vi stava dietro, udí una voce immensa, stridula, rauca e spinosa, rimbombare da un punto imprecisato sopra il loro capo: – Chi disturba il sonno dei vecchi a quest’ora del pomeriggio, consacrata al riposo? Può essere soltanto un grosso stupido. Stupido, sei uno stupido?
E Deven, sentendo dentro di sé una tesa membrana di riserbo spezzarsi e un impetuoso scoppio di gioia nell’udire la voce e le parole che potevano appartenere solo a quella creatura superiore, il poeta, cantò in risposta: – Sí, signore! Sí!
Ci fu una pausa di silenzio, poi si levarono mormorii di meraviglia e di raccapriccio per l’ammissione. Nell’attimo di quiete si udirono colombi gorgogliare e sbattere le ali come per mettere sull’avviso.
– Devo farlo entrare? – domandò chi aveva aperto l’uscio, sempre restando nell’ombra. Era una voce di donna, acuta e logora di irritazione.
– Fallo salire, allora, – gemette il poeta dai recessi in cima alla scala, che saliva per vari piani attorno a un piccolo cavedio dove era appoggiata una bicicletta, un rubinetto gocciolava e un gatto dormiva.
– Ho sognato gente stupida, – proseguí brontolando la voce dall’alto. – Sono circondato da stupidi. Gli stupidi mi seguiranno, mi daranno la caccia, mi scoveranno e mi cattureranno, cosí alla fine anch’io sarò dei loro. Fallo salire dunque, fallo salire, – e Deven si sentí di nuovo salire e crescere dentro un’ondata calda e umida di giubilo, all’essere riconosciuto, chiamato per nome e invitato alla presenza di un uomo cosí chiaramente eroico. In punta di piedi, tremando un poco, scavalcò l’alta soglia ed entrò nella casa, poi si fermò, ricordandosi del ragazzo che l’aveva guidato fin lí e della necessità di congedarlo. Certo doveva essere ricompensato per la sua parte nella ricerca, rivelatasi un glorioso successo. Raggiante in volto, sorrise al ragazzo e con benigna distrazione gli cacciò in mano l’involto di giornali, quindi rientrò in casa e, felice, obbedí al cenno della mano dipinta di henná che spuntava dall’uscio, e cominciò a salire correndo, una rampa dopo l’altra, la scala di legno da cui la polvere si sollevava a ogni passo.
Era come se Dio si fosse affacciato da una nuvola e l’avesse invitato ad innalzarsi, e potevano essere gli angeli a sollevarlo lungo quelle antiche scale sconnesse perché incontrasse la divinità: tali erano l’esultanza, il timore e la gratitudine con cui saliva. Era senz’altro la chiamata che aveva atteso per tutti quegli anni inutili, pur non sapendo che avrebbe assunto questa forma. Nella sua fatale miopia, nella sua stoltezza, si era aspettato che essa venisse da Sarla quando l’aveva sposata, o dal preside di facoltà del college, il solo in grado di promuoverlo, degradarlo e mutare la sua posizione nella vita, o perfino da Murad il quale, in fin dei conti, viveva nella metropoli e dirigeva una rivista. Le poesie che aveva letto e imparato a memoria restavano sotto queste punte visibili della sua vita insignificante; le aveva concepite piú come una fonte di conforto e di consolazione che come una promessa di salvezza. Non si era mai immaginato una chiamata espressa da una voce cosí leonina, splendida e autorevole, una voce che avrebbe potuto afferrarlo, per cosí dire, alla radice dei capelli e sollevarlo dal livello in cui viveva – mediocre, disordinato e senza speranza – in una sfera diversa e piú elevata. Senza dubbio un regno diverso se il suo dio viveva lassú, il dominio della poesia, della bellezza e dell’illuminazione. Salí le scale come spogliandosi e liberandosi dello squallore e del ciarpame della sua passata esistenza, e avvicinandosi costantemente a una nuova era di luce meravigliosa.
Non c’erano angeli a cantare «Alleluia, alleluia!» come accompagnamento, tuttavia i colombi tubavano forte per l’agitazione e si udí il vecchio borbottare in tono incredulo: – Stupido, dice che è uno stupido, ah! – e Deven lo considerò un invito sufficiente per entrare.
La stanza in cui il poeta era steso a riposare, simile a un grande cuscino su un divano di legno basso e piatto, era immersa nella penombra. Non solo le cortine di bambú appese a ogni porta erano state calate perché non entrasse la luce del sole, il quale batteva sull’ultimo piano con la massima violenza, ma i muri erano rivestiti di piastrelle verdi che accrescevano l’oscurità fitta di ombre. I pochi mobili, una poltrona con lunghi braccioli che sembrava progettata per qualche antica, piú grossa specie di uomini, un tavolino a ribalta sul quale erano ammucchiati volumi molto malridotti, una libreria girevole che ne ospitava altri, e alcuni solidi cuscini sparsi a terra sui tappeti di cotone, somigliavano a oggetti scolpiti nell’oscurità, grevi e palpabili di tenebra.
La figura del poeta era in netto contrasto, tra tutte quelle ombre, poiché era vestito interamente di bianco. Sul petto gli ricadeva la barba candida, cui teneva intrecciate lunghe dita pallide. Stava immobile e sembrava una figura di marmo. Il suo corpo aveva la densità, la compattezza della pietra. Era grosso e greve non per peso o obesità, ma per anni ed esperienza. La consunzione e il deperimento della vecchiaia non avevano ancora iniziato il loro processo. Si trovava ancora in un momento di completezza, perfettamente integro. Ciò gli conferiva il potere e la dignità di chiedere all’invadente sconosciuto, in un sussurro: – Chi le ha dato il permesso di disturbarmi?
– Signore, – gracchiò Deven, frugandosi nella tasca in cerca dello scritto di Murad. – Ho qui una lettera...
– E non poteva aspettare? – sospirò il vecchio con voce sempre piú fievole. Stava per scivolare nuovamente nel sonno? C’era un’età, dopo tutto, in cui il confine fra sonno e veglia diventava molto debole e poteva essere attraversato senza sforzo, di continuo.
– Signore, sono venuto a Delhi solo per un giorno. Devo tornare al mio college a Mirpore, – balbettò Deven. – Ho qui una lettera da Murad Beg, direttore dell’Awaaz...
– Non vede che è troppo buio per leggerla? Sto riposando. Non so dove sono gli occhiali. Me la legga lei. Ora che mi ha guastato il sonno può anche leggermela.
Deven aprí la lettera, cercando di zittire il forte fruscio dei fogli, quindi si sforzò di leggere in modo chiaro e scorrevole le fiorite parole di presentazione di Murad. Lo innervosiva pronunciare i titoli adulatori usati da Murad per descriverlo, come d’altronde lo metteva a disagio il tono di lusinga e di supplica con cui chiedeva l’intervista. A un poeta di tanta divina maestà avrebbero dovuto rivolgersi con una preghiera o una petizione, non con adulazione e promesse.
Al che il vecchio sul letto storse le labbra e, attraverso la barba, emise un suono simile a uno sputo. Aprí le dita magre e sottili con la loro pelle esangue da pesce, e con le chiazze, pure da pesce, delle lentiggini scure dell’età, e fece un cenno di congedo. – Quel buffone dovrebbe incipriarsi, mettersi un naso finto e lavorare in un circo itinerante, – disse con scherno. – Lei fa parte del suo circo?
– No, no, signore, – protestò Deven, sempre chino sulla lettera che teneva fra le mani, non ancora letta per intero. – Qualche volta io... lui mi propone di collaborare alla sua rivista. Ora mi hai chiesto di intervistarla per il numero speciale sulla poesia urdu. È un grande onore per me, signore, un privilegio enorme. Voglio dire, se lei mi concedesse..., – aggiunse in fretta, con aria ansiosa. Era il caso di rivelare al poeta che aveva scritto una monografia su di lui, ancora in attesa di essere pubblicata? O il poeta l’avrebbe ritenuto un atto di presunzione, piú che una lusinga? Esitò.
La casa era assai quieta, miracolosamente silenziosa. I muri imponenti dell’ospedale la isolavano dal frastuono del bazaar, pensò Deven. Riusciva a sentire solo i colombi che protestavano e si consolavano fra loro sulle cornici impolverate degli alti lucernari, e il rumore della laboriosa respirazione del poeta, intasata in gola da qualche antico catarro.
– Poesia urdu? – sospirò infine, voltandosi un poco da una parte, verso Deven, benché in effetti non sembrasse rivolgersi a una persona, ma solo a una direzione. – Come può esistere una poesia urdu quando la lingua urdu non c’è piú? È morta, finita. La sconfitta dei moghul da parte degli inglesi le ha gettato un cappio al collo, e la sconfitta degli inglesi da parte degli hindi-wallah1 l’ha stretto. Cosí, ora lei vede qui disteso il suo cadavere, che attende di essere sepolto –. Si battè il petto con un dito.
– No, signore, la prego, non parli cosí, – esclamò fervidamente Deven, mentre gocce di sudore gli spuntavano sul labbro, facendolo luccicare. – Non permetteremo mai che questo accada. Ecco perché Murad pubblica la rivista. E la tipografia dove viene stampata si occupa di libri in urdu, signore. Continuano a ricevere grosse ordinazioni. E il mio college, un piccolo college privato fuori Delhi ha un dipartimento di urdu...
– È lí che insegna? – Una palpebra grinzosa si mosse, simile a quella di una tartaruga, e un piccolo occhio veloce sbirciò verso Deven come se fosse una mosca succulenta.
Deven indietreggiò, in atto di scusa. – No, signore, io insegno nel... nel dipartimento di hindi. Mi sono laureato in hindi perché...
Ma il poeta non ascoltava. Rideva, e intanto sputacchiava, perché il suo riso era arrugginito e svogliato. Il catarro scorreva. – Ecco, vede, – gracchiò, – cosa le ho detto? Gli uomini del Congresso hanno messo l’hindi sul trono, come nostro sovrano. Lei è un suo schiavo. Perfino una spia, forse, anche se non lo sa, spedita nelle università per distruggere tutto ciò che resta dell’urdu, per scovarlo e ucciderlo. Lei mi dice che vuole intervistarmi per una rivista urdu. E allora, perché insegna hindi? – ruggí all’improvviso, fissando Deven con il minuscolo occhio dalla palpebra di tartaruga, che adesso era diventato letale, un proiettile.
– Ho studiato l’urdu, signore, da ragazzo a Lucknow. Mio padre era un insegnante, uno studioso, e un appassionato di poesia urdu. Mi insegnò la lingua. Ma poi morí. Morí e mia madre mi portò a Delhi a vivere con i suoi parenti. Fui mandato alla scuola piú vicina, una scuola dove si insegnava in hindi, signore, – spiegò Deven, incespicando nelle parole. – Mi sono laureato in hindi, signore, e ora sono professore a contratto al college Lala Ram Lal di Mirpore. È il mio mezzo di sostentamento, signore. Sono un uomo sposato, ho famiglia. Ma ricordo ancora le mie lezioni di urdu, come mio padre mi istruiva, mi leggeva poesie. Se non dovessi guadagnarmi la vita, io... io... – Avrebbe dovuto rivelargli le sue aspirazioni, scarabocchiate su foglietti di carta e nascoste fra le pagine dei suoi libri?
– Oh, guadagnarsi la vita? – lo scimmiottò il vecchio, mentre Deven lottava visibilmente contro la sua diffidenza. – Guadagnarsi la vita viene prima di tutto, eh? Perché allora non commercia in riso e olio, se è il guadagno che le interessa?
– Ma la poesia... l’urdu... sono... uno ha bisogno, io ho bisogno di dedicarmici, per dimostrare quanto mi stiano a cuore. Non posso essere al loro servizio, come lei...
– Lei non sembra adatto a servire nessuno, tanto meno la musa dell’urdu, – ribatté il vecchio, mentre la sua voce acquistava vigore per l’indignazione. O forse era piú sveglio, ora; sembrava che parlasse da una posizione eretta, nonostante fosse ancora supino. – Si sieda, – ordinò. – Là, su quello sgabello. Prima lo porti qui vicino a me. Vicino. Qui, di fianco. Ora sieda. Sembra che lei sia stato mandato qui per tormentarmi, per mostrarmi in quali abissi è precipitato l’urdu. Va bene allora, me lo mostri, mi faccia conoscere il peggio –. Scandiva le sillabe, con voce lapidaria, come se incidesse un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. In custodia
  3. Capitolo primo
  4. Capitolo secondo
  5. Capitolo terzo
  6. Capitolo quarto
  7. Capitolo quinto
  8. Capitolo sesto
  9. Capitolo settimo
  10. Capitolo ottavo
  11. Capitolo nono
  12. Capitolo decimo
  13. Capitolo undicesimo
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright