Gilead
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Gilead

  1. 264 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Il reverendo John Ames sta morendo. Non potrà crescere il figlio di soli sette anni, né educarlo, né offrirgli testimonianza di sé. Sceglie così di affidarsi a una lettera-diario, un po' confessione un po' omelia, che dica un giorno al bambino ormai adulto ciò che di suo padre è importante sapere.
Gli racconterà del nonno abolizionista e del padre pacifista, delle rovine di un luogo già baluardo della libertà americana, delle sue convinzioni e dei suoi dubbi, di quanto abbia amato questa vita che si appresta a lasciare. In un discorso lucido e luminoso da padre a figlio, da padre a Padre, dove l'intelligenza e la speranza parlano la stessa lingua. «Un trionfo di stile e immaginazione, un viaggio spirituale che nessun lettore degno di questo nome può perdersi».

The Washington Post

«La cultura americana è più ricca grazie al corpus delle opere di Marilynne Robinson. Teniamo a mente l'insegnamento di John Ames: che alla grazia si deve rispondere con la gratitudine».

The Boston Globe

John Ames ama con la forza e lo stupore dei bambini, e forse dei santi. C'è un trasporto limpido e grato nel suo amore per la moglie e per il loro figlioletto; una meraviglia sempre sorridente eppure consapevole nella sua adesione alla vita e a tutto il mondo che la ospita, dall'ultimo filo d'erba al più sottile costrutto del pensiero.
John Ames un bambino non è - ha 76 anni ed è il pastore congregazionalista di Gilead, cittadina di poche anime nel cuore dell'Iowa - ma un santo forse si appresta a diventarlo, ora che una malattia cardiaca lo sta spegnendo. Ecco dunque la decisione, in quella primavera del 1956, di lasciare testimonianza di sé al figlio che non vedrà crescere.
A partire dalle sue ascendenze: la storia degli altri due reverendi John Ames, nonno e padre, che prima di lui hanno assolto quella funzione. Un abolizionista radicale, il primo, guerrigliero accanto a John Brown e volontario nell'esercito unionista, che, folgorato da una visione in giovane età, comunica con Dio da pari a pari e sceglie di esserne il braccio armato in nome di un'inflessibile giustizia. Pacifista convinto, il secondo, che del proprio mandato privilegia l'osservanza, e vive una vita di reazione implosiva all'esplosiva azione paterna.
Il terzo John Ames, lo scrivente, racconta delle loro eredità, dei saperi e delle esperienze che gli hanno permesso di coniugarle, della sua esistenza di studio e servizio in un luogo, Gilead, che dispensa con parsimonia il suo biblico balsamo, della lunga separazione dalla vita vissuta fino alla tarda folgorazione dell'innamoramento e alla rinascita in una piena e matura felicità.
Sembra aver vinto ogni battaglia, John Ames: quella con i suoi morti e i suoi demoni, quella con la perdita e l'abbandono, quella con l'ingiustizia e lo scontento, quella con l'inadeguatezza e la miscredenza. L'arrivo in città di Jack Boughton, figlio del suo amico fraterno, giovane inquieto e un po' sinistro dal passato oscuro e dalle dubbie intenzioni, gli offre l'occasione di chiudere i conti anche con la gelosia e il sospetto, sciogliendoli in perdono e tolleranza.
Resta una sola prova da superare: la serena accoglienza della propria mortalità, il distacco da una vita terrena più che amata, da una famiglia che non può più proteggere. Come nella storia di Agar e Ismaele, è tempo di mandare il proprio figlio nel deserto, la dimora degli sciacalli. E sperare - no, credere - che gli angeli siano anche là.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806179991
eBook ISBN
9788858423172

Marilynne Robinson

Gilead

Traduzione di Eva Kampmann

Einaudi
A John ed Ellen Summers, i miei cari genitori
Ieri sera ti ho detto che forse un giorno me ne andrò, e tu mi hai detto: – Dove? – E io: – A stare con il Buon Dio –. E tu: – Perché? – E io: – Perché sono vecchio –. E tu mi hai detto: – Secondo me non sei vecchio –. Hai infilato la tua mano nella mia e hai detto: – Non sei tanto vecchio, – quasi che questo sistemasse la questione. Ti ho detto che forse avrai una vita assai diversa dalla mia e da quella che hai avuto insieme a me, e sarebbe meraviglioso, perché si può vivere bene in tanti modi. E tu mi hai detto: – Questo me lo ha già spiegato mamma –. E poi mi hai detto: – Non ridere! – Perché credevi che stessi ridendo di te. Hai teso la mano coprendomi le labbra con le dita e mi hai rivolto quello sguardo che in tutta la mia vita ho visto solo sul viso di tua madre e di nessun altro. È una sorta di orgoglio furioso, assai intenso e severo. Mi stupisco sempre un po’ di non avere le sopracciglia strinate dopo essere stato esposto a uno di quegli sguardi. Mi mancheranno.
Sembra assurdo pensare che i morti soffrano di nostalgia. Se sarai un uomo fatto quando leggerai questa lettera – è mia intenzione che tu la legga solo allora – me ne sarò andato da un bel po’. Saprò tutto quel che c’è da sapere sulla morte, o quasi, ma con ogni probabilità me lo terrò per me. Cosí stanno le cose, a quanto pare.
Non so quante volte la gente mi abbia chiesto com’è la morte, anche quando lo avrebbe scoperto da sé nel giro di un’ora o due. Perfino quando ero giovanissimo, persone che avevano l’età che ho io adesso si aggrappavano alle mie mani e mi fissavano con quei vecchi occhi lattiginosi, quasi sapessero che io sapevo e volessero costringermi a rivelarlo. Spiegavo sempre che era come tornare a casa. A questo mondo non abbiamo una casa, dicevo, e poi mi riavviavo lungo la strada verso questa vecchia villetta, mettevo su la caffettiera, mi preparavo un sandwich con l’uovo fritto e ascoltavo la radio, quando me ne procurai una, il piú delle volte al buio. Te la ricordi questa casa? Secondo me dovresti, almeno vagamente. Io ci sono cresciuto, nelle canoniche. Ho vissuto in questa qui per quasi tutta la mia vita, e ne ho viste moltissime altre, perché gli amici di mio padre e la maggior parte dei nostri parenti abitavano anche loro in una canonica. E quando all’epoca mi capitava di pensarci, di rado in effetti, mi dicevo che la nostra era la piú brutta di tutte, la piú cupa e quella con piú spifferi. Be’, questa era la mia opinione a quei tempi. È una vecchia casa bellissima, ma allora ci vivevo completamente solo. E per questo mi faceva sentire a disagio. Non mi sentivo molto a mio agio in questo mondo, a dirla tutta. Adesso, invece, sí.
E ora mi dicono che soffro di cuore. Il dottore ha usato il termine «angina pectoris», che ha un suono teologico, come misericordia. Be’, alla mia età certe cose uno se le aspetta. Mio padre morí vecchio, ma in effetti le sue sorelle non ebbero vita molto lunga. Quindi, non ho che da essere grato. Però mi rincresce di non avere praticamente nulla da lasciare a te e a tua madre. Qualche vecchio libro che nessuno vorrebbe. Non ho mai guadagnato tanti soldi, né ho mai badato a quei pochi che avevo. Non mi sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello che avrei lasciato una moglie e un figlio, credimi. Se lo avessi saputo, sarei stato un padre migliore. Avrei messo qualcosa da parte per te.
Ecco la cosa piú importante che ti voglio dire: mi dispiace moltissimo per i periodi difficili che sicuramente tu e tua madre avrete passato, senza alcun aiuto degno di questo nome da parte mia, eccetto le preghiere, e sí che non faccio altro che pregare. Lo facevo quando ero vivo, e so di farlo anche adesso, ammesso che sia possibile nell’altra vita.
Riesco a sentirti mentre parli con tua madre: tu fai domande, lei risponde. Non afferro le parole, solo il suono delle vostre voci. Non ti piace andare a dormire, e ogni sera lei deve convincerti daccapo a farlo. Non la sento mai cantare, tranne la sera, di là, quando cerca di addormentarti. E allora non riesco a riconoscere la canzone. Canta a voce molto bassa. A me sembra bellissima, ma quando glielo dico lei si mette a ridere.
Ormai non so piú dire con certezza cosa sia bello e cosa non lo sia. L’altro giorno, in strada, sono passato davanti a due giovanotti. So chi sono, lavorano al distributore. Non frequentano la chiesa, nessuno dei due: sono semplicemente due simpatici bricconi sempre pronti allo scherzo. Ed ecco che se ne stavano là al sole appoggiati al muro della stazione di servizio mentre si accendevano una sigaretta. Sono sempre talmente sporchi di grasso e avvolti nei vapori di benzina che non so come facciano a non prendere fuoco. Erano immersi nel solito scambio serrato di commenti accompagnandolo con le solite risate maligne. E mi è sembrata una scena bellissima. È stupendo osservare la gente mentre ride, il modo in cui si lascia quasi prendere completamente. A volte cerca di resistere con tutte le forze. Lo vedo succedere piuttosto spesso in chiesa. Perciò mi chiedo quale sia la natura del riso e la sua origine, e mi chiedo che cosa espella dal nostro organismo, costringendoci, come fa, a continuare sino alla fine, un po’ come il pianto, immagino, solo che il riso si esaurisce con molta piú facilità.
Naturalmente, appena mi hanno visto arrivare le battute sono cessate, ma si capiva che stavano ancora ridendo sotto i baffi, pensando a quello che il vecchio reverendo per poco non aveva udito dalle loro bocche.
Ero tentato di dire che apprezzo le battute né piú né meno come chiunque. Quante volte nella mia vita ho avuto voglia di dirlo. Ma è un fatto che la gente accetta malvolentieri. Ti vuole un po’ diverso. Ero tentato di dire: Sto per morire, e non mi restano molte occasioni per farmi una risata, almeno non a questo mondo. Ma immagino che l’unico risultato sarebbe stato quello di farli diventare seri e gentili. Terrò nascosta la mia malattia il piú a lungo possibile. Per essere un uomo in fin di vita mi sento piuttosto bene. Ovviamente, tua madre lo sa. Mi ha detto che se mi sento bene magari il dottore si sbaglia. Ma con l’età che ho non può sbagliarsi piú di tanto.
È l’aspetto piú strano di questa vita, del sacerdozio. Appena ti vedono arrivare gli altri cambiano discorso. E poi, a volte, quelle stesse persone vengono nel tuo studio e ti raccontano le cose piú incredibili. Sotto la superficie della vita si cela una gran quantità di cose, questo lo sanno tutti. Tanta cattiveria, paura e colpa, e tanta di quella solitudine, anche dove meno ti aspetteresti di trovarla.
Il padre di mia madre era predicatore, e cosí anche il padre di mio padre, e prima di lui suo padre, e prima ancora, nessuno lo sa, ma non esiterei a provare a indovinare. Per loro quella vita era una seconda natura, proprio come lo è per me. Erano brave persone, ma se c’è una cosa che avrei dovuto imparare da loro e non ho imparato, è a controllare la collera. Si tratta di una forma di buonsenso che avrei fatto meglio ad acquisire tanto tempo fa. Ancora adesso, quando un’accelerazione del mio polso mi fa pensare alle cose ultime, mi ritrovo a perdere le staffe perché un cassetto non si apre o perché non riesco a trovare gli occhiali. Te ne parlo affinché tu tenga d’occhio questo lato in te stesso.
Una punta di rabbia di troppo, troppo spesso o al momento sbagliato, può distruggere piú di quanto potresti mai immaginare. Soprattutto, bada a quello che dici. «Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco»1: ecco la verità. Da vecchio, mio padre mi disse esattamente questo in una lettera. E io, guarda caso, la bruciai. La gettai dritta nella stufa. Quel gesto mi stupí molto di piú all’epoca di quanto non faccia ora ricordandolo.
Penso che a questo punto mi cimenterò con la franchezza. Bada, parlo con tutto il rispetto. Mio padre era un uomo che agiva in base ai principî, come soleva dire. Le sue azioni erano dettate dall’attaccamento alla verità, cosí come la vedeva lui. Ma di quando in quando il suo modo di affrontare le cose lo faceva apparire deludente, e non solo ai miei occhi. Dico questo malgrado tutta l’attenzione che mi dedicò crescendomi, e gli sono profondamente obbligato per questo, anche se forse lui ne dubiterebbe. Che Dio l’abbia in grazia! So per certo di averlo deluso. È un fatto singolare, a pensarci. E sí che eravamo entrambi mossi dalle migliori intenzioni l’uno nei riguardi dell’altro.
Be’, osservate pure, ma senza conoscere, ascoltate pure, ma senza comprendere, come dice il Signore. Non posso sostenere di capire questo detto, per quante volte l’abbia sentito, e perfino fatto oggetto delle mie prediche. Afferma né piú né meno un fatto profondamente misterioso. Si può conoscere una cosa fino alla nausea e ignorarla completamente sotto ogni aspetto. Un uomo può conoscere il proprio padre, o figlio, eppure è possibile che i due siano legati unicamente dalla lealtà, dall’affetto e dalla reciproca incomprensione.
Accenno a questo fatto soltanto per dire che chiunque trovi in te ragione di dispiacere penserà che sei arrabbiato, e vedrà rabbia in quello che fai, anche se stai soltanto badando in tutta tranquillità alla vita che ti sei scelto. Ti fanno dubitare di te stesso, il che, in certi casi, può essere una grave distrazione e una perdita di tempo. Vorrei averlo capito molto prima. Ora il solo rifletterci mi irrita un tantino. L’irritazione è una forma di rabbia, questo lo ammetto.
Un grande vantaggio della vocazione religiosa è che ti aiuta a concentrarti. Ti dà una buona capacità di base di riconoscere che cosa si pretende da te e anche che cosa puoi benissimo ignorare. Se ho un po’ di saggezza da offrire, è quasi tutta racchiusa in queste parole.
Sei la benedizione della nostra casa da meno di sette anni, anni alquanto magri per giunta, gli ultimi della mia vita. Non mi è stato possibile trovare il modo di cambiare la situazione per provvedere a voi due. Tuttavia, ci penso e prego. È un pensiero che occupa molto la mia mente. Voglio che tu lo sappia.
È una primavera magnifica, e oggi è un’altra magnifica giornata. Per poco non hai fatto tardi a scuola. Ti abbiamo messo in piedi su una sedia e hai mangiato pane tostato e marmellata mentre tua madre ti lucidava le scarpe e io ti pettinavo. Avevi una pagina di addizioni che avresti dovuto fare ieri sera, e stamattina ci hai combattuto per un’eternità, sforzandoti di scrivere tutti i numeri girati dalla parte giusta. Sei come tua madre, fai ogni cosa con estrema serietà. I vecchi ti chiamano diacono, ma quella serietà non viene tutta dal mio ramo della famiglia. Non avevo mai visto nulla di simile prima di incontrare lei. Be’, tralasciando mio nonno. Mi sembrava per metà tristezza e per metà furia, e mi chiesi quale esperienza avesse potuto imprimere quell’espressione nei suoi occhi. E poi, quando avevi all’incirca tre anni, eri proprio piccolo, capitai nella tua cameretta una mattina e ti trovai là, sul pavimento lambito dal sole nella tua tutina da notte, tutto preso a cercare un sistema per aggiustare un pastello spezzato. Poi levasti lo sguardo verso di me e avevi esattamente l’espressione di tua madre. Ho ripensato spesso a quel momento. Ti dirò: a volte ho avuto l’impressione che stessi rievocando la tua vita, le difficoltà che prego non avrai mai, chiedendomi di avere la compiacenza di dare una spiegazione.
– Sei proprio come tutti quei vecchi nella Bibbia, – mi dice tua madre, e sarebbe vero se riuscissi a campare centoventi anni, e magari ad avere un po’ di mucche e buoi e servi e ancelle. Mio padre mi ha lasciato un mestiere, che il caso ha voluto fosse anche la mia vocazione. Ma in realtà per me era una seconda natura, ci sono cresciuto in mezzo. Con tutta probabilità per te non sarà cosí.
Ho visto una bolla di sapone veleggiare davanti alla mia finestra; grossa e traballante si stava tingendo di quell’azzurro libellula che assumono quando sono mature, poco prima di scoppiare. Allora ho guardato giú in giardino, e vi ho visti, tu e tua madre, che soffiavate bolle di sapone alla gatta, in un fuoco di fila tale che la povera bestiola era confusa dalla sovrabbondanza di bersagli serviti. Saltava letteralmente nell’aria, la nostra spensierata Soapy! Qualche bolla saliva tra i rami, addirittura piú in alto degli alberi. Eravate troppo presi dal gatto per vedere le conseguenze celesti delle vostre imprese terrene. Erano davvero incantevoli. Tua madre nel suo vestito azzurro e tu nella tua camicia rossa stavate inginocchiati in terra con Soapy e quel fulgore di bollicine che saliva in mezzo, fra tante risate. Ah, questa vita, questo mondo!
Tua madre ti ha detto che sto mettendo su carta la tua ascendenza, e tu sei sembrato molto contento dell’idea. Bene, allora. Che cosa dovrei annotare per te? Io, John Ames, sono nato nell’anno del Signore 1880, nello stato del Kansas, figlio di John Ames e di Martha Turner Ames, e nipote di John Ames e di Margaret Todd Ames. Nel momento in cui scrivo ho vissuto per settantasei anni, settantaquattro dei quali qui a Gilead, Iowa, fatta eccezione per gli studi al college e in seminario.
Che altro dovrei dirti?
Quando avevo dodici anni, mio padre mi portò alla tomba di mio nonno. All’epoca la mia famiglia viveva da circa dieci anni a Gilead, dove mio padre esercitava il ministero. Suo padre, che era nato nel Maine ed era andato nel Kansas nel terzo decennio dell’Ottocento, era vissuto con noi per parecchi anni dopo essersi ritirato. Poi il vecchio scappò per diventare una specie di predicatore itinerante, o almeno cosí credevamo. Morí in Kansas e là fu sepolto, nei pressi di una cittadina praticamente spopolata. La siccità aveva messo in fuga la maggior parte degli abitanti, quelli che non si erano già trasferiti in città piú vicine alla ferrovia. Ma sicuramente in quella zona c’era un’unica cittadina perché si trovava nel territorio del Kansas, e i pionieri che l’avevano popolata erano Free Soiler2 che non facevano progetti a lunga scadenza. Non uso spesso l’espressione «abbandonato da Dio», ma mi torna in mente quando ripenso a quel luogo. Mio padre riuscí a scoprire dove era finito il vecchio solo dopo parecchi mesi e una gran quantità di richieste d’informazione inviate alle chiese, ai giornali, eccetera. Ce la mise davvero tutta. Finalmente qualcuno gli rispose mandandogli un pacchetto contenente il suo orologio, una vecchia Bibbia consunta e alcune lettere che, come appresi in seguito, erano parte di quelle stesse richieste d’informazione spedite qui e là da mio padre, sicuramente consegnate al vecchio da persone convinte di riuscire a indurlo a tornare a casa.
Mio padre era profondamente addolorato perché le ultime parole che aveva detto a mio nonno erano piene di rabbia e non avrebbe mai avuto la possibilità di riconciliarsi con lui in questa vita. Onorava veramente il padre, in senso generale, e gli riusciva difficile accettare che fosse andata a finire in quel modo.
Era il 1892, e all’epoca viaggiare era ancora un’impresa assai difficoltosa. Andammo il piú lontano possibile in treno, e poi mio padre noleggiò un carro e una pariglia di cavalli. Ci sarebbe bastato molto meno, ma fu quello che riuscimmo a trovare. Sbagliammo strada e ci perdemmo, e avevamo talmente tanti problemi ad abbeverare i cavalli che li lasciammo in una fattoria e proseguimmo a piedi. Le strade erano comunque in condizioni terribili, sommerse di polvere nei tratti piú battuti e ridotte a due solchi induriti negli altri. Mio padre aveva in spalla un sacco di juta con un po’ di attrezzi per dare una sistemata alla tomba, mentre io portavo quel poco che avevamo da mangiare: gallette, carne secca e le rare mele gialle che raccoglievamo qua e là lungo la strada, oltre ai nostri cambi di camicie e calzini, ormai tutti sudici.
In realtà all’epoca mio padre non aveva i soldi necessari per fare quel viaggio, ma per lui era diventato un assillo tale che non poteva aspettare di metterli da parte. Gli dissi che dovevo accompagnarlo, e lui rispettò la mia decisione, anche se complicava le cose. Mia madre aveva letto notizie della grave siccità che c’era giú a Ovest, e fu tutt’altro che contenta quando lui le comunicò che aveva intenzione di portare anche me. Le disse che sarebbe stato istruttivo, e lo fu di certo. Mio padre era determinato a trovare quella tomba a costo di qualunque sacrificio. Prima non mi era mai capitato di chiedermi quando avrei potuto bere il prossimo sorso d’acqua, e annovero tra le mie fortune il fatto di non aver avuto occasione di chiedermelo in seguito. In certi momenti ero veramente convinto che avremmo continuato a vagare fino a morire. Una volta, mentre stava accatastando stecchi nelle mie braccia per fare un falò, mio padre disse che sembravamo Abramo e Isacco in cammino verso il monte Moriah. Lo avevo pensato anch’io.
Laggiú la situazione era talmente disperata che non potevamo comprare da mangiare. Ci fermammo a una fattoria per chiedere alla padrona, e lei tirò giú un fagottino da una credenza e ci mostrò un po’ di monete e banconote dicendo: – Per quel che me ne posso fare, potrebbero benissimo essere dei confederati –. L’emporio aveva chiuso, e lei non riusciva a procurarsi né sale né zucchero né farina. Scambiammo un po’ della nostra misera carne secca – da allora non l’ho piú potuta soffrire – con due uova sode e due patate lesse, che erano squisite anche senza sale.
Poi mio padre le chiese notizie di mio nonno, e la donna rispose: – Ma sí, certo, è stato da queste parti –. Non sapeva che fosse morto, però sapeva dove potevano averlo sepolto, e ci spiegò come arrivare ai resti di una strada che ci avrebbe portati direttamente sul posto, a meno di cinque chilometri da dove eravamo. La strada era ricoperta di erbacce, ma continuando a camminare si intravedevano i solchi lasciati dalle ruote. Infatti, là gli sterpi crescevano piú stentati perché la terra era ancora durissima. Superammo il cimitero due volte. Le due o tre lapidi che c’erano giacevano divelte e il terreno era completamente ricoperto di vegetazione. La terza volta, mio padre notò un palo di recinzione, lo raggiungemmo e scorgemmo una manciata di tombe: una fila di sette, forse otto e, piú in basso, mezza fila, sommersa da quell’erba marrone vizza. Ricordo che il suo aspetto incompiuto mi mise tristezza. Nella seconda fila trovammo un cippo che qualcuno aveva ricavato strappando un pezzo di corteccia da un ciocco e piantandoci per metà alcuni chiodi, che poi aveva piegato e appiattito in modo da formare la scritta REV AMES. La «R» era uguale alla «A» e la «S» era una «Z» girata, ma non c’era da sbagliarsi.
Siccome era scesa la sera tornammo alla fattoria della signora, dove ci lavammo alla sua cisterna, bevemmo al suo pozzo e dormimmo nel suo fienile. Ci portò un po’ di farinata di granturco per cena. Amavo quella donna come una seconda madre. L’amavo fino alle lacrime. Ci alzammo prima dell’alba pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Gilead
  3. Il libro
  4. L’autore
  5. Dello stesso autore
  6. Copyright