Il piano terreno della casa di Bardhaman è invaso dal chiasso della festa, ma qui sopra dove aspetto io c’è abbastanza silenzio perché riesca a sentire i battiti precipitosi e incerti del mio cuore. Sono seduta nella camera che da stanotte sarà destinata a me, sull’alto letto ornato di ghirlande appartenuto ai genitori di mio marito e ai suoi nonni prima di loro. Ancora avvolta nella pesante seta color porpora dell’abito nuziale, sono sudata, ma soprattutto raggelata dalla paura. Gli avvertimenti delle amiche di mia madre mi riecheggiano nelle orecchie. Qualcuno mi ha preparato il sari per la notte – di un tessuto diafano e pieno di trine – disponendolo con sollecitudine sul letto, ma io non sopporto neppure il pensiero di spogliarmi, e tanto meno riesco a pensare a ciò che dovrà accadere dopo, le mani di uno sconosciuto potente come un padrone che mi frugano addosso pazze di desiderio.
Ho preso parte alla cerimonia nuziale con un nebuloso distacco. Mi sono rifugiata con gratitudine in questa sorta di apatia, come se fosse uno scialle magico capace di proteggermi dalla mia stessa vita. Mi sono alzata, seduta e alzata di nuovo ripetendo mantra, sorridendo al momento giusto. Se fossi riuscita a non partecipare pienamente a ciò che mi stava accadendo, mi dicevo, non sarebbe divenuto realtà . A un certo punto mi sarei svegliata rendendomi conto di aver sognato ogni cosa. Ma lo scialle di distacco si è lacerato quando Anju mi ha guardata con odio e mi ha accusata di insidiare suo marito. E adesso non c’è piú niente a difendermi dal peso greve e gelido della disperazione.
La prima notte di nozze. Quante volte l’ho sognata a occhi aperti nell’ultimo anno. La tenerezza con cui mio marito avrebbe sollevato il velo, le sue labbra come un invito, sulle palpebre schive. Le parole affettuose capaci di schiudere ogni segreto del mio corpo. Adesso questa prospettiva mi terrorizza.
Ashok, quali veleni ti bruciano nel cervello stanotte? Se ripenso alla tua lettera, «anche tu sarai tradita da coloro che ami», mi scoppia nel cuore un’ilarità tenebrosa. La maledizione si è già avverata, perché l’odio negli occhi della mia adorata cugina per amore della quale ho rinunciato a te non è forse il peggiore dei tradimenti?
Sento dei passi su per le scale, le rauche risate dei giovani che scortano Ramesh in camera da letto. Lui li saluta e chiude la porta. Lo scatto della serratura ha la violenza di un’esplosione. Mentre mio marito si avvicina non posso fare a meno di tremare. Mi stringo le mani con forza: non voglio dargli il vantaggio di sapere quanto sono spaventata. Lui si siede sul letto: ma con delicatezza, e non troppo vicino a me. Restiamo in silenzio: non mi riesce di portare avanti una conversazione, e lui non sembra interessato a parlare. Quando si china in avanti per afferrarmi una mano, io mi ritraggo. Ramesh sta per dire qualcosa, poi rinuncia. Infila le dita scure tra le mie, pallide e tese, e poi si ferma a guardarle. – Mi trovi tanto brutto? – domanda infine.
Lo stupore mi fa alzare gli occhi per incontrare i suoi. Non è la domanda che mi aspettavo da un marito cosà sicuro di sé: perché tale mi era apparso nel corso della cerimonia. C’è un’eco di delusione nella voce, un’ombra di sofferenza. Questo attenua le mie paure.
Forse Ramesh è sempre stato consapevole della propria scarsa avvenenza, ma gli ultimi giorni devono essere stati particolarmente duri per lui, con i parenti sempre pronti a sorprendersi della mia bellezza. Altri si sarebbero risentiti nel vedersi ignorati mentre venivano prodigate tante attenzioni alla moglie, ma lui è stato paziente. Perfino quando un vecchio signore mi ha definita «la dea Lakshmi scesa in terra» il suo sorriso non ha vacillato.
Ma ora la tristezza delle parole di Ramesh fa vibrare una corda sensibile dentro di me. Come figlia di mia madre so bene cosa significhi sentirsi inadeguati. Non voglio provocare in un altro una simile sensazione.
Se Ramesh fosse una donna, gli metterei un braccio sulle spalle e gli direi che il problema non è lui, ma la situazione insopportabile in cui mi trovo imprigionata: e a chi, se non a me stessa, dare la colpa di tutto? Ma non devo correre il rischio di essere fraintesa con un gesto del genere. Perciò mi limito a fissare lo sguardo sugli anelli d’argento che porto alle dita dei piedi, e contemplando il loro fioco lucore mi sforzo di parlare. – È tutto cosà nuovo per me... non posso... mi dispiace –. Le parole si confondono in un sussurro poco convincente.
Ramesh ride sollevato. – Capisco benissimo. Certe cose non si devono imporre, ne sono convinto. Sarò felice di darti... di dare a entrambi il tempo di conoscerci meglio.
Quando spegne la luce ci corichiamo l’uno di fianco all’altra, bene attenti a non toccarci. Sono molto tesa, non so se posso fidarmi. Ho sentito raccontare troppe storie dalle amiche di mia madre. Ma Ramesh parla in tono sommesso e dolce, fermandosi cortesemente di tanto in tanto per lasciarmi replicare. Mi racconta del suo lavoro di ingegnere, mi confessa quanto gli piaccia. Quanto si senta stimolato dai problemi da risolvere. Mi descrive il modo in cui immagina un progetto molto tempo prima della sua realizzazione, le linee sottili e lucenti di un nuovo tratto ferroviario in un territorio considerato troppo impervio da chiunque altro. Il nitido arco di un ponte sospeso su di una gola dalle pareti a strapiombo sopra un mare di foschia.
– Non c’è niente di piú bello del clangore dei treni quando passano su un ponte come quello: un fragore gigantesco, risonante, pieno di echi. Forse un giorno ti porterò con me per fartelo ascoltare, – dice Ramesh.
Io annuisco. Nella luce fioca che filtra dal cortile sottostante i suoi occhi brillano immobili, fissi sul mio volto.
– Cambiando argomento, – soggiunge in tono disinvolto, è meglio non parlare con nessuno del nostro patto di stanotte, sei d’accordo?
Ho voglia di ridere. Non mi pare di essere circondata da un esercito di amiche con cui confidarmi, qui. Ma so cosa intende dire: se la madre venisse a sapere della nostra intesa platonica, ci ritroveremmo entrambi in un mare di guai. Durante la cerimonia, in varie conversazioni con parecchi parenti colmi di ammirazione l’ho già sentita esprimere diverse volte la speranza di veder nascere al piú presto i bambini piú belli mai apparsi tra i Sanyal.
– Sono d’accordo, – confermo. Non amerò mai Ramesh: per un uomo soltanto posso provare questo sentimento tumultuoso e lacerante, capace di librarti in volo fino in paradiso e insieme di scaraventarti sul fondo dell’inferno. Ma la nostra piccola cospirazione mi fa pensare che potremo diventare amici.
Adoro essere sposata, almeno se non ci rifletto troppo sopra. Sembra di galleggiare su un letto immenso fatto di zucchero filato, incredibilmente leggero, rosa e dolce, ma pieno di vuoti improvvisi in cui si può precipitare da un momento all’altro. E allora la massa appiccicosa ti cattura e non ti lascia piú andare.
Essere sposata è come abbandonarsi al vino nel modo in cui immagino si debba fare: sollevare il capo e lasciarsi colmare la bocca dal liquido fresco, mentre qualche goccia scivola giú per la gola. E finché si continua a bere si tengono lontani i malesseri del giorno dopo.
Ma perché proietto ombre su un paesaggio pieno di sole? Sunil è un marito estremamente premuroso. Quasi ogni giorno mi porta da qualche parte dove possiamo stare noi due soli: cosà cominceremo a conoscerci meglio prima della sua partenza per gli Stati Uniti, mentre io rimarrò qui in attesa del visto. Passeggiamo intorno al Victoria Memorial. Ci sediamo sulla riva del Rabindra Sarobar a gettare petali nell’acqua. Nel descrivermi l’America, mio marito la fa apparire stupefacente come i regni fatati delle favole di Pishi. – Puoi diventare qualsiasi cosa laggiú, Angelo, – mi dice in tono entusiasta chiamandomi con il soprannome speciale che ha scelto per me. – Puoi diventare quello che vuoi –. Qui, seduta con il capo appoggiato sulla sua spalla, sotto i cespugli profumati di Hasnahana mentre il sole copre il lago di increspature dorate, io gli credo.
Il matrimonio mi ha cambiata in modo imprevedibile. Se sono insieme a Sunil, mi comporto come una gatta con i gattini appena nati. Qualsiasi intruso mi dà fastidio: e tutti mi sembrano degli intrusi. Il giorno in cui siamo andati a trovare mia madre per la visita tradizionale alla famiglia della sposa, un paio di settimane dopo le nozze, mi vergogno ad ammetterlo, ma ho dovuto fare un grande sforzo per nascondere la mia impazienza. La casa che ho sempre considerato imponente mi è apparsa all’improvviso decrepita: mi pareva quasi di sentire marmi e calcina sgretolarsi e cadere a pezzi intorno a me. E le madri sembravano rimpicciolite, rattrappite, quasi stessero sprofondando dentro di sé, inghiottite dal vuoto rimasto al posto mio e di Sudha. E quando Pishi ha portato Sunil fuori dalla stanza con il pretesto di mostrargli la casa perché la mamma potesse chiedermi se mi trattava bene, io mi sono sentita contrariata e le ho risposto a monosillabi imbronciati. Con quale rapidità la mia lealtà ha cambiato direzione. Se anche avessi avuto dei problemi con Sunil, non gliene avrei parlato. Per questo ho detto tanto precipitosamente di sà appena mi ha domandato se mi piacciono i miei suoceri.
La madre di Sunil mi piace davvero. È una persona schietta e di buon cuore, e vuole molto bene al figlio. Sarebbe contenta di avere piú tempo da trascorrere con lui durante questa sua breve visita in India, lo so, ma non si lamenta mai se Sunil rimane fuori tutta la giornata con me e rientra soltanto poco prima del ritorno del padre dall’ufficio. Ci prepara allegramente una tazza di tè e mi racconta episodi dell’infanzia di mio marito, ridendo nel rievocare la volta in cui per poco non incendiò la cucina in seguito a un esperimento scientifico, o nel confidarmi quanta paura gli facessero i ragni. In quelle occasioni mi sembra bellissima.
Ma quando c’è suo marito si trasforma in una donna completamente diversa. Tiene la testa bassa e parla in lacrimosi bisbigli, o si ingobbisce con aria colpevole precipitandosi ad andare a prendere quello che lui le chiede urlando. Grida sempre, mio suocero. Immagino che la cosa lo riempia di soddisfazione. Cosà come lo diverte citare sentenze denigratorie sulle donne tratte dai testi sacri della religione indu. Faccio parte della famiglia da troppo poco tempo per essere oggetto delle sue sfuriate, ma l’ho visto scoccarmi un’occhiata significativa in un paio di occasioni mentre pronunciava frasi di questo tenore: – Le donne e l’oro sono all’origine di tutti i mali.
Sono seduta al mio tavolino da toeletta, avviluppata in un sari bengalese riccamente ornato d’oro e inamidato al punto da diventare rigido, e sto cercando di drappeggiarmelo sul capo. Il velo continua a scivolare via, e perciò sono costretta a fissarlo con le forcine. Una volta sono scesa a cena con una kurta a fiori ricevuta in regalo da Sunil, ma sua madre si è precipitata da me a implorarmi di indossare qualcos’altro prima dell’arrivo del marito. Aveva un’aria cosà spaventata che non ho avuto il coraggio di replicare. Tiranno, penso mentre mi aggancio al collo una pesante catena adorna di pietre preziose. Ma per dirla alla maniera di Sunil, al diavolo. Devo sopportarlo soltanto per un anno al massimo, finché non otterrò il visto, e per amore di mio marito ci riuscirò. Sorrido all’immagine di me nello specchio, pregustando i gesti con cui Sunil piú tardi stasera mi toglierà i vestiti, trasformandomi con mani carezzevoli e indugianti non nella solita vecchia Anju, ma in una donna straordinaria e magica.
Ecco cos’è il matrimonio: la metamorfosi di noi stessi in creature meravigliose e terrificanti nelle quali mai avremmo sognato di poterci tramutare.
In sala da pranzo il padre di Sunil è già seduto a capo del grande tavolo di mogano. Aiuto la madre a portare le vivande. Serviamo per primo mio suocero, poi Sunil, di fronte a lui. Quindi mangiamo noi, anche se mia suocera è sempre pronta a scattare in piedi per offrire agli uomini una seconda porzione di questo o di quello.
La mamma di Sunil cucina con passione. La preparazione del cibo per lei come per tante altre donne è un modo di esprimere affetto. Il suo compito potrebbe essere un po’ piú semplice se il marito non fosse cosà esigente. Ma comunque riesce a fare di ogni cena un capolavoro. Stasera ha preparato musoor dal al mango verde, un piatto eccellente, sostiene mio suocero, per placare il cattivo umore, anche se su di lui ha pochissimo effetto. Poi c’è riso Basmati stagionato (per agevolare la digestione), purea di patate con contorno di zucche amare (per purificare il sangue) e uno stufato piccante di ocra allo zenzero (per stimolare i succhi gastrici). Io ho portato in tavola un piatto di raita a base di yogurt e cetrioli (anti-invecchiamento) e un grande vassoio colmo di pesce tangra fritto, bello croccante per poterlo mangiare intero (cosà da non sprecare neppure una briciola di calcio). Mentre dispongo tutte le vivande sul piatto del padre di Sunil, mia suocera entra di corsa con una ciotolina coperta e la mette vicino al figlio. Poi, con un’aria assurdamente colpevole, si affretta a servirlo.
Neppure una mossa, ovviamente, è sfuggita all’occhio di falco del marito.
– Quello cos’è? – le domanda.
– Niente, – balbetta lei. – Una cosetta che ho preparato per Sunil, a te non piace, per questo l’ho offerta solo a lui...
– Portala qui, Anjali, – mi intima mio suocero. Prendo in considerazione l’idea di disobbedire: ma in tal caso si rivolgerebbe a sua moglie. Guardo Sunil per sapere come comportarmi. Tiene gli occhi fissi davanti a sé, e la mascella serrata, perciò faccio quanto mi è stato ordinato. Il padre di Sunil solleva il coperchio. Guardiamo insieme la bruna crema sottostante: è chutney di tamarindo, denso e compatto, sulla cui superficie brillano minuscoli frammenti di peperoncino rosso. Devono esserci volute ore per prepararlo.
Con un solo rapido movimento mio suocero scaglia la ciotola dall’altra parte del tavolo, verso la moglie. Si sente il tonfo contro la carne, poi il clangore del metallo sul pavimento.
Guardo stordita e incredula la salsa rovesciata sulla tovaglia, le macchie scure che si allargano sul sari di mia suocera. Nessuna esperienza precedente mi ha preparata a una scena simile. Piú di ogni altra cosa mi sconvolge l’atteggiamento di umiltà con cui la donna abbassa gli occhi senza neppure fare il gesto di pulirsi le braccia sporche.
– Non ti avevo detto di non cucinare mai piú quella roba malsana? – tuona il padre di Sunil. – Non lo sai che il solo odore mi dà la nausea? Chi lo paga il cibo che si mangia in questa casa? Avanti, rispondimi.
A mia suocera tremano le labbra. Quanto dev’essere umiliante per lei vedersi trattare cosà di fronte alla nuora appena acquisita. Vorrei portarla via di qui, asciugarle le guance umide e le braccia chiazzate di salsa, e poi scuoterla per suscitare in lei rabbia, affinché non permetta mai piú a quell’uomo di malmenarla in questo modo. Ma quando faccio per avvicinarmi a lei, lo scatto secco della voce di mio suocero mi blocca.
– Siediti, Anjali. Dove credi di andare?
Sto per dirglielo, ma Sunil spinge indietro la sedia e si alza in piedi. Lo schianto del pugno sbattuto sul tavolo copre le proteste di suo padre. – Basta! Sono stufo delle tue prepotenze con mia madre. Non ne posso piú della tirannia con cui pretendi sempre di obbligarci a fare tutto quello che vuoi tu. Se vuoi proprio saperlo, sono stato io a chiederle di prepararmi il chutney di tamarindo...
Mio suocero resta a bocca aperta. Non è abituato alle ribellioni. Poi anche lui si alza in piedi. I due uomini si fronteggiano ai due lati opposti del tavolo, con un’identica smorfia di rabbia sul volto.
– Cosà è questo che hai imparato in America, a sfidare tuo padre? Chi ti ci ha mandato, vorrei sapere? Chi ha pagato tutte le spese per permetterti...
Il mio bel marito ridente di cui sono tanto innamorata fissa il padre con uno sguardo di puro odio al centro degli occhi. Ha il viso di un assassino: se fosse uno sconosciuto incontrato per caso, fuggirei via.
– Non ti preoccupare, sarò ben lieto di restituirti i soldi fino all’ultimo paisa, e anche di piú, – sillaba Sunil. – Non voglio vivere con un debito nei tuoi confronti, per sentirmelo rinfacciare ogni giorno della mia vita. Come la mia povera mamma. E voglio dirti una cosa: se ti vedo maltrattarla ancora una volta.
– Ah, reciti la parte dell’eroe adesso, eh? – esclama con disprezzo suo padre. – Vuoi farti bello davanti alla mogliettina. Mi domando cosa penserebbe di te se sapesse delle tue prodezze americane, alcolici e donnacce: eh, sÃ, non crederai che non ne abbia saputo niente...
Ma a questo punto mia suocera, finora paralizzata dallo sgomento, mi trascina in cucina e chiude la porta, e io riesco a sentire soltanto attutite esplosioni di rabbia che mi ricordano un combattimento di tori.
A tarda notte sono a letto, da sola, con il mal di stomaco pe...