Polvere di Diamante
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Polvere di Diamante

e altri racconti

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Briciole di vita costituiscono lo spunto di ognuno di questi nove racconti di Anita Desai. Nove storie diverse, dislocate in luoghi diversi, India, Cornovaglia, Messico - il paese dove la scrittrice trascorre vari mesi all'anno e che più le ricorda l'India, per i colori e per la malinconica allegria dei suoi abitanti. Briciole di vita che segnano l'impalpabile confine tra vita esterna e vita interiore, dettagli che acquistano un imprevisto rilievo, ora bizzarro ora tragico, ora di quieta accettazione del mistero dell'esistenza. Così è Diamante, il cagnoletto nero protagonista del racconto che dà titolo alla raccolta, l'imprevisto che travolge la casa e la vita dell'uomo che lo accoglie. In ogni racconto il protagonista viene messo all'improvviso di fronte a se stesso da un fatto di cui è casualmente testimone e che apparentemente non lo riguarda, e tuttavia produce in lui un cambiamento, altera un equilibrio, scava nella coscienza facendo riaffiorare ricordi. C'è una sorta di intimità reiterata di racconto in racconto, per quanto le situazioni cambino, e cambino i contesti e i personaggi: è l'intimità di Anita Desai con il dettaglio rivelatore, quello che svela un muto indolenzimento interiore. A questi dettagli Desai presta la sua penna, qui felicissima, una penna che non graffia mai il foglio, ma ci si appoggia sopra con garbo. Accompagna piuttosto i personaggi nell'attraversamento del guado che il destino ha loro riservato, e non importa se il guado è una strada bianca e polverosa di una cittadina messicana dove riecheggiano i versi di Octavio Paz; o un treno indiano che insieme al protagonista trasporta la sua storia vera, quella che lui ancora non conosce; o un albergo di una località marina che tuttavia non s'affaccia sul mare. Ci sono tutti i temi cari a Desai, in questi racconti, le case come luogo di giochi e scherzi della memoria, paesaggi bellissimi e concreti, fragili sicurezze maschili, fantasmi femminili.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806149260
eBook ISBN
9788858421499

Gli abitanti dei tetti

Mentre pagava il conducente del motorisciò, mise cautamente a terra un piede, tenendo ben stretta la borsa. Il quartiere era assai piú lontano di quanto si aspettasse – avevano attraversato bazar, zone commerciali e periferie di cui ignorava l’esistenza – ma il nome sul cancello corrispondeva a quello che aveva nella borsa. Tirò il saliscendi per annunciare il suo arrivo. Si udí immediatamente il guaire stridulo di un cane, che lasciava indovinare uno di quei cagnetti pronti a conficcarti i denti nelle caviglie o a lacerarti l’orlo del sari. Si udivano anche gli strilli di diversi bambini. Eppure nessuno venne ad aprire il cancello e alla fine lo aprí lei stessa, sperando che il cane fosse legato, o in casa. Di sicuro non c’era nessuno nel minuscolo giardino, nulla piú che un fazzoletto d’erba e un rubinetto davanti alla villa intonacata di giallo. Evidentemente bisognava entrare. Raggiunse quindi la porta d’ingresso – su un lato della casa – e premette il campanello, schiarendosi la voce come una venditrice che s’appresta a offrire una varietà di lavori a maglia o marmellate fatte in casa.
Finalmente venne ad aprire un domestico, un ragazzino con indosso pyjama di cotone a righe e una logora tunica grigia, e la condusse dalla famiglia. Sedevano tutti su un grande letto al centro di una stanza con le pareti dipinte di un blu elettrico, e guardavano uno spettacolo su un televisore gigantesco. Era una scena chiassosa, estremamente drammatica, in cui si confrontavano un esaltatissimo eroe, un’eroina in lacrime, e un santone dal sorriso benevolo: tutti seguivano la trasmissione a bocca aperta, palesemente restii a distogliere l’attenzione. Ma quando il cane schizzò verso di lei da sotto il letto, e lei gridò, e il domestico agitò lo scopino urlando: – No, Candy, buona! Giú, Candy! – non ebbero altra scelta che girarsi verso di lei, con irritazione.
– Sei venuta proprio all’ora del Mahabharata, – disse con tono di rimprovero la donna seduta sul letto a gambe incrociate.
– Siediti, beti, siediti, puoi guardarlo con noi, – disse l’uomo piú conciliante, indicando un angolo libero del letto, e dal momento che l’attenzione di tutti era di nuovo rivolta allo schermo, fu costretta ad appollaiarvisi, tenendo le caviglie prudentemente sospese in aria per evitare che fossero addentate da Candy, che si era rifugiata lí sotto, ringhiando. Dopo averla fissata per un po’, i due bambini, impassibili e di nuovo con le dita nel naso, tornarono all’episodio del Mahabharata che tutta Delhi guardava, insieme al resto del paese, ogni domenica sera – tutti, tranne lei.
Erano successe troppe cose nella sua vita, non c’era piú posto per guardare la televisione e seguire soap opere e saghe mitologiche. E comunque non c’era televisore, nel pensionato per sole donne in cui aveva una camera. Non c’era nulla tranne lo stretto necessario: la sala da pranzo al pianterreno, con i lunghi tavoli, le panche, i piatti e le posate di metallo, e la cucina con il passavivande da cui spuntavano i recipienti metallici del cibo; e ai piani superiori le camere, tutte uguali, tre metri per due e mezzo, un letto di legno e uno scaffale appeso con due chiodi alla parete. Si era dovuta comprare un secchio di plastica da portarsi nel bagno in fondo al corridoio in modo da potersi lavare sotto il rubinetto a stelo, non abbastanza alto per fungere da doccia, e aveva sistemato gli articoli da toeletta sullo scaffale, lasciando gli abiti dentro il baule metallico, che copriva con una tovaglia rosa e su cui si sedeva quando non voleva sedersi sul letto, o quando un’altra ospite del pensionato veniva a fare quattro chiacchiere con lei.
Il minimalismo di quelle abitazioni era stato per lei una novità e insieme un trauma. Veniva da una casa dove la sistemazione degli oggetti, il loro rassicurante acciottolio e comodità erano dati per scontati. Niente di particolarmente costoso o ricercato, ma c’era abbondanza di tutto, mille oggetti accumulati negli anni – stuoie, sedie, cuscini, tovaglie, piatti – nelle stanze, nelle verande, negli angoli piú strani. Cosí, nelle prime due settimane, si era sentita come intrappolata; ogni volta che chiudeva la porta, si sentiva divorata da quella cella, prigioniera. Se lasciava la porta aperta, ogni ragazza che passava dava un’occhiata dentro e diceva: «Oh, Moy-na!», poi entrava a chiacchierare, a raccontarle dell’ultima nefandezza compiuta dalla direttrice o del cibo schifoso che veniva servito al piano di sotto, e anche del lavoro, dei loro boss, dei colleghi, della casa e della famiglia. Alcune erano divorziate, altre vedove, e alcune mantenevano famiglie numerose, tutte situazioni che alimentavano una riserva inesauribile di storie. Per riuscire a dormire, avrebbe dovuto chiudere la porta e fingere di non esserci. A quel punto, però, dubitava lei stessa di esserci.
Tuttavia era tale la sua determinazione a crearsi una nuova vita di donna che lavora nella metropoli, e tale la sua inattesa, imprevista capacità di adattamento, che dopo circa un mese quel minimalismo non le apparve piú come una privazione o una sfida, ma semplicemente come un modo di vivere. Anzi, tornando dall’ufficio, succedeva anche a lei di fermarsi sulla soglia di una delle sue vicine e dire: – Sai cosa stia bollendo in pentola per noi al piano di sotto? – e di ridere quando le altre mugugnavano invariabilmente: – Zucca! – perché in effetti sempre di quello si trattava, oppure di avvertire: – La direttrice è completamente pazza! Ho sentito che se la prendeva con Leila, ha scoperto che ha un ferro da stiro, nascondete i vostri, presto! – Divenne un’abitudine, anziché un sacrificio, portare il secchio fino al bagno quando voleva lavarsi, e riportarselo in camera per non farselo rubare: i furti erano frequenti, purtroppo. Anche il rubinetto, e l’acqua, cominciarono a sembrarle dei lussi, comodità che lí dentro non si potevano dare per scontate.
Dopo una prima colazione a base di tè, pane e uova fritte, si metteva in coda alla fermata dell’autobus insieme con quelle che si servivano del Ladies’ Special, il bus riservato alle donne, che passava intorno alle nove e le portava ai loro posti di lavoro – facevano le centraliniste, le segretarie, le infermiere, le insegnanti, le hostess di compagnie aeree e le impiegate di banca – senza il rischio che torme di giovanotti si premessero loro addosso come magneti, o addirittura osassero pacche e pizzicotti prima di scendere dall’autobus e correre alle loro incombenze. Alcune donne avevano messo a punto strategie difensive. Lily, detta «la dura», insegnò alle altre a viaggiare stringendo nel pugno una molletta acuminata e a usarla per impedire a certuni di avvicinarsi troppo. – Ho fatto lacrimare uomini grandi e grossi, – si vantava. Ma la maggior parte di loro preferiva pagare una o due rupie in piú e viaggiare sul Ladies’ Special invece che sui normali mezzi pubblici. Al pari della doccia, era un lusso, un di piú, di cui erano grate.
I racconti di quelle strategie esistenziali, quando tornava a casa, valevano a Moyna l’ammirazione di famigliari e amici, ma le difficoltà sorsero proprio quando si stava abituando a quel nuovo, eccitante stile di vita: un giorno sorprese la cuoca del pensionato mentre prendeva a calci un gattino scheletrico intrufolatosi dentro nella speranza di trovare qualcosa da mangiare: un goccio di latte in una ciotola, o un avanzo sfuggito alla pattumiera. Si chinò istintivamente e lo chiamò a sé – veniva da una casa che dava rifugio a un gran numero di gatti, cani, uccelli, zoppi, gravidi, morenti. Divise il pane e le uova fritte con il gattino, che subito cominciò un andirivieni tra le pieghe del sari, poi la seguí in camera sua. Quella sí che era una novità: avere qualcuno con cui condividere la cella. Si stupí di come questa smise all’istante di essere una prigione. Il gattino si installò sopra il telo rosa, sul baule, e cominciò a leccarsi, sollevando delicatamente prima una zampetta poi l’altra in un’accuratissima toeletta, come se volesse rendersi degno di una sistemazione cosí lussuosa. Quella notte, svegliandosi, si accorse che era saltato dal baule al letto. Pressoché sicura che avesse le pulci, cercò di allontanarlo, ma lui si aggrappò e cominciò a fare le fusa, come a persuaderla della sua impeccabile pulizia. Poi si allungò contro la sua gamba e le fusa la cullarono finché riprese sonno.
Un giorno, mentre tutte loro erano assenti, la direttrice stava facendo un’ispezione per scovare ferri da stiro, piastre e altri oggetti proibiti, e uscí dalla sua stanza tenendo per la collottola il gattino. Moyna si dichiarò innocente e giurò di non sapere come fosse entrato, ma quando venne sorpresa a svuotare il bricco del latte in un piattino per Mao, la direttrice le sbatté in faccia l’avviso di sfratto. Il regolamento parlava chiaro: «Non sono ammessi animali».
Istintivamente, sapeva che era meglio non far cenno a Mao. In qualche modo sarebbe venuto fuori, se affittava la stanza che la famiglia aveva da offrire. Ora però, osservandone le facce tra i guizzi di luce del televisore, cominciò a dubitare di volerla prendere. In ufficio, Tara, che era un’esperta in materia, le aveva detto: – Non devi prendere la prima stanza che vedi, Moyna. Puoi guardarti intorno e scegliere –. Ma Moyna si era già guardata intorno e se, in confronto alla cella del pensionato, tutte le stanze le erano sembrate principesche, malauguratamente era stata lei a essere respinta da una sfilza di ipotetici padroni, o padrone, di casa. Scrutata con sospetto, sottoposta a domande terribilmente ostili, si era resa conto che, qualunque cosa fosse scritta nell’annuncio, provavano in realtà timore e disprezzo per una donna sola che lavora, e l’idea di accoglierla nelle loro case sicure e per bene in realtà li atterriva. Moyna non capiva come lei potesse dare una simile impressione di peccato e impudicizia. Indossava ogni giorno un sari di cotone pulito e inamidato, e sebbene avesse i capelli corti, li fermava con semplicità dietro le orecchie, senza arricciarli o tingerli. Quanto al suo lavoro nella redazione di una rivista letteraria, le sembrava piuttosto innocente. Eppure quelli stringevano gli occhi, la vedevano troppo giovane, troppo graziosa, troppo indifesa e libera, troppo esposta ai pericoli, e la liquidavano: non era la candidata adatta ad affittare il loro barsati. Quel tipo di stanze erano state costruite sui tetti a terrazza di Delhi per consentire alle famiglie che nelle notti estive dormivano all’aperto di mettere al riparo i letti in caso di tempeste di sabbia o improvvisi temporali. Ma adesso che Delhi era troppo pericolosa per dormire al fresco, i barsati venivano affittati a donne nubili e indipendenti e a uomini scapoli, con notevoli guadagni.
Improvvisamente convinta di non voler, dopotutto, affittare il barsati di quella famiglia cosí poco cordiale, Moyna rimise i piedi per terra cercando di mormorare una scusa. – Devo rientrare al pensionato entro le nove, – disse quando finí l’episodio del Mahabharata, con gran dispendio di frecce fieramente scagliate in cielo mentre un giavellotto roteante decapitava il cattivo. Il capofamiglia fece segno ai figli di spegnere e, rivolgendosi finalmente a Moyna, gridò al domestico di portare qualcosa da bere. – Cosa preferisci, beti? Tè, lassi, limonata?
– No, niente, grazie, – mormorò lei, sentendo su di sé gli occhi gelidi della moglie, che contava su un suo rifiuto, ma il giovane domestico tornò comunque con uno spesso bicchiere di acqua tiepida per lei. Mentre la sorseggiava, ebbe inizio l’interrogatorio, piú volte interrotto dai bambini, che chiedevano alternativamente cibo o un supplemento di televisione, oppure dal cane, che era emerso da sotto il letto e l’annusava sospettoso. Moyna teneva gli occhi bassi per controllare Candy e forse il suo atteggiamento fu scambiato per modestia o pudore perché, con sua sorpresa, la signora disse: – Vuoi vedere la stanza? Ramu, Ramu! Prendi la chiave del barsati e vai ad aprire.
E là, sul tetto a terrazza della villa intonacata di giallo, in un quartiere nei dintorni di New Delhi di cui Moyna non aveva mai sentito parlare, scoprí con grande meraviglia una reggia, una vera reggia. La terrazza, che copriva l’intera superficie della villa, le parve immensa, piú vasta di tutte le stanze che aveva occupato dal suo arrivo a Delhi, ed era uno spazio chiaro, vuoto sotto un cielo vuoto, con un vasto panorama di tetti su ogni lato, di cui ebbe l’impressione di essere l’imperatrice. Nei torridi mesi estivi doveva essere un forno ma, gloria delle glorie, un grande albero di pipal si allungava dal piccolo cortile cintato sul retro della casa fin sopra il barsati, riparandolo dal sole con un baldacchino di fruscianti foglie argentee, e stendeva i suoi rami mormorando, Moyna non ebbe dubbi, un gentile benvenuto.
Dopo una visione cosí densa di buoni auspici, che importanza aveva se il barsati vero e proprio era un semplice cubo, e non veniva pulito da cosí tanto tempo che l’unica finestra era incrostata di polvere e intrichi di ragnatele pendevano in ogni angolo? Che importanza aveva se il letto era solo una branda di corda, un charpai del tipo piú economico, e le ante dell’unica credenza addossata alla parete sembravano non combaciare e pendevano dai cardini, impossibili da chiudere? Che importanza aveva se la presunta cucina non era altro che un fornello a kerosene sopra un tavolo di legno che doveva servire anche da scrivania e tavolo da pranzo, e il presunto bagno un cubicolo a cielo aperto, con un gabinetto alla turca ingiallito e pieno di macchie e un unico rubinetto? Moyna stava già pensando a come avrebbe trasformato tutto questo. La nudità del luogo le dava la libertà di indulgere ai sogni e alle fantasie piú sfrenate.
Poi incrociò lo sguardo del giovane domestico: in piedi accanto alla porta che dava sulla scala, l’aspettava rigirandosi la chiave tra le mani con una smorfietta; allora Moyna si rese conto del proprio sorriso e delle mani che si era portata intorno alla gola in un’espressione sciocca. Si ricompose assumendo un’aria severa e lo seguí al piano di sotto.
I padroni di casa si erano trasferiti nella veranda e l’aspettavano, somiglianti come due gocce d’acqua per la loro corpulenza, la piega del mento e l’espressione di benigno compiacimento: parevano sicuri della sua risposta, come poteva essere altrimenti dopo aver visto ciò che avevano da offrirle? Ovviamente doveva firmare subito un contratto per un anno, che loro avrebbero potuto revocare in qualsiasi momento, e versare tre mesi di cauzione piú il primo mese d’affitto. – Ti accoglieremo in casa nostra come la nostra beti, la nostra figliola, – le assicurarono magnanimi. – D’ora in poi, non devi preoccuparti di nulla. I tuoi genitori non devono preoccuparsi per te. Saremo noi i tuoi genitori.
Tara venne dall’ufficio con suo marito Ritwick, per aiutarla nel trasloco. Moyna aveva soltanto un baule metallico, ma loro insistettero, non poteva fare tutto da sola, inoltre Ritwick brontolava che voleva conoscere i Bhalla, «per sicurezza». I Bhalla li aspettavano seduti su un divanetto di vimini nella veranda, e scrutarono con aria apertamente inquisitoria ogni singolo oggetto che portavano. Moyna ebbe l’impressione che non fosse Ritwick a soppesare i Bhalla bensí i Bhalla a soppesare lui. Di sicuro, dopo che Moyna ebbe fatto le presentazioni, e prima di lasciargli metter piede sul primo gradino, lo sottoposero a un interrogatorio su genitori e parenti, la casa di famiglia, la sua attuale occupazione e il tipo di rapporto che c’era tra Tara e Moyna. Ma quando finalmente raggiunsero la terrazza, Ritwick esaminò ogni crepa e fessura con analoga sospettosità. Poi domandò: – Dov’è il serbatoio dell’acqua?
– Quale serbatoio dell’acqua?
– Il tuo serbatoio dell’acqua. Da dove viene, la tua acqua?
– Non lo so. Da dove vuoi che venga? Dai tubi, immagino.
Ritwick andò nel minuscolo bagno e aprí il rubinetto. Ne venne un debole gocciolio, un gorgoglio lamentoso, poi un rauco silenzio. Niente acqua. Moyna era in piedi sulla porta, preoccupata: – Manca l’acqua, – cercò di spiegare. – Lo sai che a Delhi spesso manca l’acqua.
– Non se si ha un serbatoio. Tutti ne hanno uno, o piú d’uno. I Bhalla ce l’hanno al piano di sotto, ma tu hai bisogno di una pompa e di un tuo serbatoio in modo che l’acqua possa essere pompata da quello di sotto.
– Oh!
La guardò con la stessa espressione che le riservavano i suoi fratelli quando mostrava di non capire cosa stessero facendo chini sotto il cofano dell’auto, o con certi attrezzi elettrici in casa. Veniva da una famiglia di persone cosí competenti che non aveva mai avuto bisogno di esserlo anche lei.
– Ne hai parlato con i Bhalla?
– Di cosa?
– Del serbatoio dell’acqua. Della pompa.
– No, – ammise lei.
Ritwick si diresse verso la scala con l’evidente intenzione di scendere a informarsi immediatamente, ma lei lo trattenne: – Gliene parlo io, Ritwick, gliene parlo io... dopo... quando andiamo giú.
Tara uscí dal barsati. – Hai delle tende?
– Per cosa?
– Perché se pulisci i vetri, i vicini possono guardare dentro.
– No, non possono! C’è l’albero... non vedi il mio bellissimo albero? È come un paravento.
– Vieni a vedere.
Tara aveva pulito i vetri, e un giovanotto con una faccia che pareva un panetto di burro e baffetti che si arricciavano su labbra imbronciate, le guardava dal suo tetto con palese curiosità, e con una certa ammirazione, data la poca distanza lo si vedeva benissimo.
– Oh, Tara, perché hai pulito quella finestra? – gridò Moyna. – Non ce l’ho una tenda. Dove potevo prenderla?
– Allora dammi un lenzuolo, – ordinò Tara, – e aiutami a sistemarlo.
– Ma l’albero... – insistette Moyna, e andò a vedere perché non abbassava un ramo dove ce n’era bisogno. L’ombra dell’albero copriva l’intero barsati (e Ritwick dovette ammettere che in sua assenza il sole l’avrebbe trasformato in un forno tandoori) ma era alto e non forniva nessun riparo dagli sguardi degli altri abitanti dei tetti, che sembravano ora tutti in piedi sulla porta dei rispettivi barsati, per esaminare chi si stava insediando alla loro altezza. Moyna si rese conto d’un tratto di essere entrata a far parte di una comunità.
– Quando sono venuta ieri, non ho visto nessuno, – mormorò abbacchiata.
– Be’, approfittane per presentarti adesso, e spera che tra loro non ci siano ladri e assassini, – disse Ritwick con un’occhiata truce e con un ampio gesto del braccio, – dal momento che... gli basta fare un salto per passare dal loro tetto al tuo.
– Piantala, Ritwick, – tagliò corto Tara. – Perché vuoi spaventare la povera Moyna?
– Sto solo dicendo che Moyna farebbe bene a starsene dentro e chiudere a chiave la porta.
– Ma se pensavo di portar fuori il letto e dormire sotto le stelle!
– Sei impazzita? – strillarono insieme Tara e Ritwick, e Tara aggiunse: – Vuoi una fotografia sui giornali sotto il titolo: Donna sola derubata e uccisa in un ba...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Polvere di Diamante
  3. Ringraziamenti.
  4. Sua Altezza
  5. Paesaggio invernale
  6. Polvere di Diamante
  7. Territori sotterranei
  8. L’uomo che si vide annegare
  9. La vita dell’artista
  10. A cinque ore da Simla
  11. Tepoztlán domani
  12. Gli abitanti dei tetti
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright