Il silenzio di Mosca
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Il silenzio di Mosca

Tre conversazioni

  1. 200 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il silenzio di Mosca

Tre conversazioni

Informazioni su questo libro

«Rimanga dunque intanto una fiaba ai miei nipoti, una fiaba che parla di piante, di animali e d'amore. Di solitudine. D'amore con qualche inevitabile, selvaggia complicanza, è ovvio. Le nonne si nascondono nelle fiabe che raccontano, non diversamente la nonna di Cappuccetto Rosso si nascondeva nella pancia del lupo».
È uno sguardo acuto e sorridente, quello che Marina Jarre posa sul passato in questo piccolo libro di straordinaria intensità. Pagine apparentemente divaganti, colme di spirito e d'intelligenza, raccolte in un progetto assai preciso che ha a che fare con la vecchiaia e con la memoria, con la voglia di rinunciare all'unicità della propria voce per ospitare le parole degli altri: «la mia pagina non può che sbriciolarsi nei frammenti dei ricordi altrui».
L'autrice sceglie così di raccontarsi in tre «conversazioni narrative».
Nella prima ( Sulla guerra, con Pavel ) il tema è la guerra - un'angoscia che permane, un dolore indistruttibile - rievocata attraverso una scena drammatica e irreale: una sfilata di prigioneri tedeschi per la periferia e il centro di Mosca il 17 luglio del 1944 (i vincitori vinti che sfilano davanti ai loro nemici, nel cuore della città che non sono riusciti a conquistare), 57600 uomini che camminano nel silenzio più assoluto, «soldati banalmente vinti, non partecipi di un qualsiasi mito, massa informe, sospesi durante quella giornata in un vuoto di abominio».
La seconda ( Sulla guerra, sull'amore, sulla solitudine, con Patti ) ruota intorno ai tanti distacchi della vita: il primo amore, la vedovanza, ma anche gli animali e le piante amate, per arrivare a tutti quelli che saremo noi a lasciare.
Nella terza ( Sull'amore, sull'amicizia e sulla guerra, con Gino ) si racconta una storia d'amore lunga sessant'anni: il giovane Gino Moretti apparteneva all'83a compagnia dei telegrafisti in marcia in Ucraina con l'alleato tedesco nel 1942, e scrisse alla moglie Anita 144 lettere in dieci mesi. Rileggere insieme a lui quelle parole dopo tanto tempo rappresenta un'occasione per riflettere sulla vita intera. Sui momenti difficili, sulla durata, sulla passione, sulla caducità. Sui fili segreti che stanno tesi dentro ogni matrimonio.
Sono dunque i piccoli immensi nodi di cui è fatta la vita a scorrere in queste pagine impertinenti e vere. D'altra parte, come osserva Marina Jarre, «ogni tanto mi accade ancora di chiedermi quando scoprirò che la vecchiaia è quel dono di serenità e saggezza che ci è promesso lungo la vita come agognata meta finale. Mi pare di non essere né saggia, né serena». «La mia vita è stata un'unica giornata, a sera chiuderò l'uscio e andrò a dormire. In questa sola giornata si raccoglie quel dolore nudo, spoglio degli orpelli delle cerimonie e dei ricordi personali, ma come riversato in un bacile che continua a colmarsi dell'indistinto e non distinguibile dolore di tutti».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806192389
eBook ISBN
9788858423899

Gino e Anita

Sull’amore, sull’amicizia e sulla guerra, con Gino

28 luglio 1942 (Petrowenki)
O beato stendersi sotto gli alberi che stormiscono al vento, al riparo dal sole, dopo un buon pranzo, in serenità di spirito, nell’ozio piú completo, senza la preoccupazione di nessun lavoro da far fino al giorno appresso. Poco lontano il cuoco di una simpatica brigata sta manipolando gli gnocchi per stasera; Gig fedelissimo sta girando intorno fiutando preda di galline, di latte, di farina. Cosí si alterna un giorno lieto a un giorno nero, cosí l’imprevisto di un viaggio che si prevedeva insopportabile diviene invece materia di delizioso ricordo per giorni a venire.
Questo paesetto di poche case, che invano cercheresti sulla carta geografica e che prende il nome da Pietro, il giorno 13 era ancora occupato dai russi. Pochi giorni dopo lo vidi, passando, nel trambusto delle colonne motorizzate. Da allora a oggi sulla linea ferroviaria devastata sono ricomparsi i doppi binari e, a lato, il fascio di fili telefonici. Prodigi dei tedeschi che non si vedono mai lavorare e il lavoro sembra che si faccia da sé. Ma non è vero, il fatto è che lavorano con organizzazione, la famosa organizzazione. Arrivano per fare uno stendimento di linee telefoniche permanenti, con un nugolo di macchine, e si occupano subito di un’accurata preparazione del rancio. Dopo di che, senza affannarsi e senza spreco di energia, stendono rapidamente la linea, chiudono bottega e ripartono rapidamente per un’altra destinazione. Non altrettanto mi pare succeda al nostro reparto, oltre e piú che per mancanza di mezzi materiali, per mancanza di fosforo in certi cervelli. Tre giorni fa proprio il Cic mi aveva smontato per la sua cretineria e la rabbia di dovergli sottostare. Ho litigato con lui e non gli ho risparmiato certe verità. Certe persone diverrebbero soddisfacenti dopo un bagno di cinque minuti con la testa sott’acqua. Per fortuna con la sua grande intelligenza mi mandò via d’urgenza per un lavoro che sapevo perfettamente inutile. Non avevo meco né branda, né borraccia, né gavetta, né sigarette, né partuca, né Giganti. Malgrado vi fosse tempo, non mi permise di fare un salto a prenderli. Partii, era quasi sera, cordialmente confortato e rifocillato da Averone e C. Mi ristorai con una bella guidata di camion a sessanta all’ora sulla pista gialla al chiaro di luna. E poi, dormita sul duro del camion con una coperta sotto e quattro sopra. Ero ancora un po’ scombussolato nel ventricolo; mi passò tutto. Il mattino dopo alle otto stavo proprio benone: non avevo intenzione di prendermela calda, e mi sentivo piacevolmente lontano dal Cic. Svegliai gli uomini, feci con calma lenta il lavoretto inutile, pregustando l’ordine che ritenevo imminente di spiantare tutto. E arrivai a un posto di guardiafili, questo, vicino alla stazione del paesetto, tra gli alberi dall’aria di casa, tra gente ancora ricca di farina, di animali, di ogni ben di Dio – in un’aria di campagna. Oh, riposo dopo tante miserie e tanta carestia traversate finora. Qui si fanno ancora il pane bianco in casa come il buon Gig; naturalmente lavorano le donne, anche nel pesante lavoro della macinazione a mano. Lavorano sorridendo queste graziose fanciulle bionde, con un’incoscienza di schiave.
Trovai i buoni guardiafili che mi invitarono a pranzo; intanto io avevo i viveri a secco, galletta specialmente, di cui sono ghiottissimo e che fa realmente bene; invece il pane di molti giorni è acido, fatto di una cattiva farina trovata sul posto. E i pranzi di questi uomini sono buoni, alla razione aggiungono le verdure del posto; finalmente un pasto naturalmente vitaminico.
Poi dovevo attendere ordini e li attesi dormendo. Poi una passeggiata al fresco, una buona cena, e via a dormire in una ricca casa appena un po’ sfondata, con una ricca ottomana senza abitanti. Stamani con molta regolarità l’ordine di spiantare. Ho lasciato l’ordine alla squadra di marocchini che ho dovuto portare con me e che è l’unico cruccio di questa beata villeggiatura. Ed ecco arrivare Gig con la branda e i rifornimenti e il suo nasone sorridente, ancora un pranzo a scrocco, e tra pochi minuti mangerò i famosi gnocchi – a scrocco anche quelli. Il sole scende come nel mare, tingendo di vermiglio l’orizzonte e di verde il cielo, gli alberi dietro di me prendono la luminosità del rame. Da oriente si alza una luna grandissima; tra un’ora riempirà di sé, gialla, il cielo azzurro. Sarà ora di andare a dormire, spegnere la candela e spalancare le imposte a Selene candida che illumina l’Italia lontana.
Sono tanto felice di quel che mi dici di Pise; ieri ho passato tanto tempo a guardarla; e spero che continui cosí, non dovrebbe venire su tonta.
Tanti ba, mio tesoro. Sto per arrivare a letto, naturalmente sulla mia branda. Stanotte sarà Gig a dormire sull’ottomana. Mi addormenterò sognando di te, amore. Buonanotte.
Tuo Gi
Questa lettera la scriveva dalla Russia nell’estate del 1942 il tenente italiano venticinquenne Gino Moretti alla giovane moglie a Torino. Lui impiantava – o meglio «stendeva» – linee telefoniche alle spalle delle truppe italiane in marcia in Ucraina con l’alleato tedesco. Il nome del luogo l’aveva naturalmente aggiunto rileggendo anni dopo. L’83a compagnia dei telegrafisti cui apparteneva Gino, acquartierata accanto alla stazione ferroviaria, stava installando una rete di telefoni, utilizzando in parte palificazioni e cavi russi, in parte stendendo appunto nuovi tracciati con pali di legno e cavi nuovi. Gino, che eventuali conoscenze del padre, procuratore del re, avrebbero potuto magari aiutare a imboscarsi, non se l’era sentita di abbandonare i suoi della 83a compagnia e se n’era partito con loro per la Russia.
Ho tolto alcuni riferimenti ad altre beghe con superiori. Il Gig piú volte nominato è Giganti, l’attendente che nel dialetto del suo paesino pavese chiamava partuca i generi di conforto o forniti dall’esercito o mandati da casa; i guardiafili – il vocabolario suggerisce guardafili – erano i soldati che talvolta in camionetta ma piú spesso in bicicletta percorrevano il tracciato lungo le linee telefoniche per controllarle; i marocchini, bene, i marocchini erano, guarda un po’, soldati meridionali con i quali era difficile se non impossibile farsi capire e che, appena possibile, venivano scaricati, in quanto inutili, da un reparto all’altro. Averone era il tenente comandante la seconda compagnia telegrafisti. Non si sapeva per quale logica militare – un mistero matematico, la chiama Gino – questa costituiva insieme alla 83a un raggruppamento comandato da quell’incompetente tenente colonnello abbreviato in Cic. Il paesino Petrowenki non l’ho, in effetti, ritrovato sulla carta, ma vedo che è sede d’un ospedale nell’odierno oblast di Lugansk, nel sud-est dell’Ucraina. L’occasione di una bella «guidata» che avrebbe potuto rimettere di buon umore Gino gli verrà tolta quasi sempre da un molto citato Gariazzo, il quale accudiva con tanta gelosia la Balilla in dotazione alla compagnia che non la lasciava in mano a nessuno. «Ieri, tutto il giorno in giro, portato con maestria da Gariazzo; per un tifoso come me farsi trecento chilometri come un fesso vicino a uno che guida è una cosa che fa solo venire rabbia». Infine i «ba» che concludono la lettera non vogliono sostituire per pudore la parola baci, ma imitavano il gergo di Anita che era solita abbreviare le parole. La piccola Pise era la figlietta Ida, di quattro mesi, chiamata pisello durante la gravidanza, e Gi era, ovviamente, Gino. Quando finiva la lettera con un «arrí» voleva dunque dire arrivederci.
Le 144 lettere, che in dieci mesi Gino mandò numerate dall’Ucraina e dalle tappe della ritirata, arrivarono a Torino, tutte. Egli aveva lasciato alla moglie una griglia corrispondente alla carta geografica con parole in codice da situare in punti prestabiliti dello scritto per far capire dove si trovava, ma Anita aveva perso subito il foglio.
Di queste lettere parlammo la prima volta piú di trent’anni fa. Ricordo che eravamo al ristorante, Gino, forse Anita, mio marito e io. Litigavamo. Gino viveva negli Stati Uniti con la moglie e le cinque figlie. Era partito per l’Argentina nel 1948 per farvi il professore – allora di figlie ne aveva solo due (piú una nella pancia di Anita) – e dall’Argentina era poi trasmigrato negli Stati Uniti.
Ecco il ritratto di se stesso che gli avevo chiesto di mandarmi:
Sabato, 15 luglio 2006
Che vuoi da me, Marina? Un autoritratto? Un misto, cioè, d’indulgenza, vanità e presunzione che ben poco può servire ad altri? Una confessione? Ma io non sono tipo da confessionale. Sai come mi vedo? Come una massa di contraddizioni. Da ragazzo mio padre mi credeva destinato a finire come Jacopo Ortis; alla soglia dei novant’anni ho persino dimenticato chi fosse.
Sono sempre stato amante della pace e non ho mai capito i militari; ma mi sono fatto tanti anni di naja e sono un sopravvissuto dell’Armata Italiana in Russia.
In cerca della libertà sono caduto da una dittatura all’altra, in tre continenti; e ancora oggi il Grande Fratello vigila sui miei pensieri.
Ho una certa allergia per i numeri ma mi sono laureato in Matematica e ho finito col praticare il mestiere come un paziente artigiano; tollerante di natura, mi sono fatta una certa reputazione deridendo e insultando pubblicamente i colleghi.
Godo la vita con tutti i miei sensi, ma ho avuto una sola compagna per piú di sessant’anni. Ora tutti scrivono e scrivo anch’io, a volte mi illudo di essere un po’ sopra la media, ma è solo perché, in casa e nella scuola secondaria, ho avuto dei buoni maestri. Abito in America ma scrivo in italiano; e persino in piemontese, che piú nessuno può leggere.
Eravamo dunque seduti al ristorante e litigavamo. Gino, venendo in Italia, non mancava mai di passare da Torino, la sua città; incontrandoci, di solito litigavamo. Per lo piú ero io che cercavo di litigare con lui. Lo trovavo insopportabile; questo già prima di conoscerlo di persona. Nel giugno del 1948 Gianni e io, quindici giorni dopo il nostro primo incontro, avevamo già stabilito che sarebbe stato per tutta la vita (nella buona e nell’avversa fortuna, finché morte non ci divida, ahimè) e nei primi tempi Gianni non fece che parlare. Poi fu molto silenzioso per i rimanenti quaranta anni e in verità non decise mai nulla (sarò stata io, allora, a decidere, seduti, abbracciati, sul bordo di quel fossetto?). In questi suoi discorsi tumultuosi comparivano alla rinfusa un nipotino appena nato in Svizzera, una ragazza che il migliore amico gli aveva portato via e che era poi morta poco dopo in un tragico incidente, ma soprattutto «il Moretti», il quale con la moglie stava partendo per l’Argentina. In casa Moretti lui aveva preparato la sua tesi – si era laureato poco prima di me – fumando Gauloises e scrivendo formule sulle tavole di ardesia lunghe tre metri che costui aveva installato sulla parete del suo studio. Ogni qual volta cambiavamo casa, scorgevo nelle pensose occhiate che Gianni, indifferente a ogni altro particolare, dava alle pareti il rimpianto per quei tre metri di ardesia.
Io ero, ad ogni modo, gelosissima, non solo del nipotino e dell’affascinante fanciulla morta, dell’amica di lei che da Parigi gli spediva lettere con l’elenco di buffi e poetici nomi di strade parigine, ma di tutti quelli che Gianni aveva conosciuto prima di me. Mi pareva di avvertire nei loro sguardi – e negli sguardi delle donne della sua famiglia – lo stupore per la bizzarra sua scelta: dove aveva scovato la sgangherata e aggressiva fanciulla dai costumi stranieri?
Gianni adorava Gino. Adorava quasi in uguale misura i libri di analisi matematica che questi aveva scritto. Lo ascoltava con reverenza e complicità. Abituato a essere il centro di ogni conversazione, Gino appariva molto sicuro di sé, mi stizziva il tono di fresca superiorità statunitense che, tal quale quello di mia sorella, divenuta da ebrea apolide americana, traspariva dai suoi discorsi. Mi irritava quando, invece di rispondere direttamente a una mia obiezione o protesta, rivolgeva di sottecchi a Gianni, piú giovane di lui di sette anni, un ghignetto d’intesa (ma dove l’hai trovata questa goffa e permalosa ragazza?). Ambedue, rifugiati in Svizzera, s’erano conosciuti nel 1944; partendo per l’Argentina Gino aveva lasciato in eredità a Gianni il proprio posto di assistente di meccanica razionale al Politecnico di Torino.
Litigammo dunque quella volta – doveva essere circa il 1970 – perché Gino, padre di cinque figlie, affermava che una ragazza violentata se l’era di certo voluta. Su questi argomenti, di fronte alla sua calma paternalistica, io perdevo il lume degli occhi. Inutilmente. Gino dava la consueta occhiata d’intesa a quel vigliacco di mio marito, zitto in adorazione, e cambiava discorso. Aveva parlato allora di un suo viaggio in Urss, per un convegno di matematici a Novosibirsk – senza Anita che si era categoricamente rifiutata di seguirlo nell’Impero del male – e aveva descritto una gita su un grande lago nella regione. Sulla nave avevano offerto agli ospiti stranieri una vodka mattutina in bicchieri di carta. Ma, mentre uno alzava il bicchiere verso le labbra, questo, permeabile, gli si scioglieva pian piano nelle mani. Gino narrava e il bicchiere si scioglieva nelle mani del bevitore, il liquido colava lungo il vestito fin sulle scarpe, per terra e insieme si scioglieva l’Unione Sovietica tutta.
(Gino racconta con tutto se stesso, traboccando sugli ascoltatori mentre tira su col lungo naso, dicendo ogni tanto «nevvero, eh»; racconta ridendo un po’ di sé e molto del mondo, e l’accaduto che sa osservare e ricordare – e disegnare – con una minuzia straordinaria non può che diventare davanti agli occhi di chi ascolta se non proprio quello da lui narrato).
Poi disse che della Russia, ma soprattutto dell’Ucraina, dove era stato sette mesi soldato, gli era rimasta una singolare nostalgia. E accennò alle 144 lettere ad Anita, lettere che s’erano conservate tutte.
Davanti a un possibile libro da allestire, davanti alla leccornia di lettere serbate, intere, fragranti al pari di ciliegie colte appena prima sull’albero nell’orto, mi dimentico. La mia devozione a un possibile libro (chiunque ne sia l’autore) è sempre stata assoluta, purché, ovviamente, il tema mi convinca e l’autore sappia (tanto quanto) scrivere. Dimenticai dunque le sue occhiatine a mio marito, la sua insopportabile sicurezza, il fatto che pontificando riusciva in ogni caso a occupare il centro della scena, dove mi sarei installata volentieri io. Dissi:
– Dovresti farne un libro.
Prima che Gino ne ricavasse, in effetti, un libro, passarono piú di trent’anni. Non ricordo quando incominciammo a scambiarci abbastanza regolarmente lettere. Piú di dieci anni fa, ad ogni modo. Mi aveva mandato da leggere un suo piccolo manoscritto sulla sua infanzia e adolescenza a Torino. Con la scusa di dover lasciare i propri ricordi ai numerosi nipoti aveva incominciato a scrivere e ci si divertiva. Scrisse della Torino di allora, di sé bambino e adolescente, studente, innamorato infelice di Maria Teresa, incerto poi di Anna, felice infine di Anita, dei suoi amici, del suo matrimonio, della guerra, dell’Argentina, degli Stati Uniti. Raccontò benissimo; abituato a divertire un pubblico parlando, trasferiva sulla pagina, con facilità – che invidia quelle sue virgole immancabilmente piazzate al posto giusto!– il proprio discorrere. In quel primo piccolo libro non mancavano, però, qua e là, seminate fra alcune chiacchiere dal tono paesano, proprio quelle osservazioni che mi facevano perdere il lume degli occhi. Tuttavia, mentre parlando e tirando su col naso, si divertiva frattanto su se stesso, mettendo cosí una certa distanza fra sé e i suoi commenti, questi, benché rari, pesavano nella pagina scritta, grevi e anche, come dire, obsoleti. Erano considerazioni di chi, lontano ormai per decenni dall’Italia, ne guardava le vicende ancora con gli occhi del 1946. Allora, avremmo detto «con un certo qualunquismo».
I miei suggerimenti per correggere e attenuare furono inutili. Io sono una che taglia, Gino uno che sovrabbonda. Naturalmente aveva mandato il manoscritto ad amici e conoscenti. Questi vi ritrovarono non solo la loro Torino se erano torinesi, il solito humour e l’esattezza dei riferimenti anche se non lo erano, né si accorsero, è naturale, delle brevi postille anacronistiche che sulla carta risaltavano inopportune; in un coro di risate e di lodi il libro fu presentato da qualcuno di loro a due, mi pare, grandi editori, che lo rifiutarono o perché privi di humour essi stessi o per gli accenni qualunquistici e antiquati...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il silenzio di Mosca
  3. Sulla guerra, con Pavel
  4. Il giardino di Patrizia. Sulla guerra, sull’amore, sulla solitudine, con Patti
  5. Gino e Anita. Sull’amore, sull’amicizia e sulla guerra, con Gino
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright