Spy Story Love Story
eBook - ePub

Spy Story Love Story

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Spy Story Love Story

Informazioni su questo libro

Alësa ha quarantacinque anni e un buco nero al posto del cuore. Ha ucciso molti uomini, forse tanti quanti sono i libri che ha letto. Ma adesso l'imprevisto ha fatto irruzione nella sua vita su una bicicletta rossa, nei panni della donna piú sbagliata di cui ci si possa innamorare. Nicolai Lilin non rinuncia alla sua cifra - la scrittura ruvida e potente, e uno sguardo spietato sulle umane contraddizioni -, ma fa un altro passo e si cimenta con i generi, mescolandoli con intelligenza. Spy story love story è la prova dell'evoluzione di un autore che forse, come il suo personaggio, ha scoperto il suo lato piú vulnerabile, piú sincero, e ha saputo trasformarlo in forza. Quando ha commesso il suo primo omicidio Alësa era solo un bambino al quale la vita aveva già tolto tutto. Da quel giorno non si è piú fermato, e nel suo occhio è comparsa una macchia nera dentro la quale precipita poco a poco la realtà. Ha l'attitudine del cacciatore, vive solo, viaggia leggero, non scappa davanti a nulla. L'unica fuga che si concede sono le pagine dei grandi romanzi, il luogo in cui immaginare cosa si prova a essere davvero umani. Da anni lavora come killer al servizio di Rakov, adesso però vorrebbe dire basta, essere finalmente libero. Ma è proprio Rakov a fissare il prezzo di quella libertà: commettere un altro omicidio - l'ultimo -, a Milano. Una missione che sembrerebbe da principianti, e che invece lo costringerà a mettere in discussione tutte le sue regole: quelle del codice criminale e quelle che lui stesso si è imposto, coltivando una solitudine perfetta. Ad affiancarlo in quell'ultima missione ci sarà Ivan, per volere di Rakov. Un ragazzo che ha la faccia pulita, i modi impacciati, un talento naturale per fargli perdere le staffe e un'inscalfibile determinazione a conquistarsi la sua fiducia. Peccato che Alësa non si fidi di nessuno, nemmeno di se stesso. Specialmente da quando si è imbattuto negli occhi di Marta, che paiono «la culla di ogni cosa, un'armonia perfetta alterata da piccole esplosioni di caos». Sarà lei, Marta, - vitale, entusiasta, il viso ostinatamente rivolto all'insú, - a metterlo di fronte alla sua vulnerabilità. Nicolai Lilin ci cattura con un intreccio da spy story in cui nessuno è mai solo chi dice - o crede - di essere. Ma il suo è un trucco, l'esca con cui ci attira ad affacciarci sull'abisso: Spy story love story è un romanzo sulla libertà di scegliere, sulle tenebre e la luce che abitano negli uomini. Perché anche quando il destino sembra scritto, si può decidere da che parte stare.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806229559
eBook ISBN
9788858423554

Capitolo settimo

Come ha detto Zivko al telefono, il campo si scorge in lontananza dall’autostrada. Saranno una cinquantina di baracche a prima vista fatiscenti, costruite con materiali di fortuna, roulotte, furgoni. Alëša prende la prima uscita e comincia a guidare lungo gli sterrati di campagna, sempre piú stretti. A ogni bivio sceglie con sicurezza da che parte andare.
– Ci sei già stato? – gli chiede Ivan.
– Seguo l’immondizia.
– Cioè?
– Usano l’immondizia per segnalare la loro presenza. Gli zingari lo fanno spesso, ma la gente comune non lo sa. A dire il vero la gente degli zingari non sa quasi niente...
– E tu invece?
Alëša prende una curva a gomito e la macchina sbanda leggermente.
– Ho lavorato per alcuni clan quando Rakov faceva accordi con loro per tenerli lontani da Mosca. All’epoca avevano un vero e proprio regno in periferia, a sud della città. Ho imparato molte cose su di loro, compresa questa: se vuoi trovare gli zingari, devi seguire l’immondizia, è come le briciole di Pollicino. La seminano continuamente, mandano bambini in bicicletta che si occupano solo di questo, controllare che le strade siano sempre piene di spazzatura per indicare il percorso verso il campo. Piú sei vicino, piú roba ti trovi attorno... Non solo sacchi come questi, ma elettrodomestici rotti, telai di automobili, moto, scooter e mobili spaccati... Guarda!
Subito dopo l’ennesima curva è comparsa la carcassa arrugginita di un forno.
– Siamo vicini, – dice Ivan.
– Sí, ci siamo quasi.
Quando incontrano un vecchio distributore abbandonato, in parte smantellato e coperto con dei fogli di plastica sporca e schiarita dal sole, Alëša si ferma, parcheggia e di nuovo fruga nella borsa.
– Mettitelo, – ordina porgendo a Ivan un giubbotto antiproiettile.
Ivan esegue in silenzio. Attorno c’è solo aperta campagna, un pezzo di fiume che s’intravede circa cinquecento metri piú in là, ancora oltre una collina artificiale: è la discarica.
Alëša controlla la pistola, smonta il silenziatore, lo lascia nella borsa. Infila l’arma nella piccola fondina di pelle appesa alla cintura, mette la borsa nel bagagliaio, chiude l’auto e nasconde le chiavi sotto una pietra.
Ivan ha smesso di capire il senso delle sue azioni.
– La lasciamo qui?
Alëša si allontana e prosegue sulla strada a piedi, invitando Ivan a fare come lui.
– È un’altra regola che ho imparato sugli zingari, mai arrivare da loro in macchina, soprattutto se non li conosci.
– Paura che la rubino?
– No, che ci seguano. Possono annotare le targhe, scoprire dove abiti.
Ivan osserva ancora il paesaggio, potrebbe essere anche gradevole se non fosse per l’immondizia sparpagliata attorno. Lo turba anche una sensazione di fastidio. La piastra posteriore del giubbotto antiproiettile spinge sulla parte bassa della schiena e a ogni passo è piú seccante. Comincia a fare dei piccoli movimenti cercando di cambiare posizione al giubbotto, ma quello non si muove, sta stretto attorno al corpo.
– Ti fa male? – chiede Alëša.
Per l’ennesima volta, Ivan si sente un bambino.
– Il bordo della piastra mi preme proprio sulla colonna vertebrale.
– Tu non ne hai mai messo uno, eh?
– Quello che usavo nell’esercito non era cosí aderente... si metteva sopra l’uniforme, le piastre erano molto piú robuste. E nemmeno in polizia ho mai usato niente del genere.
– Prova a girare l’orlo all’interno, ammortizzi l’attrito della piastra.
Ivan segue il consiglio, piega il bordo, cammina, fa qualche salto agitando le braccia e si accorge che in effetti la piastra non gli dà piú fastidio.
– Mi stava facendo impazzire.
Riprendono a camminare, Ivan fa ancora qualche movimento con le spalle per aggiustarsi il giubbotto addosso. Gli sembra che Alëša sia di buonumore, è un’altra occasione da non lasciarsi scappare.
– Ma Zivko non è tuo amico? Pensavo che avessimo una specie di raccomandazione...
– L’unica raccomandazione è quella che ha fatto a me: stiamo per incontrare un vero bastardo, te l’ho detto.
– Senti chi parla...
Alëša si fa una risata.
Intanto la strada è sempre piú seminata di spazzatura, in lontananza spuntano le prime baracche e qualche figura umana. Due ragazzini in bicicletta pedalano verso di loro, poi fanno inversione e tornano al campo.
– Adesso sanno che stiamo arrivando, – commenta Alëša.
– È un male? – chiede Ivan.
– È quel che è. Sai qual è la regola piú importante che devi metterti in testa quando impari a usare un’arma?
Dalla memoria di Ivan riemergono ricordi caotici delle prime lezioni di tiro. Non gli viene in mente nessuna regola che potrebbe definire «la piú importante», perciò scuote la testa e sta zitto.
– Devi trattare ogni arma come se fosse carica e pronta a sparare, – riprende Alëša. – Solo cosí puoi maneggiarla con sicurezza. Con certa gente è lo stesso. In ogni caso, giusto per soddisfare la tua curiosità, sappi che la telefonata è servita soltanto per un contatto, quindi occhi aperti. Quando arriveremo non allontanarti da me, stai sempre indietro di due-tre metri, a destra.
– A destra?
Alëša si ferma e indica con le braccia tese la posizione dei suoi probabili interlocutori.
– Facciamo che loro sono qui, a qualche metro da me.
– Ok, ti seguo.
Con la mano Alëša disegna un semicerchio nell’aria.
– Saranno in tre o anche di piú, il tizio non tratterà mai da solo. Si sistemeranno sui lati per prevenire una mia mossa, e per coprire lui, che sarà qui, – Alëša punta l’indice verso il centro del semicerchio, – nel caso in cui diventassi pericoloso. Zivko l’ha avvertito e ci aspetta. Sa che abbiamo i soldi.
– Quali soldi?
Alëša mostra la tasca interna della giacca, poi continua: – Sicuramente sono armati, non si fidano di noi quanto noi non ci fidiamo di loro. Se ci sarà una sparatoria, a questa distanza l’importante non è la precisione con cui spari ma la velocità con cui riesci a spostarti. Se qualcosa andrà per il verso sbagliato, io mi butterò verso sinistra e tu devi starmi a destra, cosí avrai una buona linea di tiro, e puoi sparare senza rischiare di beccare me.
Ivan immagina per qualche secondo la situazione appena descritta da Alëša.
– Ma tu perché devi buttarti a sinistra?
– Possibile che nessuno ti abbia insegnato le basi dello scontro a fuoco ravvicinato? Bei difensori della legge che siete... – Siccome Ivan non dice niente, continua: – Non la prendere sul personale, te lo spiego. Se una persona usa la destra per sparare, e nella casistica sono la maggioranza, fa piú fatica a centrare il bersaglio se sposta l’arma verso destra, perché ha meno stabilità. Prova...
Ivan mima il movimento descritto da Alëša, puntando l’indice come se fosse la pistola.
Alëša lo osserva con un ghigno sulle labbra: sembra un undicenne che ha appena visto un western. Nonostante quello che ha passato, Ivan ha qualcosa d’ingenuo, di puro, che diventa palpabile proprio in momenti come questo. Sembra che dentro di lui si accenda un faro che indica la via per tornare all’infanzia, quando ogni piccola cosa del mondo è interessante, ogni situazione straordinaria, e non esistono ancora né il male né il bene, e nemmeno il pericolo – fa tutto parte di una enorme giostra dove innamorarsi per la prima volta, rubare le caramelle al supermercato, salire sul tetto del palazzo di notte per guardare le stelle con gli amici, spaccare la testa a un coetaneo con una spranga di ferro e beccarsi una coltellata in una rissa sono esperienze assolutamente equiparabili.
Ivan ripete il movimento ancora e ancora, sempre piú veloce.
– È vero, cazzo. Non me n’ero mai accorto...
Alëša ha la nostalgia nello sguardo, e nella testa un miscuglio di suoni, odori, pezzi di frasi scomposte che sembrano prive di senso ma che invece sono porte che conducono a storie. L’odore del gas nella cucina di casa quando sua madre preparava la colazione, la macchinina verde di un bambino del vicinato (che lui aveva distrutto pestandola con un mattone perché era invidioso), il suo primo coltello rubato a Manica, il vecchio vicino delinquente, con la lama affilata come un rasoio... Spesso si chiudeva in bagno con quel coltello e guardandosi allo specchio si poggiava la lama di piatto sul collo, immaginando cosa sarebbe successo se l’avesse fatta scorrere...
Mentre le immagini gli vibrano nella mente, stordendolo un poco, il buco nero si attiva, lo chiama, e lui non può opporre resistenza, è a un passo dal cadere nel vuoto...
– Non c’è modo di evitare che succeda?
Alëša si aggrappa alla voce di Ivan per ritornare nella realtà.
– Sí che c’è, – dice in fretta. Ma una parte di lui è ancora di fronte a quello spazio buio che lo ipnotizza. – Tieni il braccio stretto al torso, – continua, – e muovi quello, allargando leggermente le gambe per non perdere l’equilibrio. Un po’ come nel pugilato, deve lavorare tutto il corpo... Cosí...
Mima una serie di pugni, mentre Ivan tiene lo sguardo incollato su di lui.
– Va a finire che i criminali sono piú preparati dei poliziotti...
– Magari, – fa Alëša rimettendosi in cammino.
All’ingresso del campo nomadi c’è un gruppo di adolescenti e anche qualche bambino in bici. I piú grandi portano catenine d’oro orgogliosamente in mostra e anelli sulle dita. Il gel abbonda nei capelli. Il loro abbigliamento parla da sé: se ne fregano delle tendenze, conta solo la voglia di provocare, di esibire la propria mentalità anticonformista. Camicie coloratissime abbinate a pantaloni di felpa, scarpe di pelle con la punta cosí lunga che sembrano uscite dalle illustrazioni delle Mille e una notte. I piccoli indossano magliette sgargianti, alcuni non hanno i pantaloni e altri neppure le mutande, ai piedi calzini spaiati e ciabatte di gomma. Ovunque c’è fango che arriva alle caviglie e a ogni passo schizza sui pantaloni, però nessuno sembra esserne turbato.
– Buongiorno, stiamo cercando Mikash, – dice Alëša in italiano a uno dei ragazzi piú grandi.
La risposta è un cumulo di suoni e frasi deliranti:
– Mia te non consce... capito?... Sei polizot, mia no puura!
Un altro ragazzino si avvicina ad Alëša, indicando il suo compagno:
– Lascialo stare, quando era piccolo è finito sotto una macchina. Lo conosco io Mikash... Dammi cinquanta euro e te lo vado a chiamare. Si vede da lontano che sei imbottito di soldi...
Oltre a parlare bene, mostra doti da uomo d’affari. Alëša gli sorride e mette la mano nella tasca dei pantaloni. Gli occhi estasiati del ragazzo sono totalmente concentrati su quel movimento.
– Come ti chiami, amico? – chiede Alëša con la mano ancora in tasca.
La sua voce è troppo dolce, pensa Ivan: sta giocando con quel piccolo arrogante.
– Mi chiamo Stan, amico, – risponde il ragazzino.
Alëša tira fuori la mano dalla tasca, e Stan scopre che è vuota. Non fa in tempo a reagire: con un gesto velocissimo Alëša lo prende per il pomo d’Adamo, stringendo le dita cosí forte che il ragazzo scoppia in lacrime e perde l’equilibrio. Gli altri fanno per intervenire ma Ivan apre la giacca, svelando la pistola alla cintura. Si fermano, tutto rimane sospeso.
– Mikash ci aspetta per un affare, – dice Alëša in tono glaciale. – Se non ce lo porti subito ce ne andiamo, io chiamo il mio contatto e gli spiego che un bastardo con la faccia di merda di nome Stan ha fatto perdere a Mikash un bel po’ di soldi. Ti faranno a brandelli i tuoi stessi amici...
Poi allenta la presa e Stan crolla nel fango. Nel suo sguardo si annida il terrore. Striscia per qualche metro allontanandosi, poi si alza in piedi e si mette a correre, sparendo in mezzo alle baracche.
Ivan è nervoso: – Quel figlio di puttana ci porterà dei guai.
Alëša sorride, nella sua voce si percepisce la calma:
– Stai tranquillo, racconterà tutto a chi sta sopra di lui.
– Forse era meglio darglieli, quei maledetti cinquanta euro.
– Ma non hai capito? Quello stronzetto era un test per capire di che pasta siamo fatti. Se regaliamo i soldi a ogni mezzasega che ci si para davanti ci tratteranno da fessi. E con i fessi non fai affari, al massimo li derubi.
– Sei sicuro?
Ivan è cosí agitato che Alëša gli fa segno di togliere la mano dall’arma e chiudere la giacca.
– Vedi di calmarti e andrà tutto bene.
Intanto dal cuore del campo compare un uomo di circa sessant’anni – molto oro addosso, camicia di flanella, gilet in pelle di serpente. Anche la cintura infilata nei jeans è in pelle di serpente, e ha una fibbia gigantesca decorata con pietre colorate. In testa ha un cappello texano che gli butta ombra sul viso e trasforma gli occhi in due ferite rosse. Anche in quell’ombra però si nota che la pelle della faccia è devastata da piccoli crateri, probabilmente cicatrici del vaiolo. Gli stivali da cowboy hanno la punta e il tacco di metallo, a ogni passo stampano nel fango il disegno di una croce unita a un ferro di cavallo.
Ivan credeva che personaggi del genere esistessero soltanto nell’immaginario di qualche regista hollywoodiano.
L’uomo apre le braccia e la sua faccia si allarga in un sorriso innaturale, una specie di taglio da cui fa capolino una fila di denti d’oro. Nella sua voce roca c’è la stessa falsità, sembra che canti le parole anziché pronunciarle e basta:
– Amici! Sono Mikash. Benvenuti in questa comunità benedetta da Dio! Siete arrivati a piedi? Dov’è la vostr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Spy story love story
  3. Capitolo primo
  4. Capitolo secondo
  5. Capitolo terzo
  6. Capitolo quarto
  7. Capitolo quinto
  8. Capitolo sesto
  9. Capitolo settimo
  10. Capitolo ottavo
  11. Capitolo nono
  12. Capitolo decimo
  13. Capitolo undicesimo
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright