Acrescita
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Per una nuova economia

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Per una nuova economia

Informazioni su questo libro

La teoria economica dominante è in profonda crisi. Dai manifesti degli studenti, alla disaffezione di una parte sempre piú consistente della professione, al perdurare di una crisi che la teoria non contempla, si manifestano sempre piú numerosi i segnali di un collasso imminente. Ma soprattutto è in crisi perché è falsa, non rende conto dei fatti: prevede una crescita strutturale e una società basata sui consumi. Ma effettivamente, lo sviluppo della tecnologia a bassa intensità di manodopera e la crisi che ci attanaglia dal 2008 mostrano come la crescita non sia possibile e come il pianeta non sia in grado di tollerarla. Bisogna pensare a qualcosa di nuovo. Mauro Gallegati pensa al concetto di acrescita: dovremmo vivere in un mondo che contempli indicatori di benessere (la natura, i tempi e le forme di lavoro e di vita, le relazioni sociali) e dovremmo includere l'economia nella natura e nella società. A-crescere significa liberarsi dall'idea che il Pil misuri la qualità della nostra vita.

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Capitolo secondo

La crisi dell’economia

La crisi economica è una crisi della teoria economica.
ALAN KIRMAN
Quando è arrivata la crisi, i gravi limiti dei modelli economici e finanziari esistenti sono diventati immediatamente evidenti. La speculazione scoppiò in molti mercati, alcuni di questi sembravano congelati e gli operatori furono presi dal panico. I modelli macro non sono riusciti a prevedere la crisi e sembravano incapaci di spiegare cosa stava accadendo nell’economia in maniera convincente. Come policy maker durante la crisi, ho trovato i modelli disponibili di aiuto limitato. In effetti, vorrei andare oltre: di fronte alla crisi, ci siamo sentiti abbandonati dagli strumenti convenzionali.
JEAN-PAUL TRICHET
L’economia naviga, dunque, in cattive acque. E, anche se esiste un approccio mainstream, la solidità teorica e la capacità di spiegare l’evidenza empirica di quest’ultimo sono evidentemente sempre piú fragili e messe in discussione. La teoria economica insegnata in quasi tutte le università del mondo è assiomatica e sembra inadeguata a spiegare il mondo reale. Il che, però, non ci mette al riparo dal diluvio di suggerimenti e consigli di politica economica degli stessi assiomatici.
Il modello teorico standard viene messo in discussione da una crisi che si trascina da oltre otto anni. Gli studenti hanno già iniziato a contestare ciò che viene loro insegnato e gli spazi dell’area Business fagocitano quelli di Economia in moltissime facoltà. Del resto sono obbligati a studiare una teoria che esclude la possibilità di bancarotte nel mondo perfetto degli economisti d’acqua dolce (non che quelli d’acqua salata siano molto migliori)1.
In scienza si usa dire che i modelli devono essere coerenti esternamente e internamente. Per coerenza esterna si fa riferimento alla compatibilità dei dati con le previsioni del modello. Con coerenza interna ci si riferisce invece alla non contraddittorietà tra le ipotesi e i conseguenti teoremi.
L’economia mainstream si è preoccupata, senza successo, peraltro, della sola coerenza interna, cioè che le premesse fossero coerenti con le conclusioni, ma l’esito a cui è giunta non corrisponde a quanto sperato: il libero mercato garantisce l’esistenza di un equilibrio efficiente, ma non la sua unicità né la sua stabilità. Potremmo, ad esempio, ritrovarci di fronte al passaggio da un equilibrio a un altro equilibrio: due equilibri ma con disoccupazione diversa, una alta e una bassa. Se volessimo aumentare l’occupazione, in mancanza di stabilità nulla garantisce che il nuovo equilibrio sarà mantenuto.
In piú non c’è nemmeno coerenza esterna: l’evidenza empirica contraddice spesso la teoria. Il modello prescrive che si arrivi a un equilibrio e che questo sia unico, da qualsiasi punto di partenza si inizi (ci si aspetta cioè che il Bangladesh raggiungerà il Pil pro capite del Giappone, e che non fa alcuna differenza quanti altri si sono già sviluppati e quando), e stabile (si assume che quando si è innamorati non ci sono ragioni per lasciarsi…) Purtroppo come vedremo quel mitico punto di equilibrio non è né unico né stabile.
Viene da domandarsi: perché una teoria dove «tutto è possibile» (ma senza stabilità ogni tentativo di migliorare il proprio stato è inutile), avulsa dalla realtà («l’osservazione dei fatti senza la teoria è divenuta l’attività principale degli economisti», come dice Bergmann, 2007, p. 2) e assiomatica (come una religione) resiste cosí, a prescindere? Inerzia, pigrizia mentale, convenienze e collusioni, forse. Però anche il sistema copernicano è riuscito a soppiantare quello tolemaico dopo secoli. O magari perché il messaggio che ne viene è di tranquillità: il mercato, come la Provvidenza, aggiusta tutto. E quindi l’unica possibilità è non far nulla, non cambiare niente: i consumatori e i produttori di merci con il benestare della loro coscienza letargica non contemplano proprio l’ipotesi di cambiare le leggi dell’economia. Che queste ultime, peraltro, non esistano, lo vedremo piú avanti.
Sembrerebbe un curiosum della storia della scienza. E non avrebbe conseguenze pratiche come la legge di Parson sui passaporti (nessuno è veramente mai brutto come nella foto del passaporto), se l’economia non permeasse la nostra vita. Come? Supponiamo ad esempio che il modello ci suggerisse di flessibilizzare gli impieghi per aumentare produzione e occupazione. Di avvicinare i lavoratori al capitale fisico considerandoli solo come fornitori di un servizio o come merce-lavoro, incrementando indiscriminatamente le forze lavoro inumane: si produrrà di piú e senza costi, ma a chi si vende il prodotto? Ai robot o alle bestie da soma? Ve l’immaginate un somaro che in pausa lavoro ordina un Bellini o chiede una copia di Emergent Macroeconomics? E una politica economica che vada bene sempre e per tutti, indiscriminatamente, ve la immaginate?
La speranza degli economisti mainstream era quella di dimostrare che quell’equilibrio fosse anche desiderabile e non migliorabile da interventi esterni. Rimane un pio desiderio, purtroppo. Il mondo sognato dall’ortodossia è un mondo dove «tutto è possibile» e quindi nulla è vero: «Il futuro che ci mostra il sogno non è quello che accadrà, ma quello che vorremmo accadesse», scriveva Freud.
È come se il pensiero economico dominante fosse rimasto intrappolato nella fisica del XVII secolo e non riuscisse ancora a liberarsi da questo abbraccio mortale. La storia della scienza in futuro, guardando ai nostri giorni, paragonerà la situazione della teoria economica di oggi all’astronomia dei tempi di Galileo, quando l’ortodossia tolemaica sopravviveva boccheggiante solo grazie alla tortura. Gramsci ricorda che la crisi arriva quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi piú svariati».
Analizziamo quindi quali sono le ragioni della crisi del modello morente ma dominante e qual è il piú promettente tra i nuovi.
L’economia «ad usum delphini», anche se siamo criceti.
Nelle parole di uno dei teorici di punta del mainstream, Olivier J. Blanchard, oggi capo economista del Fondo monetario internazionale, il modello dominante New Keynesian DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium Models, ovvero la nuova economia keynesiana basata su modelli dinamici e stocastici, cioè casuali, di equilibrio economico generale) è «semplice e analiticamente conveniente e ha sostituito il modello IS-LM2 come modello base di economia nei corsi di laurea» (Blanchard, 2008, p. 9). Poco dopo egli ammette che però le prime due equazioni del nuovo modello sono palesemente false. In particolare:
− l’equazione di domanda aggregata, cioè la domanda di beni e di servizi di un sistema economico nel suo complesso, in un certo periodo di tempo, ignora l’esistenza degli investimenti3;
− la stessa equazione di domanda aggregata si basa su un effetto di sostituzione intertemporale in risposta al tasso d’interesse che è difficile da rilevare nella realtà4;
− l’equazione dell’inflazione implica infine un comportamento da parte degli individui, o gli agenti, perfettamente lungimirante, che appare in contrasto con i dati.
Tali modelli rimangono tutti nell’alveo dell’economia mainstream con la differenza che stavolta, anziché cercare un punto fisso di equilibrio, viene studiato un sentiero di equilibrio, indagando cioè come l’economia evolve nel tempo, colpita continuamente da disturbi esterni (variazioni della quantità di moneta, innovazioni, cambiamenti di gusti e preferenze).
Il passaggio dalla statica alla dinamica, come c’era da aspettarsi, non risolve nessuno dei problemi evidenziati dal teorema SMD: se con l’approccio statico i punti di equilibrio erano troppi e instabili, con quello dinamico avviene lo stesso per i sentieri. Tutti instabili tranne uno, molto particolare: equilibrio di sella è chiamato in matematica, un’espressione icastica che rende bene l’idea di quanto basti davvero poco, un piccolo disturbo esterno, per far perdere l’equilibrio, come può capitare a un cavallerizzo maldestro in sella. Questo avviene perché il valore tempo (la dinamica) va in crisi e collassa fin dal momento iniziale, quando il futuro è già deciso da parte di agenti che conoscono tutto, e quindi anche il futuro. Come nei modelli di equilibrio generale, i DSGE mirano a descrivere il comportamento dell’economia nel suo complesso analizzando l’interazione nel mercato da parte di molti agenti. E proprio come nei modelli di equilibrio generale, occorre definire i gusti e i vincoli degli agenti in modo che questi siano in grado di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. In poche parole, il modello DSGE punta a rappresentare un’economia composta da agenti, quali le famiglie e le imprese, come paradigmi economici, come se fossero medi, cosí che, ad esempio, analizzando il comportamento di acquisto di una famiglia media italiana, si possa plausibilmente ottenere la spesa per consumi dell’Italia intera. Una famiglia media, direbbe un economista, massimizza una funzione di utilità soggetta a un vincolo di bilancio. Vale a dire: le famiglie decidono quanto consumare, risparmiare e lavorare in base alla soluzione del problema di raggiungere la loro massima utilità attesa, compatibilmente con il loro bilancio. Tutto ciò richiede che i singoli agenti (cioè le famiglie e le imprese) abbiano aspettative anche sulle aspettative del futuro di tutti gli altri agenti (cioè tutte le altre famiglie e tutte le altre imprese). Come da tradizione mainstream tali aspettative sono razionali, cioè si assume che tali agenti abbiano una conoscenza completa del vero modello dell’economia e siano quindi in grado di valutare le conseguenze di shock (quello che succede se i prezzi del petrolio crollano improvvisamente, ad esempio). Tutto ciò premesso, non sorprende che N. Gregory Mankiw, considerato uno dei fondatori della New Keynesian DSGE, abbia recentemente sostenuto che «tali modelli hanno avuto poco impatto sulla pratica macroeconomica».
La conclusione di Blanchard (non di un Gallegati qualsiasi), alla luce di tutto ciò, è che comunque lo stato della macroeconomia è buono. Immaginarsi se fosse stato cattivo…
Grazie al teorema SMD possiamo sostenere che qualsiasi modello si basi sul comportamento ottimizzante di tipo walrasiano (cioè descritto da Léon Walras, di cui parlerò tra un attimo) è fondato sulla sabbia poiché non esiste nessuna condizione che garantisca l’unicità e la stabilità del punto di equilibrio e men che meno del sentiero dinamico.
Le radici di questa impasse sono lontane. Quando la società inizia a trasformarsi a seguito della rivoluzione tecnologica, compare la figura di un nuovo scienziato sociale: l’economista. Che poi tanto scienziato non è. Oltre a mancargli gli strumenti – cosa del tutto comprensibile essendo la disciplina nuova –, difetta di verifiche empiriche che renderebbero falsificabili le ipotesi. Tra le possibili strade alternative, imboccate da altre discipline, dalla biologia alla sociologia, l’economia sceglie di adottare il modello della scienza regina: la fisica. Ma, come vedremo piú avanti, della fisica verrà adottato solo lo strumento matematico e non quello della verificabilità delle ipotesi (da cui la deriva assiomatica e la non falsificabilità delle stesse).
Le cause della situazione attuale risalgono dunque alla metà del XVIII secolo, quando alcune delle economie occidentali sono state trasformate dal progresso tecnologico che ha portato alla Rivoluzione industriale. Questo avveniva un secolo dopo Newton e il totale rivolgimento avvenuto nella fisica: dalla piccola mela agli enormi pianeti, tutti gli oggetti sembravano obbedire alla semplice legge di gravitazione. Fu quindi naturale per una nuova figura di scienziato sociale, l’economista, prendere in prestito il linguaggio (la forma) della scienza di maggior successo, la fisica. È da allora che la fisica meccanica del XVII secolo governa l’economia. Cosí, se nel capitolo finale della sua Teoria generale Keynes scrisse di politici schiavi di teorie economiche superate, a loro volta gli stessi economisti sono tuttora schiavi della fisica di Newton. Con qualche appendice: nel 1803, Louis Poinsot, un fisico francese, pubblica un libro di grande successo, Éléments de Statique, destinato ad avere influenze pratiche e sociali ben oltre quelle che l’autore avesse mai immaginato. Questa influenza è dovuta essenzialmente al lavoro di Léon Walras che ha preso come base per la sua teoria economica il sistema di equazioni simultanee e interdipendenti di Poinsot. Walras ipotizza che l’adeguamento dei prezzi debba essere eseguito da un agente esterno. Anche se non esplicitamente introdotto da Walras, questo è stato in seguito identificato come un banditore d’asta, un dispositivo che permette di ridurre gli agenti economici ad atomi, privi di qualsiasi capacità di apprendimento o di comportamento strategico. Siamo intorno al 1870, alla vigilia del tramonto della meccanica classica e del riduzionismo. La fisica dei microelementi che interagiscono è ancora di là da venire, e l’economia rimane intrappolata nella vista «equilibrista» di Walras. Da lí in poi, l’aggiunta di assiomatizzazione e non falsificabilità ha portato alla degenerazione del paradigma di ricerca della teoria economica standard (Lakatos, 1970).
Il metodo classico, newtoniano, non è piú adeguato per studiare i costituenti della materia, anche se va ancora bene per analizzare la cinematica dei corpi macroscopici. Il superamento in fisica avviene quando sorge il problema di studiare il mondo micro: un nuovo problema pone la necessità di «inventare» un nuovo metodo. E cosí hanno fatto i fisici. Invece gli economisti non hanno cambiato né problema né metodo: può rimanere lo stesso vecchio armamentario finché c’è da sommare linearmente e non esistono eterogeneità né interazione. Cosí per loro il macro non è altro che la somma degli elementi micro. Le cose si complicano però perché eterogeneità e interazione di fatto ci sono, cioè va considerata l’esternalità, ovvero che ciò che un agente fa ha effetti su un altro agente (e non necessariamente su tutti gli altri). Ora che si vuole analizzare il comportamento economico del singolo, si pretende di farlo continuando a impiegare la forma del metodo classico della fisica, adatto ai soli corpi macroscopici, come gli stessi fisici hanno convenuto.
Il mainstream può analizzare la macroeconomia con la metodologia della microeconomia senza cambiare gli strumenti matematici solo ipotizzando che gli agenti siano tutti uguali. Il che non evita, lo abbiamo visto, che il teorema SMD devasti la costruzione assiomatica. Come in quasi tutte le storie dell’uomo, la storia la raccontano i vincitori.
La Ricchezza delle Nazioni (1776) di Adam Smith nasce come tomo all’interno delle scienze morali (e la mano invisibile, la parabola che utilizzò Smith per spiegare l’imprevedibilità della Natura, in particolare dei fulmini, grazie all’intervento della mano invisibile di Giove, compare per la prima volta nella sua Storia dell’astronomia, nel 1750 circa; è solo nella Teoria dei sentimenti morali del 1759 che viene utilizzata in riferimento al mercato e come tale lí citata, seppur sparutamente5; cfr. Roncaglia, 2005).
Circa un secolo dopo, nel 1870, la matematizzazione entra prepotentemente in scena, soppianta la political economy, l’economia politica dei classici, e la trasforma in economics, in pseudoscienza. Tutto legittimo certo, ma rispetto alla fisica manca una gamba, quella della falsificabilità. Ogni conclusione non teme smentita, e ad oggi pagine e pagine delle principali riviste di economia sono dedicate ai puzzle, cioè ai come e ai perché la realtà si rifiuti di obbedire all’inverosimile modello mainstream. Un po’ paradossalmente si potrebbe sostenere che quando la real...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Acrescita
  3. Premessa
  4. Acrescita
  5. I. L’economia assiomatica: il piú grande paradigma morente
  6. II. La crisi dell’economia
  7. III. L’economia della crisi
  8. IV. Per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?
  9. Bibliografia
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Copyright