Una febbre del mondo
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Una febbre del mondo

Mille anni di storia in quindici vite

  1. 200 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Una febbre del mondo

Mille anni di storia in quindici vite

Informazioni su questo libro

Certe vite ruotano intorno a un prima e un dopo, intorno a un singolo momento che segna la fine di un'esistenza ordinaria e conduce verso frontiere inesplorate. Tutti i protagonisti di queste storie hanno percorso quella strada fuori dal comune. Lo hanno fatto in epoche e mondi distanti, seguendo spinte diverse: un sogno o un'ambizione, un'illusione o un delirio. Ma sempre con cieca ostinazione. C'è Giovanna d'Arco, finita al rogo aggrappata alle parole del suo Dio. Ci sono Galileo Galilei e Marie Curie. Il primo costretto, per amore di scienza, ad anni di sospetti e accuse, fino all'abiura. La seconda che, nel suo mistico slancio verso la ricerca, conserva, da ragazza e da moglie, da vedova e da madre, una straordinaria umanità. C'è Malala Yousafzai, che ancora bambina ha avuto il coraggio di denunciare la condizione femminile nel Pakistan dei talebani, rischiando la sua giovane vita. Sergio Luzzatto, con il suo stile preciso e suggestivo, racconta le vite di quindici personaggi che spesso nel bene, e talvolta nel male, hanno ossessivamente cercato di cambiare il mondo. «Era una follia. I crociati glielo avevano detto e ridetto, bisognava essere folli per presentarsi disarmati davanti al sultano nel pieno di una guerra come quella. Che fine voleva mai fare, frate Francesco? Voleva essere scannato su due piedi? Cercava la morte del martire, era impaziente di immolarsi per dimostrare agli "infedeli" di quale stoffa meravigliosa fossero fatti i cristiani? Oppure - illuso - sperava di convertire al cristianesimo il gran sultano d'Egitto? Contava di ritornarsene al campo portandosi dietro al-Kamil mansueto come un agnello, contava di farlo battezzare nelle acque del Nilo? Qualunque fosse lo scopo di Francesco, né le diffide né le ironie dei crociati gli fecero cambiare idea. In un giorno di settembre, un giorno caldo e afoso da morire, traversò davvero le linee nemiche, presentandosi inerme al cospetto di al-Kamil».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806230913
eBook ISBN
9788858423400

Vedere lontano

Galileo Galilei

Novembre 1609: un oscuro professore di matematica dello Studio di Padova, il pisano Galileo Galilei, impiega uno strano «occhiale» per scoprire nel cielo cose inaudite, tali da mettere in dubbio un’intera visione dell’universo. Marzo 1610: in un libro scritto in latino e lungo appena una sessantina di pagine, Galileo rende pubbliche le sue sensazionali scoperte. Vista da vicino con quello strano occhiale, la Luna ha rivelato di avere montagne, proprio come la Terra! E come la Luna stessa ruota intorno alla Terra, cosí intorno a Giove ruotano altre lune, almeno quattro satelliti! Sidereus Nuncius – «messaggio stellare», ma anche «messaggero delle stelle» – è il titolo del libro la cui prima edizione, a Venezia, viene esaurita in pochi giorni. «Qui se ne parla in ogni angolo della città» informa l’ambasciatore inglese, sir Henry Wotton, «e l’autore corre il rischio di diventare o estremamente famoso o estremamente ridicolo».
Oggi noi sappiamo che le scoperte astronomiche di Galileo lo resero famosissimo piuttosto che ridicolissimo. Eppure questa è tutt’altro che una success story annunciata, quasi inevitabile. E non solo perché lo scienziato pisano sarebbe stato costretto – vent’anni dopo – a rinnegare le sue scoperte davanti al tribunale dell’Inquisizione. Fin da subito vari esponenti del mondo scientifico reagirono con diffidenza al messaggero delle stelle e, in generale, al telescopio come strumento di nuova conoscenza. Tanto riusciva difficile concepire quello che le scoperte galileiane significavano: la fine di ogni differenza intrinseca fra la Terra e i corpi celesti; il dubbio vertiginoso che l’uomo non fosse al centro dell’universo. Già nell’agosto 1609, al primo correre di voci sulle meraviglie svelate dall’occhiale, un personaggio rispettato nell’ambiente qual era il filosofo naturale Giambattista Della Porta aveva scritto da Napoli al principe romano Federico Cesi, il fondatore dell’Accademia dei Lincei: «del secreto dell’occhiale l’ho visto, et è una coglionaria».
1. Da San Marco alla Luna.
L’avventura del cannocchiale va colta nello spazio, come una rete di storie orizzontali, prima ancora che nel tempo, come una trama di storie possibili. Storia incominciata nei Paesi Bassi dell’estate 1608, quando un ottico di provincia, tale Hans Lipperhey, accoppiando una lente concava e una lente convessa inventa un dispositivo «grazie al quale tutte le cose a grande distanza possono essere viste come se fossero vicine». Storia proseguita nei mesi successivi da entrambi i versanti delle Alpi, quando intorno al «secreto» olandese circolano le voci piú strane e, in Italia, Galileo fra i primi si iscrive al partito degli scettici. Storia culminata nella Repubblica Serenissima dell’autunno 1609, quando il matematico di Padova si ispira a «uno degl’occhiali in canna» giunti dalle Fiandre per metter sotto i migliori vetrai e occhialai di Venezia, per mettersi lui stesso a molare lenti, insomma per trasformare un rudimentale aggeggio da due o tre ingrandimenti in uno strumento poderoso da venti o trenta ingrandimenti, l’«occhiale di Galileo».
Veneziana è la settimana cruciale di questa avventura: dal 22 al 29 agosto 1609, Galileo riesce a costruire un telescopio capace di mostrare (come scrive orgogliosamente) un oggetto «lontano 50 miglia, cosí grande e vicino come se fussi lontano 5 miglia». Veneziana è la puntata successiva: Galileo sale sul campanile di San Marco con i pezzi grossi della Repubblica, li invita a scrutare nel mirino del cannocchiale, fa loro «scoprire in mare vele e vasselli» invisibili a occhio nudo, e sull’isola di Murano il profilo di ignare persone affaccendate «a montar e dismontar de gondola» al rio dei vetrai, e dalla parte opposta della laguna il campanile di Chioggia quasi fosse a portata di mano… Veneziana è anche la puntata seguente, quella con Galileo che rivolge lo strumento verso il cielo e in rapida successione, dal novembre 1609 al gennaio 1610, scopre le montagne della Luna e i satelliti di Giove. Ancora, veneziana è l’uscita del Sidereus Nuncius, stampato in 550 copie il 13 marzo di quel fatidico 1610.
Ma continentali – europee – sono le puntate ulteriori della vicenda. Europeo è il passaparola per cui una folla di astronomi professionisti o dilettanti, di matematici, di fisici, di astrologi, di ambasciatori o dignitari di corte, di prelati di Santa Romana Chiesa, di re e di imperatori in persona, dapprima attende con impazienza la pubblicazione del Sidereus Nuncius, poi si contende le copie del libro con un’energia pari alla foga con cui cerca di assicurarsi sul mercato un «cannon di detto Gallileo». Ed europea è la risonanza delle scoperte galileiane, la consapevolezza immediata e diffusa che queste, se riscontrate, avrebbero inaugurato non solo una nuova cosmologia, ma una nuova antropologia: non solo un altro mondo, ma un altro modo di stare al mondo.
Settant’anni prima un vecchio astronomo polacco, Niccolò Copernico, aveva pubblicato in punto di morte una rivoluzionaria teoria sul moto dei corpi celesti. Contro il sistema tolemaico – riconosciuto valido dalla Chiesa, perché compatibile con il racconto biblico – aveva sostenuto l’eliocentrismo: la rotazione della Terra e dei pianeti intorno al Sole anziché la rotazione del Sole e dei pianeti intorno alla Terra. Ma la pubblicazione del libro di Copernico, De revolutionibus orbium coelestium, aveva suscitato nel 1543 molto meno scalpore che l’uscita del Sidereus Nuncius nel 1610. Sebbene fosse stata presa sul serio da tutti gli astronomi piú capaci, la teoria copernicana non aveva fatto scandalo perché era fondata su complessi calcoli matematici piuttosto che sull’osservazione diretta del cosmo. Ora, le cose si presentavano diversamente. Se quanto Galileo aveva visto attraverso il cannocchiale si fosse rivelato esatto, nulla piú sarebbe stato come prima nella concezione dell’uomo e dell’universo.
Se Galileo aveva visto giusto, l’antica distinzione tra regno terrestre e regno celeste usciva altrettanto distrutta che la concezione aristotelica e tolemaica di un cielo costituito da corpi perfettamente sferici e incorruttibili, immersi in una quintessenza congelata. Se Galileo aveva visto giusto, la Terra faceva parte integrante dei cieli, e i corpi celesti erano simili alla Terra. Se Galileo aveva visto giusto, la Terra non era che un elemento come un altro di un universo smisurato e indecifrabile. Se Galileo aveva visto giusto, la Bibbia andava riscritta – quanto meno, andava riletta con occhi diversi – fin dal primo libro, il libro della Genesi.
2. Il «sí» di Keplero.
Impossibile seguire qui passo passo tutti i luoghi d’Europa dove Galileo fa notizia nell’anno di grazia 1610. Dall’Inghilterra in cui un amico dell’ambasciatore Wotton, il poeta John Donne, denuncia le nuove scoperte astronomiche come un segno dell’umana protervia, alla Francia da dove un re morituro, Enrico IV di Borbone, corteggia Galileo per vedersi dedicato lui pure un qualche astro del firmamento (non voleva esser da meno dei Medici granduchi a Firenze, cui lo scopritore aveva intestato i satelliti di Giove). Dalla Milano del cardinal Federico Borromeo, cosí «invaghito» di cannocchiali da voler scriverne un trattato, alla Bologna pontificia dove i critici universitari di Galileo presentano come fallita la verifica delle sedicenti sue scoperte, e descrivono il Nuncius come un uomo a pezzi, annichilito dallo smacco: «gli cadono i capelli», «la testa è guasta, e il cervello in preda al delirio», «i nervi ottici sono troncati, perché con troppa curiosità e presunzione ha osservato le distanze in minuti e secondi attorno a Giove».
In realtà, Galileo sapeva che la vera partita si giocava altrove. Non a Bologna, ma a Praga. La Praga dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, e del matematico di corte Johannes Kepler: il sostenitore internazionalmente piú accreditato della teoria copernicana dell’universo. Galileo sapeva che un giudizio positivo di Keplero – un «sí» del matematico imperiale all’attendibilità scientifica del Sidereus Nuncius – avrebbe spalancato un orizzonte di gloria cosí alle nuove come alle nuovissime sue scoperte astronomiche (dopo le montuosità lunari e i pianeti medicei, il telescopio gli aveva rivelato nel frattempo anche qualcosa come gli anelli di Saturno, e le fasi di Venere). Mentre un giudizio negativo avrebbe rinfocolato la polemica sia intorno ai limiti tecnici dell’osservazione telescopica, sia intorno ai limiti teorici della cultura ottica di Galileo.
Con l’onestà intellettuale dello scienziato di razza, il matematico della corte imperiale aderisce – già durante la primavera del 1610 – alla stupefacente cosmologia suggerita da quel collega tanto meno celebre di lui, il professore dello Studio di Padova. In maggio, Keplero pubblica a Praga una Dissertatio cum Nuncio Sidereo in cui riconosce straordinario il contributo di Galileo, liquidando i detrattori come censori ottusi e bisbetici. E Keplero sostiene le scoperte di Galileo nonostante minaccino di far crollare la teoria avanzata nel Mysterium Cosmographicum, secondo cui le orbite di tutti i pianeti conosciuti sono inscritte nella geometria dei solidi platonici. Incomincia allora un’altra storia. Anzi, una doppia storia. Dapprima la storia di Galileo trionfante, strapagato dai Medici per lasciare la repubblica di Venezia e ritornare nel granducato di Toscana quale matematico e addirittura filosofo di corte. Poi la storia di Galileo caduto, sorvegliato dall’Inquisizione, denunciato come copernicano, sospinto all’abiura come eretico.
All’altezza cronologica del 1611, la caduta sembrava ancora di là da venire. Il 22 aprile il «messaggero delle stelle» viene ufficialmente ricevuto, a Roma, da papa Paolo V, che neppure una parola gli chiede di dire «in ginocchioni». Il fatto è che non in pubblico, ma in privato la Chiesa affilava le armi, per vendicare una fede che la scienza di Galileo – spostando l’uomo fuori dal centro del mondo – pareva drammaticamente minacciare. Fin dall’estate del 1610, corrispondendo con un amico, il prelato Bonifacio Vannozzi (futuro segretario di Paolo V) aveva dettato la linea: «Che la Luna sia terrea, con valli e colline, è tanto dire che vi son degli armenti che vi pascono e de’ bifolchi che la coltivano. Stiancene con la Chiesa, nemica delle novità da sfuggirsi, secondo l’ammaestramento di S. Paolo».
3. Un tipo sveglio.
Prima che costruisse il cannocchiale e stampasse il Sidereus Nuncius, il nome dello scienziato Galileo Galilei era conosciuto unicamente nella cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Il matematico pisano era arrivato all’età di quarantasei anni circondato da buona stima, ma non si può dire che avesse fatto sfracelli. Se pure, in gioventú, aveva dimostrato un talento sufficiente da spingere lo Studio di Padova a reclutarlo con uno stipendio tre volte maggiore di quello che percepiva all’università di Pisa, Galileo se l’era poi presa comoda. Breve l’elenco delle sue pubblicazioni scientifiche. Lungo, in compenso, l’elenco dei suoi amici veneti: colleghi di ricerche nel campo della fisica matematica, colleghi di bevute nelle osterie sotto i portici. Lungo, d’altronde, anche l’elenco delle persone che Galileo doveva mantenere.
Discendente da una famiglia del patriziato fiorentino – l’autore del Sidereus Nuncius terrà a precisarlo, sul frontespizio del libro – Galileo era un tipico esempio di nobile decaduto. Suo padre aveva dovuto guadagnarsi da vivere come musicista, ed era morto prematuramente lasciando al figlio primogenito un’intera famiglia di cui farsi carico: la madre malata di nervi, un fratello spiantato, due sorelle da maritare. Lo stipendio dei professori universitari, allora come oggi, non era stratosferico. Tanto meno quello dei professori di matematica, inferiori per rango ai professori di filosofia o di medicina. Cosí, Galileo aveva sempre bisogno di soldi. Arrotondava lo stipendio (e lo arrotondava bene) facendo oroscopi. Il che può oggi sembrare strano, almeno a quelli tra noi che considerano l’astrologia quanto di piú lontano dall’astronomia, una credenza piú che una scienza. Ma le cose non stavano cosí all’inizio del Seicento: i confini tra sapere astrologico e sapere astronomico riuscivano meno netti, e gli scienziati piú rispettabili non esitavano a tracciare pronostici almanaccando di zodiaci e ascendenti, distanze angolari e pianeti retrogradi.
Galileo arrotondava lo stipendio anche fabbricando strumenti scientifici, e vendendoli in giro. Il colpo migliore lo aveva piazzato nei primi anni del secolo grazie a uno speciale compasso, un calcolatore tascabile utile per risolvere problemi di matematica, di agrimensura, di artiglieria. L’idea gli era venuta quando i patrizi della Serenissima lo avevano portato all’Arsenale – dove si costruivano le navi di Venezia – e gli avevano chiesto di ragionare su remi e scalmi, sulla meccanica della remata, in modo da ottimizzare lo sforzo dei prigionieri e degli schiavi che lavoravano come forzati sulle triremi della Repubblica. Allora Galileo aveva incontrato un artigiano, Marcantonio Mazzoleni, che aveva poi assunto e alloggiato in casa sua, a Padova, come fabbricante di utensili, e in particolare dei compassi geometrico-militari. Compassi che Galileo smerciava agli acquirenti piú vari, inclusi i suoi allievi dell’università. Nel solo 1610, l’anno del Sidereus Nuncius, riuscí a piazzarne trecento.
Probabilmente Galileo non sarebbe riuscito a fare tutto quello che ha fatto nella vita, se non avesse avuto bisogno di lavorare per vivere. Per finanziare la costruzione e la messa a punto degli strumenti scientifici. Per pagarsi le bevute con gli amici. Per fronteggiare le spese di famiglia. Oltreché la scombinata famiglia toscana d’origine, la sua nuova famiglia veneta: una convivente, Marina Gamba, cui le malelingue attribuivano trascorsi da prostituta, e che il professore rinunciò a sposare; tre figli (illegittimi, dunque), due femmine e un maschio. Perfino il rapporto di Galileo con il cannocchiale – lo strumento che gli avrebbe cambiato la vita – fu mediato dal rapporto con i soldi. Il matematico pisano non aveva ancora finito di stupire la comunità scientifica internazionale con le meraviglie da lui scoperte al telescopio, che già si dava da fare per commercializzare la propria invenzione. Nel maggio 1610 già si faceva in quattro per fabbricare nuovi cannocchiali e venderli in abbinamento al Sidereus Nuncius, prendi due paghi uno.
Era un tipo sveglio, Galileo Galilei. In un mondo come quello europeo di inizio Seicento – sempre piú aperto alle novità, sempre piú veloce negli scambi, sempre piú redditizio nei profitti – Galileo non aveva nulla dello scienziato acchiappanuvole. Sapeva annusare le opportunità, e sapeva muoversi con decisione, all’occorrenza con spregiudicatezza. Come dimostra la storia del telescopio. Non l’aveva inventato lui, si era limitato a migliorare l’«occhiale di canna» venuto d’Olanda. Né forse ci sarebbe riuscito da solo. Un aiuto decisivo gli era venuto da un uomo di chiesa suo amico, Paolo Sarpi: frate ben noto a Venezia per la sua cultura scientifica, oltreché per la sua autorevolezza di teologo e la sua energia di polemista. Salvo che durante l’estate stessa del 1609, quando nel giro di poche settimane (o addirittura di pochi giorni) si era fatta chiara l’importanza delle osservazioni telescopiche, il professore dello Studio di Padova aveva abilmente cancellato le tracce della collaborazione di Sarpi come di chiunque altro, per intascare da solo tutto il credito dell’impresa.
Non esisteva allora un moderno sistema dei brevetti: la proprietà intellettuale veniva tutelata ben poco, la pirateria governava le sorti di ogni innovazione tecnologica. Ma a parte l’abilità di Galileo nel perfezionare strumenti inventati da altri (era successo cosí anche per il compasso), il suo valore aggiunto stava nell’interpretazione dei risultati ottenuti grazie a quegli strumenti. Rispetto a tanti inventori o praticoni del suo tempo, Galileo aveva una marcia in piú perché alla tecnica sapeva associare la scienza: da un esperimento, sapeva ricavare una teoria. Stava qui tutta la differenza tra il professor Galileo Galilei e il signor Hans Lipperhey, l’ottico olandese che aveva costruito il primo telescopio, ma il cui nome non dice niente a nessuno, non è entrato nella storia.
4. Tra Firenze e Roma.
La fama ottenuta con il Sidereus Nuncius permise a Galileo di alzare il prezzo dei propri servigi. Mettendo l’una contro l’altra due università, quella di Padova e quella di Pisa, che volevano fregiarsi di lui come del fiore all’occhiello nel loro corpo docente. E mettendo l’uno contro l’altro – al limite – i due Stati cui le università appartenevano: una repubblica di Venezia antica ma zoppicante, un granducato di Toscana recente ma ruspante. In pratica, Galileo approfittò del successo quale «messaggero delle stelle» per ottenere dalla Repubblica Serenissima un posto a vita e un aumento di stipendio, ma nel giro di pochi mesi si accordò con il granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici, per un rientro dorato all’università di Pisa: posto a vita e stipendio come a Padova, ma senza obbligo di insegnamento. Di là dai vantaggi personali che Galileo poté ricavarne, questa specie di asta tra le due istituzioni universitarie testimonia quanto la ricerca scientifica fosse tenuta in conto dagli statisti del Seicento: sia per motivi di immagine, sia per le sue potenziali ricadute di ordine tecnologico ed economico.
Il ritorno in Toscana coincise con una svolta nella vita privata di Galileo. Trasferendosi a Firenze, lo scienziato lasciò a Padova la madre dei suoi figli: si separò da Marina, provvedendo comunque a versarle un assegno di mantenimento. Quanto alle due figlie femmine, non appena raggiunsero l’età da marito Galileo pensò bene di sbarazzarsene facendone due suore. Sistemò entrambe in un convento di clarisse, ad Arcetri, poco fuori Firenze. Virginia diventò Maria Celeste, Livia diventò Arcangela, e Galileo risparmiò la spesa di dare in matrimonio (quindi, secondo gli usi dell’epoca, di offrire in dote) due figlie illegittime, che soltanto a carissimo prezzo avrebbero trovato uno sposo adeguato al rango di chi era stato ufficialmente nominato matematico e filosofo granducale. Traslocando da Padova, Galileo lasciò indietro anche il suo operaio di fiducia, Marcantonio Mazzoleni. E almeno di questo ebbe forse a pentirsi. L’ex ramaio dell’Arsenale aveva infatti messo in piedi, per conto di Galileo, una rete di rapporti fiduciari, per esempio con i vetrai di Murano che fornivano le lenti per i cannocchiali. Quando l’autore del Sidereus Nuncius si trasferí in Toscana, la produzione e la vendita dei telescopi dovettero essere riorganizzate da zero.
Ma scegliere Firenze significava per Galilei ben altro che il cambio di una cattedra, la separazione da una donna, la liquidazione di due figlie, e le complicazioni di un trasloco. Nel momento stesso in cui – ancora da professore a Padova – aveva deciso di dedicare il Sidereus Nuncius al «Serenissimo Cosimo II de’ Medici quarto granduca di Toscana», e addirittura di intestare ai padroni di Firenze i quattro satelliti di Giove («Medicea Sidera», si leggeva sul frontespizio del best seller), in quel preciso momento Galileo aveva scelto di farsi cortigiano. Il che non significa che si fosse consegnato mani e piedi a un rapporto di dipendenza dal sovrano mediceo. Entrambe le parti in causa, lo scienziato e il granduca, potevano trarre profitto dall’affare. Se Cosimo II faceva bella figura come mecenate di un astronomo d’avanguardia, Galileo otteneva una copertura politica per promuovere la causa della cosmologia copernicana. Senza contare che nell’Italia del Cinquecento e ancora del primo Seicento, dire Firenze equivaleva quasi a dire Roma. Ormai da un secolo un legame stretto teneva insieme gli equilibri di potere tra le due città, e le fortune dei papi si intrecciavano spesso a quelle dei Medici.
Non per niente fu Cosimo II a organizzare in grande stile, nella primavera del 1611, il primo soggiorno romano di Galileo. Siccome lo scienziato lamentava mille problemi di salute (diverse malattie vere, piú un certo numero di malattie immaginarie), il granduca mise a disposizione una lettiga oltreché un servitore. E fece ospitare Galileo nella residenza principale dei Medici a Roma. Il 22 aprile, il soggiorno culminò nell’incontro con il papa. Incontro che – già lo sappiamo – andò benissimo, non avendo l’autore del Sidereus Nuncius dovuto pronunciare neppure una parola «in ginocchioni». Paolo V si felicitò anzi con Galileo di avere abbracciato Firenze e mollato Venezia: i rapporti del papato con la Repubblica Serenissima erano allora molto tesi, per una serie di incidenti giudiziari e diplomatici che avevano coinvolto in particolare l’amico frate di Galileo, Paolo Sarpi. Il soggiorno a Roma fu un successo anche perché valse all’astronomo pisano la conoscenza e il sostegno di Federico Cesi. Visionario quanto ambizioso, questo giovane principe aveva fondato da poco un’associazione scientifica di immediato prestigio, l’Accademia dei Lincei.
Il primo soggiorno romano di Galileo riuscí fortunato soprattutto perché guadagnò al Nunc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Una febbre del mondo
  3. Premessa
  4. Una febbre del mondo
  5. L’altro Cristo. Francesco d’Assisi
  6. La sfida di una donna. Giovanna d’Arco
  7. Un principe col turbante. Gem Sultān
  8. L’odissea di un cristiano. Bernardino Ochino
  9. Vedere lontano. Galileo Galilei
  10. A scuola di governo. Pietro il Grande
  11. Una bandiera femminile. Betsy Ross
  12. Il dragone nero. Thomas-Alexandre Dumas
  13. Morire per Garibaldi. Ippolito Nievo
  14. La prima della classe. Marie Curie
  15. Cittadino del mondo. Edmondo Peluso
  16. Lo specialista. Adolf Eichmann
  17. In orbita. Jurij Gagarin
  18. La sua Africa. Nelson Mandela
  19. Libera come un uccello. Malala Yousafzai
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Dello stesso autore
  23. Copyright