
- 952 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Tutti i racconti
Informazioni su questo libro
Per la prima volta vengono raccolti in un unico volume tutti i racconti di Primo Levi: Storie naturali, Vizio di forma, Lilít, Il sistema periodico, L'ultimo Natale di guerra. Il lettore potrà seguire, lungo un percorso coerente, lo sviluppo narrativo e stilistico dell'autore. In questo volume si intrecciano storie autobiografiche ambientate nel Lager, racconti fantastici, racconti di atmosfera onirico-kafkiana, racconti di animali costruiti come apologhi morali; in tutti ritroviamo la semplicità tranquilla e straziata dell'autore, la sua arte inimitabile di raccontare in modo brioso e vivace.
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Informazioni
Storie naturali
Si ne le croyez, je ne m’en soucie, mais un homme de bien, un homme de bon sens croit tous jours ce qu’on luy dit, et qu’il trouve par escrit. Ne dit Salomon, Provierbiorum XIV: «Innocens credit omni verbo, etc.»?
… De ma part, je ne trouve rien escrit es Bibles sainctes qui soit contre cela. Mais, si le vouloir de Dieu tel eust esté, diriez vous qu’il ne l’eust pu faire? Ha, pour grace, n’emburelucoquez jamais vos esprits de ces vaines pensées. Car je vous dis que à Dieu rien n’est impossible. Et, s’il vouloit, les femmes auroient dorenavant ainsi leurs enfants par l’oreille. Bacchus ne fut il pas engendré par la cuisse de Jupiter?
… Minerve nasquit elle pas du cerveau par l’oreille de Jupiter?
… Castor et Pollux, de la coque d’un oeuf pont et esclos par Leda?
Mais vous seriez bien davantaige esbahis et estonnés si je vous exposois presentement tout le chapitre de Pline, auquel parle des enfantements estranges et contre nature. Et toutesfois je ne suis point menteur tant asseuré comme il a esté. Lisez le septiesme de sa Naturelle Histoire, chap. III, et ne m’en tabustez plus l’entendement.
Rabelais, Gargantua, I-VI.
I mnemagoghi
Il dottor Morandi (ma non era ancora abituato a sentirsi chiamare dottore) era disceso dalla corriera con l’intenzione di conservare l’incognito almeno per due giorni, ma vide ben presto che non ci sarebbe riuscito. La padrona del caffè Alpino gli aveva fatto una accoglienza neutra (evidentemente non era abbastanza curiosa, o non abbastanza acuta); ma dal sorriso insieme deferente e materno e lievemente canzonatorio della tabaccaia aveva capito di essere ormai «il dottore nuovo», senza possibilità di dilazione. «Devo proprio avere la laurea scritta in faccia, – pensò: – “tu es medicus in aeternum”, e, quel che è peggio, tutti se ne accorgeranno». Morandi non aveva alcun gusto per le cose irrevocabili, e, almeno per il momento, si sentiva portato a non vedere, in tutta la faccenda, che una grossa e perenne seccatura. «Qualcosa del genere del trauma della nascita», concluse fra sé senza molta coerenza.
… Ed intanto, come prima conseguenza dell’incognito perduto, bisognava andare a cercare di Montesanto, senza porre altro tempo in mezzo. Ritornò al caffè per ritirare dalla valigia la lettera di presentazione, e si mise alla ricerca della targhetta, attraverso il paese deserto e sotto il sole spietato.
La trovò a stento, dopo molte inutili giravolte; non aveva voluto domandare la strada a nessuno, perché sui visi dei pochi che aveva incontrato gli era parso di leggere una curiosità non benevola.
Si era atteso che la targhetta fosse vecchia, ma la trovò piú vecchia di ogni possibile aspettativa, coperta di verderame, col nome quasi illeggibile. Tutte le persiane della casa erano chiuse, la bassa facciata scrostata e stinta. Al suo arrivo vi fu un rapido e silenzioso guizzare di lucertole.
Montesanto in persona scese ad aprirgli. Era un vecchio alto e corpulento, dagli occhi miopi eppure vivi in un viso dai tratti stanchi e pesanti: si muoveva con la sicurezza silenziosa e massiccia degli orsi. Era in maniche di camicia, senza colletto; la camicia era sgualcita e di dubbia pulizia.
Per le scale, e poi sopra nello studio, faceva fresco ed era quasi buio. Montesanto sedette, e fece sedere Morandi su di una sedia particolarmente scomoda. «Ventidue anni qui dentro», pensò questi con un brivido mentale, mentre l’altro leggeva senza fretta la lettera di presentazione. Si guardò intorno, mentre i suoi occhi si abituavano alla penombra.
Sulla scrivania, lettere, riviste, ricette ed altre carte di natura ormai indefinibile erano ingiallite, e raggiungevano uno spessore impressionante. Dal soffitto pendeva un lungo filo di ragno, reso visibile dalla polvere che vi aderiva, e secondava mollemente impercettibili aliti dell’aria meridiana. Un armadio a vetri con pochi strumenti antiquati e poche boccette in cui i liquidi avevano corroso il vetro segnando il livello che per troppo tempo avevano conservato. Alla parete, stranamente famigliare, il grande quadro fotografico, dei «Laureandi Medici 1911», a lui ben noto: ecco la fronte quadrata e il mento forte di suo padre, Morandi senior; e subito accanto (ahi, quanto difficilmente riconoscibile!) il qui presente Ignazio Montesanto, snello, nitido e spaventosamente giovane, con l’aria di eroe e martire del pensiero prediletta dai laureandi dell’epoca.
Finito di leggere, Montesanto depose la lettera sul cumulo di carte della scrivania, in cui essa si mimetizzò perfettamente.
– Bene, – disse poi: – Sono molto lieto che il destino, la fortuna… – e la frase finí in un mormorio indistinto, a cui successe un lungo silenzio. Il vecchio medico impennò la sedia sulle gambe posteriori e volse gli occhi al soffitto. Morandi si dispose ad attendere che l’altro riprendesse il discorso; il silenzio cominciava ormai a pesargli quando Montesanto riprese imprevedibilmente a parlare.
Parlò a lungo, dapprima con molte pause, poi piú rapidamente; la sua fisionomia si andava animando, gli occhi brillavano mobili e vivi nel viso disfatto. Morandi, con sua sorpresa, si rendeva conto di provare una precisa e via via crescente simpatia per il vecchio. Si trattava evidentemente di un soliloquio, di una grande vacanza che Montesanto si stava concedendo. Per lui le occasioni di parlare (e si sentiva che sapeva parlare, che ne conosceva l’importanza) dovevano essere rare, brevi ritorni ad un antico vigore di pensiero ormai forse perduto.
Montesanto raccontava; della sua spietata iniziazione professionale, sui campi e nelle trincee dell’altra guerra; del suo tentativo di carriera universitaria, intrapreso con entusiasmo, continuato con apatia ed abbandonato tra l’indifferenza dei colleghi, che aveva fiaccato tutte le sue iniziative; del suo volontario esilio nella condotta sperduta, alla ricerca di qualcosa di troppo mal definibile per poter mai venire trovato; e poi la sua vita attuale di solitario, straniero in mezzo alla comunità di piccola gente spensierata, buona e cattiva, ma per lui irreparabilmente lontana; il prevalere definitivo del passato sul presente, ed il naufragio ultimo di ogni passione, salvo la fede nella dignità del pensiero e nella supremazia delle cose dello spirito.
«Strano vecchio», pensava Morandi; aveva notato che da quasi un’ora l’altro aveva parlato senza guardarlo in viso. Dapprima aveva tentato a varie riprese di condurlo su di un piano piú concreto, di domandargli dello stato sanitario della condotta, dell’attrezzatura da rinnovare, dell’armadietto farmaceutico, e magari anche della propria sistemazione personale; ma non vi era riuscito, per timidezza e per un piú meditato ritegno.
Ora Montesanto taceva, col viso rivolto al soffitto e lo sguardo accomodato all’infinito. Evidentemente il soliloquio continuava nel suo interno. Morandi era imbarazzato: si domandava se era o no attesa una sua replica, e quale, e se il medico si accorgeva ancora di non essere solo nello studio.
Se ne accorgeva. Lasciò ricadere d’un tratto la sedia sui quattro piedi, e con una curiosa voce sforzata disse:
– Morandi, lei è giovane, molto. So che lei è un buon medico, o meglio lo diverrà: penso che lei sia anche un uomo buono. Nel caso che lei non sia abbastanza buono per comprendere quello che le ho detto e quello che le dirò ora, spero che lo sia abbastanza almeno per non riderne. E se ne riderà, non sarà gran male: come lei sa, difficilmente ci incontreremo ancora; del resto, è nell’ordine delle cose che i giovani ridano dei vecchi. Soltanto la prego di non dimenticare che sarà lei il primo a sapere di queste mie cose. Non voglio adularla dicendole che lei mi è sembrato particolarmente degno della mia confidenza. Sono sincero: lei è la prima occasione che mi si presenta da molti anni, e probabilmente sarà anche l’ultima.
– Mi dica, – fece Morandi semplicemente.
– Morandi ha mai notato con quale potenza certi odori evochino certi ricordi?
Il colpo giungeva imprevisto. Morandi deglutí con sforzo; disse che lo aveva notato, e possedeva anche un tentativo di teoria esplicativa in proposito.
Non si spiegava il cambiamento di tema. Concluse fra sé che, in definitiva, non doveva trattarsi che di un «pallino», come tutti i medici ne hanno, superata una certa età. Come Andriani: a sessantacinque anni, ricco di fama, di quattrini e di clientela, era arrivato ancora in tempo per coprirsi di ridicolo con la storia del campo neurico.
L’altro aveva afferrato con le due mani gli spigoli della scrivania, e guardava il vuoto corrugando la fronte. Poi riprese:
– Le mostrerò qualcosa di inconsueto. Durante gli anni del mio assistentato in farmacologia ho studiato abbastanza a fondo l’azione degli adrenalinici assorbiti per via nasale. Non ne ho cavato nulla di utile all’umanità, ma un solo frutto, come vedrà piuttosto indiretto.
– Alla questione delle sensazioni olfattive, e dei loro rapporti con la struttura molecolare, ho dedicato anche in seguito molto del mio tempo. Si tratta, a mio parere, di un campo assai fecondo, ed aperto anche a ricercatori dotati di mezzi modesti. Ho visto con piacere, ancora di recente, che qualcuno se ne occupa, e sono al corrente anche delle vostre teorie elettroniche, ma il solo aspetto della questione che ormai mi interessa è un altro. Io posseggo oggi quanto credo nessun altro al mondo possegga.
– C’è chi non si cura del passato, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti. C’è chi, invece, del passato è sollecito, e si rattrista del suo continuo svanire. C’è ancora chi ha la diligenza di tenere un diario, giorno per giorno, affinché ogni sua cosa sia salvata dall’oblio, e chi conserva nella sua casa e sulla sua persona ricordi materializzati; una dedica su un libro, un fiore secco, una ciocca di capelli, fotografie, vecchie lettere.
– Io, per mia natura, non posso pensare che con orrore all’eventualità che anche uno solo dei miei ricordi abbia a cancellarsi, ed ho adottato tutti questi metodi, ma ne ho anche creato uno nuovo.
– No, non si tratta di una scoperta scientifica: soltanto ho tratto partito dalla mia esperienza di farmacologo ed ho ricostruito, con esattezza e in forma conservabile, un certo numero di sensazioni che per me significano qualcosa.
Questi (le ripeto, non pensi che io ne parli sovente) io chiamo mnemagoghi: «suscitatori di memorie». Vuol venire con me?
Si alzò e si diresse lungo il corridoio. A metà si volse e aggiunse: – Come lei può immaginare, vanno usati con parsimonia, se non si vuole che il loro potere evocativo si attenui; inoltre non occorre che le dica che sono inevitabilmente personali. Strettissimamente. Si potrebbe anzi dire che sono la mia persona, poiché io almeno in parte, consisto di essi.
Aprí un armadio. Si vide una cinquantina di boccette a tappo smerigliato, numerate.
– Prego, ne scelga una.
Morandi lo guardava perplesso; tese una mano esitante e scelse una boccetta.
– Apra e odori. Che cosa sente?
Morandi inspirò profondamente piú volte, prima con gli occhi su Montesanto, poi alzando la testa nell’atteggiamento di chi interroga la memoria.
– Questo mi sembrerebbe odore di caserma –. Montesanto odorò a sua volta. – Non esattamente, – rispose, – o almeno, non cosí per me. È l’odore delle aule delle scuole elementari; anzi, della mia aula della mia scuola. Non insisto sulla sua composizione; contiene acidi grassi volatili e un chetone insaturo. Comprendo che per lei non sia niente: per me è la mia infanzia.
– Conservo pure la fotografia dei miei trentasette compagni di scuola di prima elementare, ma l’odore di questa boccetta è enormemente piú pronto nel richiamarmi alla mente le ore interminabili di tedio sul sillabario; il particolare stato d’animo dei bambini (di me bambino!) nell’attesa terrificante della prima prova di dettato. Quando lo odoro (non ora: occorre naturalmente un certo grado di raccoglimento), quando lo odoro, dunque, mi si smuovono i visceri come quando a sette anni aspettavo di essere interrogato. Vuol scegliere ancora?
– Mi sembra di ricordare… attenda… Nella villa di mio nonno, in campagna, c’era una cameretta dove si metteva la frutta a maturare…
– Bravo, – fece Montesanto con sincera soddisfazione. – Proprio come dicono i trattati. Ho piacere che lei si sia imbattuto in un odore professionale; questo è l’odore dell’alito del diabetico in fase acetonemica. Con un po’ piú d’anni di pratica certo ci sarebbe arrivato lei stesso. Sa bene, un segno clinico infausto, il preludio del coma.
– Mio padre morí diabetico, quindici anni fa; non fu una morte breve né misericordiosa. Mio padre era molto per me. Io lo vegliai per innumerevoli notti, assistendo impotente al progressivo annullamento della sua personalità; non furono veglie sterili. Molte mie...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- ‘Il centauro e la parodia’ di Marco Belpoliti
- Nota all’edizione
- Tutti i racconti
- Storie naturali
- Vizio di forma
- Il sistema periodico
- Lilít ed altri racconti
- L’ultimo Natale di guerra
- Racconti sparsi
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright