L'Armata a cavallo
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L'Armata a cavallo

  1. 208 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'Armata a cavallo

Informazioni su questo libro

I cosacchi di Babel' sono eroi romantici descritti con crudo realismo: in simbiosi con i loro cavalli possiedono una grazia innata anche nel compiere le peggiori atrocità, sono mito in carne e ossa, esuberanti in tutto e sfrenati sessualmente.
Di loro Babel' fa un'epica, ma è bravissimo a non farne una retorica. Forse proprio per questo approccio non ideologico e non propagandistico, il regime stalinista fece cadere in disgrazia lo scrittore, che morì in un gulag. Ma i suoi racconti restano tra le cose più belle della letteratura russa del Novecento. «Sono nato nel 1894 a Odessa, figlio di un commerciante ebreo. La mia scuola si chiamava Istituto commerciale "Imperatore Nicola I". Era frequentata da figli di mercanti stranieri e di sensali ebrei, da nobili polacchi, da "vecchi credenti" e da tanti appassionati di biliardo ormai uomini fatti. Questa scuola resta per me indimenticabile anche perché l'insegnante di francese era monsieur Vadon. Era un bretone e aveva del talento letterario, come tutti i francesi. Mi insegnò la sua lingua, con lui imparai a memoria i classici francesi.
Poi, finito l'istituto, capitai a Kiev e nel 1915 a Pietroburgo. A Pietroburgo me la passai terribilmente male, non avevo il permesso di residenza, cercavo di evitare la polizia e alloggiavo in un interrato in via Puskin presso un poveraccio di cameriere sempre ubriaco. Fu allora che cominciai a disseminare nelle redazioni i miei lavori, ma dappertutto mi cacciavano via, i redattori mi esortavano a cercarmi un posto di commesso in qualche bottega, ma io non gli davo retta e alla fine del 1916 finii da Gorkij. Devo tutto a quell'incontro. Pubblicò i miei primi racconti in un fascicolo di "Letopis'", mi insegnò cose di straordinaria importanza, e poi, quando divenne chiaro che i miei due o tre passabili saggi giovanili non erano che un casuale successo e che in letteratura non me la cavavo e che scrivevo terribilmente male, mi mandò a fare apprendistato tra la gente.
Ed io per sette anni - dal 1917 al 1924 - feci il mio apprendistato tra la gente. Durante quel periodo fui soldato sul fronte rumeno, poi prestai servizio alla Oeka, al Commissariato del popolo per l'istruzione, nelle spedizioni di approvvigionamento del 1918, nell'Armata del Nord contro Judenic, nella prima Armata di cavalleria, nel Comitato regionale di Odessa, feci il proto nella Settima tipografia sovietica di Odessa, il cronista a Pietroburgo e a Tiflis e via dicendo. E soltanto nel 1923 imparai a esprimere i miei pensieri in modo chiaro e non troppo prolisso. Allora ripresi a scrivere».Fin qui parole di Babel' dalla sua autobiografia. Va aggiunto che i primi racconti dell' Armata a cavallo uscirono nel 1924 in «Lef», la rivista diretta da Majakovskij. Il ciclo completo fu pubblicato in volume nel 1926. Sklovskij apprezzò il libro paragonando Babel' a Flaubert e a Gogol'. Negli anni Trenta il controllo politico sugli scrittori si fece sempre più pesante. Nel 1937 Babel' venne recluso in un gulag dove morì nel 1941. Le sue opere tornarono a essere pubblicate in Russia nel 1957.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806197278
eBook ISBN
9788858420799

Prefazione

Nel 1924 il «Lef» (Levyj front iskusstva, Fronte di sinistra dell’arte), la rivista diretta da Vladimir Majakovskij, pubblicò, in due fascicoli, alcuni racconti di un giovane scrittore, Isaak Babel´, che aveva esordito qualche anno prima, ma che solo con quei racconti, e col ciclo di cui erano parte, si conquistò un posto, e tra i primi, nella nuova letteratura russa. Una nota redazionale diceva: «I. Babel´ ha cominciato la sua attività letteraria ancora prima della rivoluzione nella rivista di M. Gor´kij “Letopis´” (Annali). Gli anni rivoluzionari Babel´ li ha trascorsi nel sud della Russia, in parte a Odessa, in parte nell’armata di cavalleria di Budënnyj e nel Caucaso. In questo periodo egli ha scritto due libri: L’Armata a cavallo e Racconti di Odessa. Da tema del primo libro sono servite la vita e le imprese militari dell’armata di Budënnyj. Eroe del secondo libro è il celebre bandito odessita “Miška Japončik”, che un tempo fu a capo dei corpi di autodifesa ebraica e che con gli eserciti rossi lottò contro le armate bianche, e in seguito fu fucilato». Sempre sul «Lef» di quello stesso anno apparve il primo, e tuttora vivo, saggio critico su Babel´: ne era autore il piú brillante dei «formalisti» russi, Viktor Šklovskij. Nel 1926 L’Armata a cavallo uscí in volume e cominciò il suo cammino nel mondo. Quell’organico ciclo di racconti è rimasto l’opera maggiore di Babel´, la cui produzione letteraria, per altro, fu esigua e di concentrata qualità.
Per sapere chi era lo scrittore affermatosi coi racconti del «Lef» non c’è fonte migliore della sua autobiografia che arriva proprio al 1924, anno in cui fu scritta: «Sono nato nel 1894 a Odessa, nella Moldavanka, figlio di un commerciante ebreo. Per le insistenze di mio padre studiai fino all’età di sedici anni la lingua ebraica, la Bibbia, il Talmud. A casa la vita era difficile perché dalla mattina sino alla notte mi costringevano a studiare un’infinità di materie. Mi riposavo a scuola. La mia scuola si chiamava Istituto commerciale “Imperatore Nicola I”. Era frequentato da figli di mercanti stranieri e di sensali ebrei, da nobili polacchi, da “vecchi credenti” e da tanti appassionati di biliardo ormai uomini fatti. Negli intervalli andavamo di solito al porto, sull’approdo, oppure nei caffè greci a giocare a biliardo, oppure nella Moldavanka a bere per quattro soldi nelle bettole il vino della Bessarabia. Questa scuola resta per me indimenticabile anche perché l’insegnante di francese era monsieur Vadon. Era un bretone e aveva del talento letterario, come tutti i francesi. Egli mi insegnò la sua lingua, con lui appresi a memoria i classici francesi, entrai in stretta relazione con la colonia francese di Odessa e a quindici anni cominciai a scrivere racconti in francese. Ne scrissi per due anni, ma poi smisi: i tipi paesani e tutte le disquisizioni mie mi riuscivano incolori, e soltanto i dialoghi mi venivano bene.
Poi, finito l’istituto, capitai a Kiev e nel 1915 a Pietroburgo. A Pietroburgo me la passai terribilmente male, non avevo il permesso di residenza, cercavo di evitare la polizia e alloggiavo in un interrato in via Puškin presso un poveraccio di cameriere sempre ubriaco. Fu allora, nel 1915, che cominciai a disseminare nelle redazioni i miei lavori, ma dappertutto mi cacciavano via, i redattori (l’ora defunto Izmajlov, Posse e altri) mi esortavano a cercarmi un posto di commesso in qualche bottega, ma io non davo loro retta e alla fine del 1916 finii da Gor´kij. Devo tutto a quell’incontro e continuo a pronunciare il nome di Aleksej Maksimovič con amore e devozione. Egli pubblicò i miei primi racconti nel fascicolo di novembre del 1916 di “Letopis´” (per quei racconti dovetti subire un procedimento penale a norma dell’articolo 1001), m’insegnò cose di straordinaria importanza, e poi, quando divenne chiaro che i miei due o tre passabili saggi giovanili non erano che un casuale successo e che in letteratura non me la cavavo e che scrivevo terribilmente male, Aleksej Maksimovič mi mandò a fare apprendistato tra la gente.
Ed io per sette anni – dal 1917 al 1924 – feci il mio apprendistato tra la gente. Durante quel periodo fui soldato sul fronte rumeno, poi prestai servizio nella Čeka, al Commissariato del popolo per l’istruzione, nelle spedizioni di approvvigionamento del 1918, nell’Armata del Nord contro Judenič, nella prima Armata di cavalleria, nel Comitato regionale di Odessa, feci il proto nella Settima tipografia sovietica di Odessa, il cronista a Pietroburgo e a Tiflis e via dicendo. E soltanto nel 1923 imparai ad esprimere i miei pensieri in modo chiaro e non troppo prolisso. Allora ripresi a scrivere.
Perciò io colloco l’inizio del mio lavoro letterario al principio del 1924, quando nel quarto fascicolo della rivista “Lef” apparvero i miei racconti Sale, La lettera, La morte di Dolgušov e altri».
Nel 1932, preparando una nuova edizione della sua autobiografia, Babel´ aggiunse queste righe: «Poi di nuovo per me venne il tempo delle peregrinazioni, del silenzio e dell’accumulo delle forze. Adesso sto davanti all’inizio di un nuovo lavoro». «Nuovo lavoro» che consisteva in un romanzo sulla collettivizzazione forzata delle campagne russe, avvenimento terribile e grandioso che Babel´ aveva voluto conoscere anche per esperienza diretta, trovandovi un fatto di gran lunga superiore per importanza a tutto quello che la Russia contemporanea aveva vissuto. Di questo romanzo ci sono noti soltanto due capitoli: Gapa Gužva e Kolyvuška. Di quest’ultimo periodo è anche Marija (1935) che, con Tramonto (1928), forma il suo contributo alla drammaturgia. Arrestato nel 1937 come infiniti altri in quegli anni, morí in un Lager il 17 marzo 1941. Ignoto è il luogo della sua sepoltura. Nel 1954 la sentenza del processo fu revisionata e, come altre vittime, Babel´ fu «riabilitato». Nel 1957 a Mosca uscí in un volume la prima raccolta delle sue opere con la prefazione di Il´ja Erenburg, uno scrittore russo di origine ebraica che aveva saputo sopravvivere. Per il lettore sovietico Babel´ rinasceva, e per i lettori piú giovani, che ne ignoravano persino il nome, era una scoperta. Fuori di Russia, invece, la fama di Babel´ era stata sempre viva e la sua Armata a cavallo non cessò di essere, per il mondo, una delle piú autentiche espressioni poetiche della rivoluzione che aveva «sconvolto» la storia universale. In Italia, in particolare, si deve a Renato Poggioli, e all’editore torinese Frassinelli, la presentazione di quel libro, nel 1932.
La vita e l’opera di Babel´ si dividono in due periodi: radioso il primo, sempre piú denso di ombre il secondo. Ombre che erano calate su tutta la letteratura e la vita del suo paese. Nel 1934, al primo Congresso degli scrittori, sovietici, momento e sede di proclamazione ufficiale del «realismo socialista», Il´ja Erenburg cercò di giustificare in tono scherzoso le difficoltà esterne (censura e controllo politico) ed interne (disadattamento a una realtà sempre piú lontana dal primitivo impulso rivoluzionario) che bloccavano la creatività dei migliori scrittori russi: «Non è di me che mi preoccupo. Io personalmente sono prolifico come una coniglia [risate], ma difendo il diritto delle elefantesse di essere gravide piú a lungo delle coniglie [risate].
Quando sento dire perché Babel´ scrive cosí poco, perché Oleša non ha scritto in tanti anni un nuovo romanzo, perché non c’è un nuovo libro di Pasternak, ecc.?, quando sento questo capisco che non a tutti è chiara l’essenza del lavoro artistico. Vi sono scrittori che vedono con lentezza, ve ne sono altri che scrivono con lentezza. Questo non è né un merito né un vizio, è una proprietà, ed è assurdo trattare questi scrittori come poltroni o come artisti ormai finiti».
Nel suo intervento Babel´ riprese l’immagine di Erenburg: «Dal momento che si è parlato di silenzio, non si può non parlare di me, gran maestro di questo genere letterario [risate].
Bisogna dire francamente che in qualsiasi paese capitalistico che si rispetti io sarei crepato di fame da un pezzo e nessun editore si domanderebbe se, come dice Erenburg, io sono un coniglio o un’elefantessa. Questo editore mi nominerebbe, poniamo, lepre e in questa qualità mi costringerebbe a saltare, altrimenti non mi resterebbe che fare il merciaio. Invece qui, nel nostro paese, si è curiosi di sapere se uno è un coniglio o un’elefantessa e che cosa ha nella pancia, e per di piú non è che palpino tanto questa pancia: un po’, ma non troppo [risate, applausi], e non si cerca troppo di sapere come sarà il nascituro: castano o bruno e che cosa dirà, ecc. Ecco, compagni, la cosa non mi rallegra, ma è forse la vivente dimostrazione della stima che nel nostro paese circonda i metodi di lavoro, per quanto straordinari o lenti essi siano.
Con Gor´kij voglio dire che sulla nostra bandiera devono essere scritte le parole di Sobolev secondo cui il partito e il governo ci hanno dato tutto e ci hanno tolto un solo diritto: quello di scrivere male.
Compagni, non nascondiamocelo: era un diritto importantissimo, e ci è stato tolto non poco [risate]. Era un privilegio di cui noi ci servivamo largamente.
Dunque, compagni, in questo congresso di scrittori rinunciamo a questo privilegio, e ci aiuti dio! Ma poiché dio non c’è, ci aiuteremo da noi [applausi]».
Poche pagine rendono con tanta involontaria terribile forza la degradazione morale, intellettuale e politica cui era stata condotta una grande letteratura. Non era neppure la violenza che di lí a poco si sarebbe scatenata, ma una volonterosa e faceta sottomissione al tiranno: «il partito e il governo ci hanno dato tutto», quasi la letteratura russa non avesse avuto quel «tutto» sempre in sé, senza elargizioni di autocratici potentati, e quasi non avesse essa stessa il diritto di definire lo «scrivere male» e di criticarlo, anziché riconoscere a un censore e burocrate onnipotente la virtú di denunciarlo e vietarlo, e quasi, infine, lo scrittore non avesse il dovere di non tacere di fronte al popolo, di fronte ai lettori, di fronte a se stesso, contro i ricatti sottili e grossolani del «partito» e del «governo». L’unica attenuante di Babel´, a parte le condizioni già dure in cui viveva la letteratura sovietica, è che in lui si manifestava una malattia epidemica che si è protratta a lungo e dura tuttora non soltanto in Russia. La punta estrema di questa sindrome si ha nel passo in cui Babel´ esalta lo stile neorusso-georgiano del suo futuro assassino: «Dove imparare? Parlando della parola, voglio dire di un uomo che con la parola non ha un rapporto professionale: guardate come Stalin forgia il suo discorso, come sono gagliarde le sue parche parole, come sono piene di muscoli. Non dico che tutti debbano scrivere come Stalin, ma lavorare come Stalin sulla parola dobbiamo [applausi]».
Torniamo al Babel´ libero e felice autore dell’Armata a cavallo e vediamo come la critica degli anni venti ne sentí e ne definí l’originalità. Nel «Lef» (2, 1924) Viktor Šklovskij, partendo da un confronto allora corrente tra Babel´ e Maupassant, scriveva: «Li confrontano [i racconti di Babel´] con Maupassant perché sentono l’influsso francese e si affrettano a fare un nome abbastanza elogiativo.
«Io propongo un altro nome: Flaubert. Il Flaubert di Salambo». Šklovskij avanza poi un’altra comparazione con Gogol´: «Ho confrontato l’Armata a cavallo con Taras Bul´ba: c’è un’affinità in alcuni procedimenti. La Lettera con l’uccisione del padre da parte del figlio rivolta l’intreccio gogoliano». E cosí caratterizza la struttura di questo ciclo di racconti di Babel´: «Babel´ si serve di due contraddizioni, che in lui sostituiscono la funzione dell’intreccio: 1) lo stile e la vita quotidiana, 2) la vita quotidiana e l’autore.
Egli è estraneo nell’armata, è uno straniero che ha diritto allo stupore. Mentre descrive la quotidiana vita militare, egli sottolinea la “debolezza e desolazione” dello spettatore».
Un critico attento come A. Ležnev, di tendenza opposta a quella di Šklovskij, riprende e svolge il parallelo Babel’-Flaubert: «Nel nostro tempo frettoloso [Babel´] osserva le tradizioni di Flaubert e rifinisce la sua prosa con l’accuratezza con cui si rifiniscono i versi. E la si legge come si leggono dei versi. Non si può dare una scorsa all’Armata a cavallo. Non si può leggerla tutta di seguito, passando senza sosta da un racconto all’altro. La si può solo gustare in modo lento e concentrato, fermandosi e tornando a ciò che già si è letto. E non perché essa sia scritta in modo pesante e intricato; anzi tra i prosatori contemporanei egli è il piú nitido e chiaro; egli è un maestro della prosa cristallina di foggia francese; ma perché le sue opere sono sature all’estremo. I racconti di Babel´ possono essere riletti due, tre, quattro volte ed ogni volta vi si trova qualcosa di nuovo, che prima non si era notato, cosa che si può dire di pochissimi scrittori contemporanei». A proposito della ferocia dei racconti dell’Armata a cavallo Ležnev osserva che non si tratta di un «materiale piccante, necessario a un paradossalista o a un esteta raffinato. Nel fatto che essa è sottolineata e nel modo in cui è sottolineata si avverte un sentimento umano offeso e schiacciato dalle ruote della storia. Il suo sangue non è sangue posticcio, il suo stupore e orrore non è un procedimento letterario». Ležnev precisa la sua interpretazione là dove parla delle «note dissonanti» che le figure di «isterici» e «epilettici» portano nella raffigurazione di «ottusa ferocia» dei racconti e osserva che «i momenti delle crisi nervose sono a volta momenti centrali del racconto [Afon´ka Bida], la cui tensione e espressività emotiva raggiungono in essi il loro culmine e apogeo». Qual è il senso di questo interesse per i malati di nervi?
«Prima di tutto, c’è una giustificazione puramente fattuale. Le nevrosi sono il portato della guerra. Mostrando dei nevrotici, Babel´ è un fedele raffiguratore della realtà. Ma non è questa la cosa principale. È molto piú importante rilevare che i momenti di crisi nervosa permettono a Babel´ di scoprire nel modo piú convincente l’autentico pathos interiore dei suoi protagonisti. Tali momenti sono una sorta di apertura verso il loro mondo interiore, e attraverso queste aperture si riversa con enorme forza e indubitabile sincerità (perché l’autocontrollo dell’individuo è perso) ciò che dorme, ciò che è inespresso e che possiamo solo intuire. Qui trovi e la forza elementare, per secoli trasmessa di generazione in generazione, della canzone popolare (gli epilettici di Babel´ si mettono a parlare con le immagini e col ritmo di tali canzoni), e l’amore per il pacifico villaggio, e l’animazione del combattente rivoluzionario. [...]. Data la quasi completa assenza di psicologismo in Babel´, queste aperture gli sono a volte necessarie. Esse compensano la carenza di psicologismo. Inoltre esse dànno a Babel´ la possibilità di introdurre una nuova corrente stilistica: quella della canzone popolare. Il senso di questo procedimento stilistico sta nell’eroicizzazione. Babel´ eroicizza i suoi personaggi e attorno ai cosacchi dell’Armata a cavallo crea l’aureola di un canto epico antico».
Un altro critico, Pavel Novickij, nel 1928, osserva: «Babel´ ha una appassionata, asciutta e precisa mente ebraica. Fino all’età di sedici anni egli ha studiato la lingua ebraica, la Bibbia e il Talmud. La contegnosa serietà e il concentrato rigore del pensiero rendono il suo disegno sicuro e tagliente. In lui non ci sono linee inafferrabili. Il suo sguardo denudante coglie i contorni definiti e netti degli oggetti. Il suo disegno è asciutto, preciso e nitido come la sua mente». Ma a questa esattezza e nettezza di linee in Babel´ s’accompagna «una pittura succosa e saporosa. Babel´ percepisce la natura e la vita come un pittore. In lui c’è un colorito fulgente e una vivida luce, piena di splendore e di fuoco. Tra i prosatori non c’è un maestro pari a lui per vividezza pittorica delle tinte. Solo la fervida visione e i procedimenti pittorici di Deržavin possono essere paragonati alla succulenza coloristica di Babel´. Questa «pittura fiamminga è ultranaturalistica. Babel´ disegna non il corpo umano e le sue funzioni, ma “moli di dilagante carne umana dolcemente putida”. Le sue novelle traboccano di carne. E hanno un odore dolciastro e pungente. [...]. Il procedimento principale di Babel´ è la spietata fisiologicità dell’immagine. Lo stato interiore dello spirito e la vita psichica dei personaggi sono espressi da funzioni fisiologiche e da tratti fisici esteriori. La maggior parte dei personaggi e delle cose non hanno un’esistenza autonoma. Non sono che oggetti della percezione fisiologicamente acuita dell’autore».
Ma «a Babel´ questo non basta. Egli vuole tormentare il suo lettore con la contemplazione della piú intollerabile atrocità. Non gli basta la fisiologia. Egli si arma di un bisturi e con rovinoso entusiasmo fruga nelle purulente interiora dell’uomo. [...]. Babel´ vorrebbe cadere in un fantastico sonno per non vedere questa vita che supera ogni immaginazione. Egli chiude gli occhi per non vedere il mondo che gli si stende davanti. Ma non può staccarsi dalla contemplazione della fantastica realtà e vede soltanto le interiora di un colombo schiacciato e fetidi moli di carne umana. O il sogno meraviglioso irraggiungibile o la mostruosa realtà orrenda. [...]. In sostanza è la tragedia della visione e della poetica romantica. [...]. Babel´ è un romantico. Egli è abbacinato dalla propria immaginazione e dalla realtà (le budella schiacciate del colombo). Tutto per lui è inaccessibile, indescrivibile e mostruoso». Anche nei racconti dell’Armata a cavallo si afferma il fisiologismo babeliano. Eppure «sarebbe sbagliato affermare che nella guerra civile Babel´ vede soltanto la lotta di forze elementari primordiali, una cieca collera e la furia della distruzione. La bassa realtà per lui si accompagna sempre alla fastosa pomposità ed esotica eleganza della visione romantica. Persino il pogrom gli si presenta non solo col suo fango e il suo sangue, ma anche con la simbolica solennità di un’icona». Questa duplicità di piani crea l’originale complessità stilistica dell’Armata: «Il pathos sublime dell’epos eroico si trasforma in retorica patetica, quando Babel´ nei suoi eroi beluini elementarmente primitivi mostra tratti umani e umanitari. [...]. La retorica tragica di Babel´ è l’altro aspetto del romantico pathos simbolico. Nella guerra civile Babel´ ha visto soltanto il principio spietatamente atroce, la primigenia forza elementare e simultaneamente la solenne pomposità decorativa. I procedimenti di raffigurazione, procedimenti iperbolici pittorico-decorativi e operistico-fastosi, sono i tratti piú caratteristici della poetica e della visione romantica. L’ultranaturalismo, il voluto cinismo dell’erotica babeliana e lo spietato fisiologismo figurativo sono anch’essi di natura e origine romantica. Pathos e cinismo, retorica e scetticismo, esotismo e anatomia sono identiche deviazioni, affini caratteristiche della smodatezza romantica. Gli uomini obbediscono a una invincibile forza animale che li trascina alla rovina. È questa la vera essenza (die Naturwahrheit) della vita, la sua base. L’ideologia, le parole d’ordine, le tesi sono imbellettature, vesti sfarzose, materiale per un ironico pathos».
Quando, dopo decenni di silenzio, la critica sovietica riprese a parlare di Babel´, uno dei problemi fu quello di definire l’atteggiamento dello scrittore verso la rivoluzione e di valutare il suo «naturalismo» cosí diverso dal «realismo» sovietico insulso e sentimentale. Celebre era rimasto un intervento di Semën Budënnyj, il comandante della Prima Armata a cavallo, che nel 1924 aveva accusato lo scrittore di aver svisato, col suo erotismo, un’eroica realtà. Nella prefazione al volume che ripresentava le opere di Babel´ al lettore sovietico nel 1957 Il´ja Erenburg scriveva: «Nell’Armata a cavallo non c’è una difesa avvocatesca della rivoluzione, difesa di cui la rivoluzione non ha bisogno. Gli eroi dell’Armata a cavallo sono a volte feroci, a volte buffi; in essi c’è una esuberanza e una sfrenatezza primaverile. Ma della giustezza della causa per cui essi combattono e muoiono è compenetrato tutto il libro, anche se l’autore e i protagonisti non ne parlano. Per Babel´ i combattenti dell’Armata a cavallo non erano gli eroi schematici che s’incontravano nella nostra letteratura, ma uomini vivi, coi loro pregi e i loro vizi. Se nel secolo passato alcuni scrittori vedevano gli alberi senza vedere il bosco, noi abbiamo conosciuto scrittori sovietici ai quali il bosco impediva di scorgere gli alberi. Nell’Armata a cavallo c’è la fiumana, la valanga, la tempesta e in essa ogni uomo ha un suo volto, suoi sentimenti, un suo linguaggio. [...]. Dell’amore che i vecchi cattolici chiamavano “carnale” e i puritani odierni definiscono “animalesco”,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'Armata a cavallo
  3. Prefazione di Vittorio Strada
  4. L’Armata a cavallo
  5. Il guado dello Zbruč
  6. La chiesa di Novograd
  7. Lettera
  8. Il capo della rimonta
  9. Pan Apolek
  10. Il sole d’Italia
  11. L’ebreo Gedali
  12. La mia prima vittima: un’oca
  13. Il rabbino
  14. Sulla strada di Brody
  15. Teoria della tačanka
  16. La morte di Dolgušov
  17. Il combrig n. 2
  18. Saška il Cristo
  19. Biografia di Matvjej Rodionyč Pavličenko
  20. Il cimitero di Kozin
  21. La vendetta di Priščepa
  22. Storia d’un cavallo
  23. Konkin, il ventriloquo
  24. La città di Berestečko
  25. Un po’ di sale
  26. Una veglia
  27. Il cosacco Afon´ka Bida
  28. La chiesa di San Valentino
  29. Trunov il caposquadrone
  30. I due Ivan
  31. Seguito della storia d’un cavallo
  32. La vedova
  33. A Zamost´e
  34. Un tradimento
  35. Prima di Česniki
  36. Dopo la battaglia
  37. La canzone
  38. Il figlio del rabbino
  39. Argamak
  40. Il libro
  41. L’autore
  42. Copyright