Viaggio a Itaca
  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

A metà degli anni Settanta, guidati dal Pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse, due giovani, l'italiano Matteo e la tedesca Sophie, sono arrivati in India: frequentano l'ashram di Sri Aurobindo sotto la guida ascetica e autoritaria della Madre che dirige la comunità. Sarà necessario un altro viaggio - e Sophie lo farà - per capire chi è veramente la misteriosa Madre e qual è stata la storia che l'ha portata a diventare depositaria della saggezza di Sri Aurobindo. Un viaggio per capire e per salvare il rapporto d'amore fra Sophie e Matteo. La natura ambigua dell'amore divino e dell'amore umano sono al centro di questo romanzo, che Anita Desai ha cominciato a scrivere nel 1992, durante un lungo soggiorno in Italia. I protagonisti sono due giovani europei: Matteo che, come molti altri della sua generazione, negli anni Settanta va in cerca di illuminazione spirituale negli ashram dell'India, e Sophie, una giovane donna tedesca che pur non condividendo il suo bisogno di ascetismo e preghiera decide di seguirlo per amore.
Desai osserva con occhio insieme compassionevole e ironico le loro peregrinazioni esistenziali fino all'incontro con la Madre - personaggio centrale del romanzo, esplicitamente ispirato a Mirra Alfassa, che nel 1926 fondò lo Sri Aurobindo Ashram di Auroville. La sua storia ci viene rivelata a poco a poco grazie alle ricerche condotte da Sophie nel disperato tentativo di riportare a casa l'uomo che nel frattempo ha sposato e dal quale ha avuto due figli.
Mentre Matteo si prosterna ai piedi della Madre accettando le regole rigide e manipolatorie che vigono nell'ashram, Sophie affronta un altro viaggio, che è anche un viaggio a ritroso nel tempo, sulle tracce della bambina-ragazza-donna che la Madre è stata prima di diventare un'icona, un affascinante oggetto di culto. Dall'Egitto dove è nata, a Parigi, a Venezia e New York, fino all'arrivo in India dove riconosce infine l'amore divino nella persona di Sri Aurobindo, il maestro dal quale si era sentita occultamente guidata.
È l'epoca di Madame Blavatsky, di Annie Besant, di Ruth St Denis, l'epoca in cui l'Occidente, indifferente alle imposizioni coloniali, guardava all'India come a una terra di vita spirituale, un luogo di meditazione e di pace di cui intanto si creavano in California le «succursali» di cui ci ha raccontato Christopher Isherwood. Una storia per molti versi dolorosa, che Anita Desai ricostruisce con la consueta sapienza stilistica, investigandone le origini psicologiche e i contorni fiabeschi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806149253
eBook ISBN
9788858421512

Capitolo terzo

L’ultima conversazione tra Sophie e Matteo in ospedale cominciò tranquillamente. Matteo aveva dormito tutto il pomeriggio, mentre Sophie leggeva il libriccino sulla Madre, mal scritto e dalla stampa scadente, che Matteo aveva acquistato tanto tempo prima in una stazione ferroviaria, all’inizio del viaggio che l’avrebbe portato da lei. Vedendo che si muoveva, Sophie capí che era sveglio, allora sedette accanto a lui tenendogli una mano, cosí esile che si sentí tenuta alla massima delicatezza.
– Matteo, – disse, – ho riletto la vita della Madre.
Lui sospirò. – Di nuovo. Perché? Cosa pensi di trovare nella sua vita?
– Tutto quello che c’è da trovare. Il libro propone solo la leggenda. Io voglio andare oltre, scoprire chi è veramente, come e perché è venuta qui. Voglio conoscerla. Allora potrò dimostrare anche a te chi è davvero.
– Ma io lo so, sei tu che non lo sai. Non la si può conoscere inseguendo i fatti, come a te piace fare. Io conosco la sua grandezza e la sua forza. E non c’è necessariamente una connessione tra questo e la sua vita.
– Io invece penso di sí, Matteo, – insistette Sophie a bassa voce. Ma non parlava solo per convincere lui. – Troverò una connessione tra quello che credi tu e quello che so io. È l’unico modo che ho per capire te e ciò che hai fatto a te stesso –. Rigirò la mano di Matteo tra le sue: era quasi trasparente, le dita lunghe e affusolate, le vene blu.
Anche la voce di Matteo era quasi un sussurro: – Mi sono dato a lei. Perché vuoi impedirmi di seguire quello in cui credo, Sophie?
– Perché ciò in cui credi è… niente! – Senza volerlo, chiuse a pugno la mano, stringendo rudemente quella di Matteo.
Lui s’irrigidí e la ritrasse. Dal viso di Sophie i suoi occhi si spostarono verso un punto lontano, e quando lei riprese a parlare Matteo serrò la mascella, deciso a non rispondere.
– Ti sei trasformato in una pietra, – concluse Sophie in preda allo sconforto. – Il potere che ha su di te ti ha reso di pietra.
Lui sospirò, agitando la testa sul cuscino. Il suo viso era quasi dello stesso colore e consistenza di quel pezzo di cotone logoro e stinto. Si tirò il lenzuolo sul petto come a farsene scudo contro la collera di Sophie. – Spezzerò questo incantesimo, – proseguí lei, – questa pietra… e ti costringerò a vedere, a vedere lei, quello che è...
Matteo girò appena il viso verso Sophie, in un muto appello, ma lei non era piú in grado di fermarsi e continuò imperterrita. – Intendo scoprire… scrivere l’autentico resoconto, non le assurdità che pubblicate voi… ma la verità, perché la leggiate. Lo farò pubblicare… circolare… allora vedrai, tutti vedranno…
L’occasione di comunicare scomparve sotto la piena della sua ira. Sophie si arrestò solo quando vide oscurarsi la luce nel vano della porta e udí lo scalpiccio delle infermiere che ordinavano ai visitatori di andarsene per la notte e distribuivano ai pazienti vassoi con farmaci e pasti.
Una di loro entrò nella stanza di Matteo. Sophie si alzò, prese lo zaino e uscí a passo spedito dalla stanza senza voltarsi verso la figura immobile nel letto.
Mentre si dirigeva verso le scale in fondo alla veranda, vide salire il medico di Matteo per il giro serale delle visite. L’uomo indugiò, pronto a ascoltare le sue domande e a rispondere. Ma Sophie gli fece solo un cenno e tirò dritto. L’uomo parve leggermente disorientato dal suo silenzio e si voltò a guardarla mentre scendeva le scale con lo zaino in spalla e percorreva il viale fino al cancello.
Il Cairo sorge dal caldo deserto ocra con i suoi edifici color sabbia ma vagamente mediterranei, le facciate uniformi scandite da cornici e decorazioni floreali, balconcini in ferro battuto e lunghe persiane verdi, viali solenni e diritti fiancheggiati dalle palme. Ma in treno verso Alessandria, il piatto paesaggio grigio, le distese di palme da datteri e gli aranceti, i campi di grano e senape intervallati da fornaci per mattoni e cave di sabbia danno a Sophie la sensazione di essere di nuovo in India, l’ennesimo spostamento in treno, l’ennesimo viaggio, impolverata e stanca, troppo stanca per pensare o sentire, tutto a causa di Matteo, quel pazzo, quell’idiota di Matteo…
Balza in piedi in preda al panico, le gira la testa perché sente che la direzione è stata invertita e sta viaggiando a ritroso, ancora una volta in India, e nel passato. Deve scendere dal treno, non deve permettere che il viaggio continui…
Lungo il corridoio avanza un uomo con un carrello di aranciata e limonata, caffè e tè. Ben vestito e sorridente. Alcuni passeggeri comprano le sue bevande e Sophie nota due grosse donne in sgargianti abiti verde e porpora semisdraiate sui sedili con in grembo dei bimbetti magnificamente vestiti che giocano, e un uomo in completo scuro che scribacchia su un blocco di carta estratto dalla valigetta. La stanno guardando. Sophie dondola sui piedi e coglie lo scorrere lento del paesaggio – palme, bufali, un piccolo villaggio di mattoni e argilla, – quindi si accascia di nuovo al suo posto, tutta sudata, ricordando a se stessa che è proprio questa la sua intenzione: viaggiare a ritroso, a ritroso nel tempo, sebbene non nel proprio ma in quello della Madre.
È il crepuscolo a Alessandria. La luce filtra attraverso la sottile polvere argillosa e la sabbia. Nel quartiere di Mazarita una ragazzina gioca da sola. Indossa un vivace abito giallo con rifiniture in velluto nero ormai lacere ed è scalza: ha lasciato i sandali sui gradini di un palazzo per saltellare in libertà sul marciapiede sabbioso. I lunghi, indomabili capelli le arrivano alla cintola, scompigliandosi sempre piú mentre continua a saltare, e Sophie la guarda. Gli occhi sono tizzoni, carbonizzati e neri ma fulgidi, fiammeggianti. Quando vede Sophie, le compare sul viso una vaga espressione di sorpresa, ma subito riprende il gioco. Tuttavia è consapevole di quello sguardo e si muove con piú leggerezza e grazia di prima.
La porta in cima alle scale si apre e ne esce una donna con un bimbo in braccio. Grida: – Ferial! Vieni su, sbrigati!
La ragazzina arrossisce, lancia un’altra occhiata a Sophie, poi si ricompone e sale le scale con il capo orgogliosamente eretto.
Alma cercava sua figlia. Tutto era pronto, il cibo nel forno, la tavola apparecchiata, la zuppa bollente, il pane caldo. Era sera, il cielo aveva perso la sua luce e in lontananza, al di là dello sbarramento del porto, il mare ne rifletteva l’opacità. La ragazzina non dovrebbe essere fuori a quest’ora. E se Hamid se ne accorge? Alma si colpí la tempia con il pugno. Doveva chiamarlo per la cena? E se scopriva che la figlia non era tornata?
In preda all’agitazione, si trascinò lungo il corridoio curvo che attraversava da cima a fondo il grande appartamento. Uscí sul balcone e sorvolò con lo sguardo l’intero quartiere. C’era ancora qualche bambino che giocava, ma erano tutti maschi, ragazzi rudi e chiassosi che tiravano calci a un pallone. C’era qualche impiegato che si affrettava a rincasare. C’era il venditore di noci e datteri che accendeva la lampada sul suo carretto. Ma Laila si sarebbe notata in mezzo a loro, con il suo abito colorato, il volto vivace e le movenze da ballerina. Sempre piú in ansia, Alma gemette: – Laila, Laila.
Rientrò in casa, superando a passo fiacco i mobili d’epoca che ospitavano l’argenteria lustra, le fotografie incorniciate, le conchiglie e i vasi di porcellana, ricordi della sua famiglia e di quella di Hamid. Si fermò davanti alla porta d’ingresso, l’aprí e guardò giú per le scale. La vasta rampa a spirale era buia, ma al fondo la famiglia del portiere conversava alla luce proveniente dalla loro angusta stanzetta, lasciata aperta per far entrare l’aria della sera; il forte aroma dei bastoncini d’incenso fluttuava in una nube nell’aria. Le donne chiacchieravano passandosi un invisibile bimbetto avvolto in un involucro rosa come una caramella morbida. I bambini saltellavano sui gradini come vivaci caprette. Se Laila fosse stata con loro, la sua voce si sarebbe levata, vessatoria, su quella di tutti gli altri, facendosi sentire. Invece no, c’era una gran pace. Dov’era sua figlia? si domandò Alma preoccupata.
Sulla piccola terrazza sul retro s’era creata un giardino: un fico in vaso che non cresceva molto, una vite i cui grappoli non maturavano perché era sempre all’ombra degli altri edifici, cassette di artemisia in cui la gatta andava a scavare e un gelsomino che fioriva senza sosta credendosi in paradiso. Alma era lí a armeggiare in cerca di erbe per la zuppa quando Clio, che l’aveva vista dal davanzale dove dormiva, balzò giú e la seguí, implorando la sua cena. Era troppo buio per distinguere una fogliolina di menta da un filo d’erba, cosí Alma rientrò con Clio.
Hamid uscí dallo studio sbattendo le palpebre dietro gli occhiali, affamato, stanco, impaziente di cenare. Non poteva nascondergli che Laila era ancora fuori, non era rientrata, ed era buio. Dov’è? avrebbe chiesto.
Invece Hamid andò in cucina e sedette a tavola con un sospiro, stringendosi la testa tra le mani mentre lei gli metteva davanti un piatto di zuppa. Non aveva bisogno che della sua attenzione, della sua sollecitudine. – Mangia, Hamid, – sospirò, – mangia. Cosí ti passa il mal di testa. Troppe letture. Troppi libri.
– Bah –. Non gli piaceva sentirglielo dire. Prese un cucchiaio con il manico lungo, lo immerse nel piatto e cominciò a mangiare. La buona zuppa di lenticchie di Alma lo rinvigorí. Strappò un pezzo di pane facendole l’occhiolino. – E tu? – disse. – Niente libri? Niente letture?
– Le mie sono diverse, – rispose, mettendosi a sedere e appoggiando i gomiti sulla tavola per guardarlo mangiare. Clio le saltò in grembo affondando le unghie nella stoffa della gonna e si accomodò. – Compiti, li sfoglio, cosí… – Fece un gesto con il pollice e l’indice per mostrargli come scorrevano veloci tra le mani. Poi passò le dita sulla pelliccia di Clio, sospirando, non erano i compiti dei suoi studenti a pesarle.
– Mangia, – disse Hamid continuando il pasto, – mangia, Alma.
Allora lei liberò un lungo gemito. – Come faccio… se Laila non è tornata.
Hamid posò il cucchiaio, e il pane, fissandola. Era buio, avevano dimenticato di accendere la luce. L’aria oscura si riempí della loro attesa.
Laila rientrava a qualsiasi ora, salendo le scale di corsa. Udivano un gran trambusto mentre dava una voce al portiere, che ribatteva tra le risa dei bambini. Volava dentro casa, scalza, con i capelli che guizzavano selvaggi e il vestito sporco, persino lacero. Si avventava sul cibo in attesa sul tavolo, riempiendosi la bocca con entrambe le mani, famelica. Ma non diceva dov’era stata, cos’aveva fatto. Cosí piccola, cosí testarda, cosí indipendente, chiunque capiva che era pericoloso.
– Laila, non puoi fare cosí. Non sai quante brutte cose succedono in strada. E dov’è che vai? Abbiamo il diritto di saperlo.
Laila li fissava con gli occhi nerissimi, che brillavano come carbone. – Non lo so neanch’io, – rispondeva con tale serietà che non la si poteva accusare d’impertinenza. – Cammino per strada, svolto a un angolo… non so dove sono.
– Laila, ti prego, – gemeva Alma, – dicci almeno cosa fai.
La bocca della bambina s’irrigidiva. – Fare? Non faccio niente, – ribatteva stizzita. – Cammino, gioco, mi guardo intorno. Ma non faccio niente.
– D’accordo, d’accordo, – la calmava la madre. – Va’ a lavarti adesso. È ora di andare a dormire.
Hamid, che ascoltava in silenzio, in piedi vicino alla porta, chiedeva: – E i compiti? Li ha fatti i compiti?
I due genitori, entrambi insegnanti, entrambi studiosi, sospiravano. La casa era piena dei loro sospiri. Laila ne fuggiva.
Non potevano farci nulla. Lui stava nello studio a compilare liste di libri che a suo avviso si trovavano nel Serapeum ai tempi di Alessandro Magno. Lei stava al tavolo di cucina, dove scorreva gli esercizi di francese dei suoi studenti mentre preparava un impasto o sgusciava i piselli, interrompendosi di tanto in tanto per prendere la matita rossa e assegnare il voto. Entrambi con la porta aperta, drizzando l’orecchio ai rumori che annunciavano il rientro della figlia.
Crescendo, Laila rientrava sempre piú tardi. Spesso era già notte. Allora, vedendola a gambe nude, con uno strappo nel vestito e fiori tra i capelli – margherite o alissi strappati alla polvere – e la sabbia che le usciva dalla suola dei sandali, ruvida di conchiglie di mare, si spaventavano al punto di piangere, e la ragazza s’infuriava, il viso alterato da una smorfia, strappandosi i capelli.
– Voi mi volete vostra prigioniera, – urlava. – È cosí che mi sento qui… una prigioniera.
– Questa casa è una prigione, bambina mia? – chiedeva la madre tra le lacrime, mentre il padre non riusciva a parlare per la tristezza.
– Sí, sí, lo è, – gridava Laila con foga, e con le mani sembrava volesse squarciarsi il torace. Non era un gesto da bambina. Era il gesto di una donna che sa quello che c’è nel suo petto. Laila aveva in sé qualcosa della collera e dell’orgoglio di una dea. – Io… io voglio… ballare, – sbottò un giorno, allargando le braccia in aria come se volesse farsi spazio. – Non starmene seduta qui, a leggere, leggere, leggere… – disse con stizza, – ma fuori, a ballare! Allora sarei libera… – e con ampi gesti fece ondeggiare intorno al corpo e sopra il capo le sue braccia da ballerina, con movenze che ai loro occhi apparivano selvagge e terrificanti.
– Hamid, non possiamo permetterglielo, – dichiarò Alma. – Questo è troppo.
Hamid stava seduto alla scrivania, studiava. L’antico Serapeum di Alessandria era la sua ossessione. Detestava interferenze nel suo lavoro, ma Alma non dormiva da diverse notti, era sfatta. Si tolse gli occhiali. – Sí, cara, – disse.
– Se non mettiamo fine alla cosa, finisce per seguire questa sua folle idea.
A quell’affermazione, Hamid si ritrasse: cose simili non si dicono, porta sfortuna. A volte la sua Alma era troppo esplicita, troppo schietta, forse troppo francese, e lionese. Lui era incline al tortuoso, all’obliquo e al non detto.
Alma non era soddisfatta. Rimase nel vano della porta con in mano la pesante borsa di libri, decisa a raggiungere la scuola femminile dove insegnava francese pur avendo appena la forza di arrivare in fondo alla strada, non certo di fare lezione, dopo una notte in piedi a aspettare Laila. Disse seccamente: – Non possiamo starcene seduti qui a aspettarla. Non basta. Dobbiamo mandarla via.
– Mandarla via? – ripeté lui sbalordito. Credeva che l’intenzione fosse unicamente quella di tenerla a casa. – Dove? A fare cosa?
– Deve studiare. Dobbiamo tenerla lontana dalle sue amate strade. Dobbiamo trovare qualcosa che le interessi.
Hamid sapeva che se a sua figlia interessava la danza non sarebbero stati i libri a trattenerla. L’aveva vista prendere una penna nera e sfregiare una pagina stampata, persino strapparne una da un libro, accartocciarla e scagliarla con aria di sfida dalla finestra. Era questo che pensava dei libri e dello studio, Laila, figlia di due insegnanti, entrambi laureati, impegnati nel mondo accademico. Poche cose la rendevano furiosa quanto l’erudizione. Le faceva lo stesso effetto dell’idea di casa: nutriva per essa il medesimo disprezzo che aveva per la cucina di sua madre, per il suo giardino pensile, per l’appartamento zeppo di argenteria, fotografie, statuine e piatti di porcellana. Nei suoi accessi di collera ne aveva mandati in frantumi parecchi, li considerava emblemi della sua reclusione. Avrebbe potuto essere una piccola zingara, una trovatella adottata.
Alma sapeva leggere il suo Hamid come un libro. Non c’era bisogno che dicesse niente, ne vedeva i pensieri con la nitidezza delle righe stampate. Disse: – So quello che pensi, nostra figlia non studierà. Lo so. Ascoltami, dobbiamo renderle allettante lo studio. Fare in modo che non possa resistere. Diciamole: vai al Cairo. Studia. Se hai buoni risultati, andrai a Parigi –. Alma sembrava straziata. Pronunciava quei nomi, Il Cairo, Parigi, con una sorta di disperazione. – Potrebbe accettare, – gli spiegò, svelandogli il suo piano: mandare Laila a studiare al Cairo le avrebbe dimostrato la loro fiducia in lei; l’avrebbero trattata non come una prigioniera o una delinquente ma come un’adulta responsabile; avrebbe imparato a stare attenta, a prendersi cura di sé. Poi, se si comportava bene, sarebbe andata a Parigi, alla Sorbona, dove avevano studiato entrambi (si erano conosciuti cosí, quando Hamid si era trasferito per frequentare l’università). La sorella di Alma viveva a Parigi con il marito francese e le quattro figlie francesi: l’avrebbero presa con sé, si sarebbero occupati della sua istruzione. Se associavano gli studi al Cairo e a Parigi, forse Laila si sarebbe fatta tentare.
Ebbe ragione: brava Alma, brava mamma! Laila non accettò subito – ribellarsi era ormai la sua posa, la sua abitudine – ebbe invece un attimo di esitazione. Alma lo notò e agí con prontezza per trarne vantaggio. Aveva scorto un lampo di curiosità negli occhi della figlia. Non era cosí stupida da credere che fosse dovuta allo studio, ma forse al Cairo, senz’altro a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Viaggio a Itaca
  3. Prologo
  4. Capitolo primo
  5. Capitolo secondo
  6. Capitolo terzo
  7. Capitolo quarto
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Nota della traduttrice
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright