Cosí io prendo congedo dalla mia città perduta. Vista […] di prima mattina, essa non sussurra piú di fantastici successi e di eterna giovinezza.
FRANCIS SCOTT FITZGERALD, My lost City, 1932.
L’uomo si fa il segno della croce, al contrario secondo l’uso degli ortodossi. Sputa in terra, lancia un moccolo in una lingua dell’Est – rumeno, o forse ungherese –, sale in cabina e il Tir si avvia lentamente verso la carreggiata a scorrimento veloce che sfila di fianco. Io resto a guardare, senza altro interlocutore per la mia ricerca sull’enigma dei flussi. Poco piú in là, sullo spiazzo di cemento misto a erba, un coniglietto selvatico saltella come fosse a casa propria. Ancora piú in là due pensionati grigi spigolano alla ricerca di qualche ciuffo di valeriana. Solo al fondo, sulla porta dell’hotel che delimita a ovest l’area di sosta, un gruppo di uomini sembra in attesa, ma quando accenno ad avvicinarmi, l’amico di Rivalta che mi accompagna mi ferma con un sorriso: non sono camionisti in pausa. Sono carabinieri della brigata mobile che presidia il Tav in Val di Susa. In pratica gli unici clienti dell’hotel che quando fu costruito sembrava un affare. Eppure siamo a Torino. Estrema periferia sud. In un punto sensibile della sua nuova geografia denominato – nella neolingua del passaggio di secolo – interporto. Dal nome tanto generico quanto impegnativo: Sito.
Percorrendo la Tangenziale in direzione Milano-Aosta, piú o meno al chilometro 25 – poco prima del grande bivio che porta, attraverso l’Autostrada Olimpica, a Bardonecchia e piú su verso il Frejus e l’Europa... – lo s’incontra quasi senza notarlo, il Sito. Quello che nelle intenzioni sarebbe dovuto diventare il piú importante polo logistico del nostro Paese: un «nodo strategico» in un’economia di movimentazione votata a volumi in crescita esponenziale. Sta lí, monumento orizzontale alle promesse non mantenute di uno sviluppo che si sarebbe voluto illimitato e ineluttabile.
I numeri sembrano ricordare il gigantismo dell’era «fordista», che a Torino aveva trovato il proprio luogo geometrico. Tre milioni di metri quadri di superficie calpestabile, un’estensione capace di competere con quella del vecchio stabilimento di Mirafiori, l’antico simbolo della company town. Novecentomila dedicati a magazzini coperti. Centocinquantamila ad aree di stoccaggio all’aperto, centomila a uffici. Otto chilometri di raccordi ferroviari interni, ottantamila metri quadri di terminale intermodale, oltre duecento imprese specializzate nella logistica, per un totale di circa cinquemila dipendenti. Sono cifre che parlano di un «pieno», come se nella difficile transizione di fine secolo il testimone fosse passato dalla vocazione industriale di ieri a quella terziaria di oggi – dalla solidità metallica della fabbrica alla mobilità piú eterea della logistica – senza perdite o dispersioni, trasferendo il modello «fordista» dalla manifattura ai servizi senza soluzione di continuità. E tuttavia basta poco per capire che non è cosí.
Basta arrestare l’auto all’altezza dello svincolo d’ingresso per accorgersi che lo sguardo attraversa quell’immensa spianata di aree di sosta, d’intersezioni e di snodi viari, nel dedalo di percorsi che dall’alto ricordano la struttura labirintica di un chip elettronico, divisi in due dalla doppia carreggiata della Tangenziale come gli emisferi di un mostruoso cervello, senza quasi incontrare ostacoli. Qualche autoarticolato nel settore sud. Deserta, o quasi, l’area nord, simile per certi versi a un campo nomadi mai abitato. Al suo estremo, dove si è trasferito il Centro agroalimentare – gli ex Mercati generali –, un binario morto s’interrompe di colpo, nel nulla, a pochi metri dalla meta, cosí come il ponte incompiuto che avrebbe dovuto portare il treno direttamente all’interno delle strutture, a somiglianza della peggiore iconografia denigratoria del Meridione ossessionata dal «non-finito».
Eppure, all’inizio degli anni Ottanta, quando il progetto era nato – ancora segnato dall’«immaginario dello smisurato» novecentesco – le cifre, in proiezione, erano ben altre: si era calcolato, allora, che il complesso logistico, a regime, avrebbe dovuto assorbire un volume di traffico oscillante tra i quindici e i venti milioni di tonnellate ogni anno, per una metà connessi al trasporto ferroviario tradizionale e per l’altra metà a quello intermodale e al «tutto strada»1. Su quella base, era stata riversata sull’opera, in varie tappe, una montagna di miliardi. Con caparbia perseveranza. Anche dopo che i primi numeri venivano dicendo che i volumi di traffico erano ben altri rispetto a quelli previsti: l’unica ricerca disponibile valuterà «il volume di merci annualmente movimentato dal Sito» nel 2008 su livelli inferiori a quattro milioni di tonnellate2. Meno di un quarto del previsto. Poi, la crisi ha fatto il resto.
Appena un minuto o poco piú prima del Sito, sempre sulla Tangenziale sud in direzione Milano, al chilometro 17, s’incontra uno svincolo oggi quasi abbandonato ma un tempo anch’esso «strategico». Strada del Drosso, si chiama. Che nel nome allude all’antica grangia cistercense, divenuta poi castello fortificato e infine dimora gentilizia, a ridosso della sede ducale di Mirafiori. Ma che nella piú prosaica visione dell’urbanistica fordista era stato concepito come via d’accesso alla mitica «Porta 28» del gigantesco stabilimento Fiat di Mirafiori, il grande magnete che spiega, con la sua parabola, prima l’espansione esplosiva e poi l’affievolirsi e sfiorire del vicino polo logistico. Attraverso quel varco affluiva – come da un lungo cordone ombelicale di asfalto e cemento – la gran parte dell’immensa massa di componenti che alimentavano le linee di assemblaggio, per lo meno da quando alla metà degli anni Settanta era stata inaugurata la Tangenziale e la Fiat aveva a sua volta avviato la propria fase postfordista fondata sull’esternalizzazione e la subfornitura. E contemporaneamente fuoriusciva – insieme al flusso assicurato dal raccordo ferroviario – una produzione giornaliera ancora oscillante tra le sei e le settemila autovetture.
È difficile immaginare quel ciclopico movimento di mezzi e di pezzi – bisarche e container, vagoni e furgoni e autoarticolati di ogni misura, uomini e merci – oggi, quando dall’antica «fabbrica infinita» giunta al proprio termine non esce che un sottile rivolo di prodotti, non piú di un centinaio di auto al giorno. Forse meno. Ma basta dare un’occhiata a quel che resta del vecchio contenitore rimasto esteriormente intatto anche se internamente già in parziale abbandono – percorrere con pazienza gli oltre undici chilometri del suo perimetro, scandito dalle trentadue porte tra la «zero» all’incrocio tra corso Orbassano e corso Tazzoli e l’ultima in via Plava, tagliando dentro per corso Settembrini lungo la cinta ossessivamente grigia – per rendersi conto di quale dovesse esserne, ieri, il contenuto.
Mirafiori sta lí, sconfinata «fabbrica orizzontale», spalmata su oltre trecento ettari di superficie calpestabile – all’incirca il tre per cento del territorio del comune di Torino –, con i suoi capannoni rigorosamente a un piano allineati a perdita d’occhio l’uno dopo l’altro, in geometrica simmetria, al livello del suolo per non opporre ostacolo al cronometrico fluire della produzione razionalizzata, stazione dopo stazione, linea dopo linea, reparto dopo reparto. Solo la Palazzina uffici svetta, con i suoi cinque piani di altezza e i suoi duecento metri di lunghezza, ben visibile nel suo involucro di pietra bianca di Finale come la torre di comando di una portaerei, simbolo anch’essa del comando sull’esercito di manodopera generica che brulicava ai suoi piedi. Nei tempi migliori aveva ospitato quasi sessantamila operai, la popolazione di un capoluogo di provincia di media grandezza, impastati in piú di quaranta chilometri di catene di montaggio servite da 223 chilometri di convogliatori aerei, da una rete stradale interna di ventidue chilometri e da quaranta chilometri di ferrovia, con una centrale elettrica capace di illuminare una città come Trieste...
Ricordo che allora, passandole accanto nel traffico già rado di prima sera lungo corso Agnelli là dove gradualmente converge col quasi parallelo corso Unione Sovietica – ironia della toponomastica d’età industriale –, se ne poteva avvertire il sordo ronfare. Quasi un bramito sommesso proveniente dalle sue viscere produttive, come di una potenza ctonia che rassicurava e impauriva. Fascino dello smisurato. Orgoglio di Produttori e di Sovversivi. Simbolo dell’Ordine assoluto della Tecnica e insieme minaccia mortale per ogni ordine. Perché quando il controllo ferreo – in un certo senso «militare» – su quella sterminata massa di corpi al lavoro saltava, come per una molla troppo compressa, e la vita si liberava dalla presa metallica delle macchine, allora tutto il gigantesco apparato si trasformava in una grande cassa armonica, che dilatava i rumori di rivolta trasmettendoli alla città.
Cosí era avvenuto alla fine degli anni Sessanta, e poi a piú riprese per quasi tutti gli anni Settanta, al culmine del breve ma tumultuoso ciclo fordista italiano, quando lo spettacolo di un corteo operaio eruttato da un qualche cancello di Mirafiori non era diverso, per fragore, e calore, ed energia emanata, da quello offerto da una colata di fucina, o da una batteria di presse battenti. Come se le potenze elementari della produzione si separassero dagli impianti che le avevano evocate, e si rovesciassero fuori dalle mura, all’esterno, a dire a tutti, in città, che nessuna gerarchia è definitiva, nessun rapporto di comando e obbedienza deciso una volta per tutte. E che l’asse intorno a cui ruota il mondo a volte si rovescia.
Ora quel cratere è spento. Materia fredda. E silenziosa. Non si sentono piú vibrazioni, ronzii di macchine al lavoro, men che meno grida di rivolta. Né il tonfo cadenzato delle Grandi Presse, né il frastuono metallico dei fusti di olio industriale vuoti battuti ritmicamente a scandire la marcia dei cortei interni. Sbirciando dalle fessure della cinta qua e là sbrecciata, s’intravvedono ampi spazi di erbe incolte, come se la natura svogliatamente si riprendesse lo spazio che le era stato conteso dalla meccanica. I grandi finestroni dei reparti bui. Qualche pianta selvatica anche sui tetti piatti, a testimoniare l’incuria. Dai cancelli la folla di ieri in uscita tumultuosa è stata sostituita, al cambio turno, da esili rivoli, che si disperdono subito, come uno sbuffo di fumo, nel traffico della periferia.
I cinquemila sopravvissuti ancora formalmente considerati «direttamente produttivi»3 sono stati in fabbrica poco, nell’ultimo triennio. Tre giorni al mese in millecinquecento a rotazione sulle residue linee dell’Alfa MiTo, nel 2012, dopo l’estinzione della Musa e dell’Idea (decaduti modelli dell’un tempo nobile Lancia). E ancora per buona parte del 2013 quando dall’unica catena residua il flusso si è a poco a poco disseccato, e da allora ci si arrangia con produzioni di nicchia, qualche scocca della Maserati Gran Turismo, qualche componente di carrozzeria della Grancabrio...
Non gridano piú (a malapena parlano). Non marciano e non protestano. Dalla vita troppo saturata dal lavoro di prima sono passati a un tempo quasi vuoto. Ancora nel gennaio del 2011 avevano avuto uno scatto d’orgoglio, dicendo in duemilatrecentoventicinque – tanti, il 46 per cento – «No» all’ukase dell’Azienda che ne pretendeva l’anima e il corpo, in una resa senza condizioni. E fu un risultato inatteso e clamoroso. Poi si sono posti silenziosamente in attesa, di cosa è difficile dire: una decisione che placasse l’ansia sul futuro. L’apertura di una nuova linea di montaggio. L’attribuzione di un nuovo modello al proprio stabilimento. Una rassicurazione. Una notizia. Una decisione... Ma da dove?
Non piú da corso Marconi, sotto le cui monumentali facciate di marmo in stile Littorio si recavano, in un altro millennio, i cortei in tuta blu. Nemmeno dal Lingotto, dove si era ritirato il quartier generale Fiat, tra l’Auditorium di Renzo Piano e il centro commerciale, a fianco della mitica Eataly. Forse da Amsterdam, dove è stata collocata la sede legale del nuovo gruppo dopo la fusione con Chrysler (e dove una normativa che attribuisce voto doppio ai «soci stabili» mette gli eredi Agnelli in una botte di ferro). O da Londra, dove è la sede fiscale di Fca. O magari da Zugo, cantone svizzero di lingua tedesca dove invece ha il domicilio fiscale Sergio Marchionne. O ancora da New York, alla cui Borsa il nuovo gruppo è quotato. O, chissà, dal luogo imprecisato del globo in cui si riunisce il misterioso Gec – il Group Executive Council cui spetta il compito di stabilire le strategie complessive –, definito dall’onnipotente Amministratore Delegato «una banda di nomadi in viaggio tra tutte le regioni».
Privati di un reale ruolo produttivo, ridotti ormai solo, forse, a una funzione simbolica, i cinquemila residui umani a cui si è ridotto il gigante di ieri aspettano, frammento microscopico alla deriva in uno spazio cosmico sconosciuto e immenso, di cui è diventato quasi impossibile comprendere la mobile geografia. Dopo essere stati, per piú di mezzo secolo, al centro dell’universo produttivo, sperimentano l’angoscia del margine estremo. La vertigine del vuoto. «Immovibile», aveva definito nel 2009 il loro stabilimento Marchionne, nella traballante neolingua da manager globale, per dire appunto che un simbolo non si può dismettere come si smonta una linea di montaggio, perché bisogna pur dare ai politici di turno il modo di continuare a cantare «le magnifiche sorti e progressive» nascondendo i problemi. Ma in tempi difficili le parole dei manager hanno la stessa stabilità dei mercati. E la loro paradossale fantasia. Cosí la terra promessa ora si chiama «polo del lusso».
A quest’ultimo chiodo sono appese le speranze di quello che resta del distretto automotive torinese. Non solo dei cinquemila di Mirafiori, ma anche dei circa novantamila sparsi nelle quasi novecento imprese medie, piccole e piccolissime dell’indotto regionale. Nato su un satellite periferico dell’universo Fiat, nello stabilimento dell’ex Bertone – carrozzeria d’eccellenza poi fallita, dove la Maserati aveva innestato due suoi modelli di punta –, quell’embrione si era infatti dilatato, fino a lasciar immaginare di poter restituire un ruolo produttivo alla stessa Mirafiori. Dopo l’inaugurazione dello stabilimento, il 30 gennaio 2013 – quando Marchionne aveva incassato gli applausi di cinquecento operai festanti per il miracolo ricevuto del ritorno in produzione –, nei primi dieci mesi erano stati prodotti circa diecimila esemplari, tra Quattroporte e Ghibli: poco piú di quanto produceva Mirafiori in un giorno ai tempi d’oro si potrebbe dire (se il confronto fosse proponibile). Nel 2014, con un organico intorno ai duemila dipendenti (millecento dell’ex Bertone e altri mille riassorbiti da Mirafiori) si è superata la soglia dei trentamila. Per puntare ai cinquantamila, quando finalmente avverrà il varo del piccolo Suv Maserati Levante sulle linee di corso Tazzoli.
Non si tratterà però qui della crescita esplosiva e infinita delle quantità a cui ci aveva abituato il vecchio «modello fordista», con i grafici che segnavano parabole esponenziali e iperboliche perché la moltiplicazione dei volumi produttivi era il modo piú semplice per abbattere i costi per unità di prodotto e conquistare quote crescenti di un mercato affamato e povero. È bene saperlo subito. Dal quartier generale si fa trapelare che, comunque vada, sarà posto uno stop sulla soglia dei settantacinquemila esemplari, allo scopo di «mantenere l’esclusività del prodotto». E non svalutarne il valore del possesso, perché il mercato cui ci si rivolge è, per sua natura, globale ma limitato. Anzi, appunto, «esclusivo», come tutto ciò che si ritiene abbia valore nel mondo postdemocratico attuale.
I clienti appartengono alla sottilissima, anche se estesissima, fascia di super-privilegiati globali che possono permettersi auto dal prezzo oscillante tra gli ottanta e i centocinquantamila euro. Pochi, pochissimi in Italia (non piú di un centinaio di richieste al mese). La maggior parte negli Stati Uniti, dove si viaggia intorno a grandezze otto volte superiori. E in Cina, dove pare che il marchio piaccia soprattutto alle donne manager. Per far fronte a queste impennate del mercato, nello stabilimento Ferrari di Maranello, dove si producono anche i motori per Torino, sono stati assunti duecento interinali, pronti a intervenire «a chiamata» – sera per la mattina – quando si tratta di accelerare di qualche unità al giorno la produzione. E a Grugliasco, con l’entrata in vigore dei dodici turni, si lavorerà anche al sabato, mentre le ferie saranno ridotte a sole due settimane e il turno pomeridiano allungato di un’ora. Bizzarro gioco di specchi, che incrocia nel ciclo di un unico prodotto la cuspide e il fondo del villaggio globale: consumo esclusivo in alto e lavoro servile in basso. E lascia aperte almeno due domande: intanto se la «Motor City», il suo articolato sistema di competenze, esperienze, e segmenti produttivi legati al ciclo dell’auto, potrà continuare a tenersi insieme, intorno a un nucleo cosí ristretto, anche se cosí denso. E poi, e soprattutto, su che tipo di città finirà per corrispondere a questo nuovo statuto del mondo. Quale polis potrà emergere, da una tale rivoluzione copernicana.
Forse un brandello di risposta, giusto un indizio, a quest’ultima domanda, lo si può trovare poco piú avanti, pros...