La parola «bellezza» sembra evocare un’idea familiare. Ci accade quasi ogni giorno, nei contesti piú vari, di formulare giudizi del tipo «Questo è bello» o «è brutto»; di parlare cioè del bello come di un’esperienza dotata di evidenza propria, pur nella varietà delle sue manifestazioni e nella differenza di gradi e sfumature con cui la si fa; e quando ne parliamo, immaginiamo di richiamarci in qualche misura a un sentire condiviso. Eppure, come pochi altri, proprio il concetto di bellezza sembra sottrarsi a una chiarificazione soddisfacente. Certo, possiamo provare a domandare il significato della parola bello agli «esperti» (e chi mai potrebbero essere, questi, se non appunto coloro che piú di altri dovrebbero averne fatto «esperienza»?), e magari ricercarne la definizione su un dizionario o su un’enciclopedia: ma sarà facile restarne comunque delusi. Ogni tentativo di definizione ci sembrerà probabilmente alquanto misero e generico; o al contrario, apparirà fin troppo articolato e dettagliato, incapace di rendere in modo adeguato un significato d’insieme e magari oscillante fra l’eccesso di rigidità, la convenzione arbitraria e l’opinione poco rigorosa. Possiamo allora scegliere una strategia scientificamente piú solida, tentando di ricondurre l’origine di quel sentire al suo fondamento fisiologico o alle sue radici nella costituzione della nostra specie – ad esempio esaminando che cosa accade davvero nel nostro cervello quando formuliamo quei giudizi, oppure spiegandone la natura di ancestrale retaggio nell’evoluzione dell’essere umano. Ma è verisimile che spiegazioni come queste continuino a lasciarci almeno in parte insoddisfatti. Certo, si può anche sostenere che tale insoddisfazione si basa su un’illusione del tutto ingannevole, e che attendersi qualcosa di piú in questo campo significa scambiare per aspirazione legittima ciò che è soltanto un pio desiderio di senso. Il che non toglie, però, che al limite il senso stesso di questa delusione possa meritare qualche riflessione ulteriore.
Di fronte a questo stato di cose, uno dei maggiori storici dell’estetica del XX secolo, il filosofo polacco Władisław Tatarkiewicz, faceva osservare che la parola «bello» presenta un’ambiguità di significato su cui va fatta un po’ di chiarezza. In una prima accezione, piú ampia, «bello» designa nel linguaggio ordinario tutto ciò che provoca piacere in virtú dei caratteri che gli sono peculiari – non importa se si tratti di un ente concretamente reale o di un prodotto dell’immaginazione. In una seconda accezione, piú ristretta, «bello» è invece una categoria estetica vera e propria: un termine tecnico dunque, che come tale esige di essere analizzato nella sua applicazione a vari contesti e tipi di esperienza, e forse debitamente suddiviso e articolato in classi. Quasi a dire che, quando si parla di bello, la filosofia entra in gioco solamente nel passaggio dalla prima alla seconda di queste due accezioni: quella «tecnica», appunto.
Proprio la storia dell’estetica insegna però che la parola in questione è irrimediabilmente polisemica. Lo stesso Tatarkiewicz ricorda che Goethe, ad esempio, enumerava addirittura ben trentatre possibili varianti di bellezza, e che altre se ne potrebbero aggiungere ancora1: sicché un compito del genere «è probabilmente irrealizzabile in modo completo e preciso». Tanto che, rispetto a questo stato di cose, anche la cosiddetta «Grande Teoria» (cosí Tatarkiewicz definisce la concezione, prevalente fin dal mondo antico, del bello come armonia e proporzione delle parti) sarebbe andata incontro alle contestazioni piú radicali2. Si tratta del resto di difficoltà ben note già al pensiero classico; al cospetto delle quali, certamente, uno sguardo piú cauto preferirebbe limitarsi magari a «registrare» le alterne vicende storiche della bellezza nella cultura occidentale3. Tale consiglio, di per sé, appare saggio e prudente – se non fosse che la stessa definizione preliminare di quei valori sembra esigere comunque una (per quanto minimale) operazione ermeneutica che non pare corretto assimilare alla semplice, fattuale «registrazione» d’un significato già assodato. Ecco perché, per cominciare, vale la pena riprendere anzitutto un’osservazione di Remo Bodei, secondo il quale se della bellezza non sono possibili definizioni semplici e chiarificazioni preliminari ciò è perché le modalità di espressione del bello sono «nozioni complesse e stratificate, appartenenti a registri simbolici e culturali non del tutto omogenei, riflesso grandioso di drammi e desideri che hanno agitato gli uomini e le donne di tutti i tempi»4.
1. La cosa piú bella.
C’è un frammento di Saffo che gode meritatamente di una certa fortuna presso gli studiosi della storia del bello. Vale la pena di citarne almeno una parte:
Uno dice che un esercito di fanti,
altri di cavalieri, altri di navi,
è la cosa piú bella sulla terra nera,
io ciò che si ama (égō dè kên’ót|tō tis ératai).
E questo ognuno è in grado di comprendere:
Elena, che in bellezza superava
tutti i mortali, abbandonò il marito
nobilissimo eroe
e navigò verso Troia e della figlia
e dei suoi genitori non ebbe pensiero,
ma fu Cipride a travolgere
lei nell’amore5.
Che cosa è kálliston? Qual è la cosa piú bella? Si tratta della domanda per eccellenza della cultura greca arcaica, alla quale anche altri poeti avrebbero cercato di fornire la loro risposta. Per Saffo – unica presenza femminile, vale la pena ricordarlo, nel canone originario dei lirici greci – il concetto di kalón non si addice a un’ostentazione di potenza militare, né a qualcosa che debbano ammirare necessariamente tutti gli esseri umani senza alcuna distinzione, bensí all’oggetto del desiderio. Tuttavia, il significato di tale desiderio risiede al di là delle singole predilezioni («lo splendore delle gare olimpiche», avrebbe detto Pindaro; mentre Tirteo avrebbe scelto «il prode», il soldato valoroso): ragion per cui la ricerca della risposta alla domanda sul bello lascia trapelare un’universalità in qualche modo filosofica. Attenzione però: questa universalità non implica affatto il sacrificio del particolare, la neutralizzazione dell’individualità. Nella risposta di Saffo – letteralmente: «ciò che uno (tis) ama» – è contenuta un’indicazione profondamente diversa (sottolineata fra l’altro dall’avversativa: égō dè…); tanto che proprio qui anzi risiede, com’è stato osservato, quel modo di sentire che è peculiare del genere lirico e lo distingue ad esempio dall’epico6. La «cosa piú bella» è quella definita dalla potenza dell’amore, come dimostra il caso di Elena: la quale, abbandonato lo sposo Menelao e quasi dimentica della figlia e dei genitori, salpò con Paride alla volta di Troia.
Con questo dobbiamo forse pensare che l’inno di Saffo sia semplicemente un’istigazione poetica alla trasgressione dei vincoli e delle norme? No davvero: il suo, piuttosto, è il canto della potenza di eros, che può spezzare i legami piú stretti e indurre ad affrontare qualunque pericolo. In tal senso, vale anche la pena osservare che quello di Saffo non è nemmeno un inno all’assoluta insindacabilità dell’arbitrio. Ciò che amiamo, in ultima analisi, non dipende propriamente solo dalla nostra natura effimera e volubile. «Nelle mani della dea duttile è il cuore | di ognuno, docile la nostra mente», quasi fosse cera manipolata dal destino7. Prova ne sia il fatto che eros non si piega certamente al calcolo o all’utile. Elena possedeva ciò che probabilmente chiunque al posto suo avrebbe potuto desiderare: eppure abbandona tutto quanto e si rende responsabile del dolore proprio e altrui, non già perché si sia imbattuta in qualcosa di meglio o di piú conveniente in generale, bensí appunto in quanto rapita da qualcosa di «bello».
È ben vero peraltro che gli umani non desiderano ciò che è bello in sé, ma semmai trovano bello ciò che desiderano: il che – ha notato Hermann Fränkel – sembra effettivamente precorrere «la tesi del sofista Protagora, secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose»8. Per quanto suggestivo, questo accostamento richiede tuttavia qualche precisazione ulteriore.
2. Evocare ed equivocare.
Se la cosa piú bella è ciò che si ama, e se ciascun individuo nella sua singolarità si erge a criterio incontestabile della bellezza di qualcosa, non è difficile capire le conseguenze del nesso stabilito fra il verso di Saffo e la celebre affermazione protagorea; esse sembrano prefigurare, in ultima analisi, quel piano inclinato che, attraversando i secoli, ha infine convinto molti filosofi a farla finita con ogni istanza circa la sensatezza e la legittimità di un discorso sul «bello».
Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards, ad esempio, pubblicavano nel 1923 Il significato del significato – un testo fondamentale nella storia della semantica – ove si propone anzitutto di distinguere due differenti usi del discorso: quello simbolico, idoneo a indicare referenti reali, e quello evocativo, atto piuttosto a suscitare sentimenti e intenzioni, ovvero a condividere emozioni.
Nel linguaggio simbolico rigoroso, gli effetti emozionali delle parole, diretti o indiretti che siano, sono irrilevanti ai fini del loro impiego. Nel linguaggio evocativo, viceversa, interessano tutti i mezzi mediante i quali possono essere verbalmente suscitati in un uditorio atteggiamenti, umori, sentimenti, emozioni9.
In base a questa distinzione, in una frase come «X è bello» (ma potremmo qui anche...