E mentre venivo giú a strappi e, stracchete-stracchete, prendendo in faccia rami e rametti, altri trascinandomeli infilati qua e là che spuntavano aghi verdi tutt’intorno, e sentivo ferite alle braccia, ai fianchi, e rinculi col collo, realizzavo terrorizzato che prima o poi rami e rametti sarebbero finiti e io sarei precipitato a terra in qualche modo. E tonfai. «Beh, in fondo non mi sono fatto ’sto gran male», pensai, impugnando ancora per la cima quello stupido filo elettrico di venti metri con le sue duecentodiciassette candeline scoppiate. Era la prima volta che mi capitava da anni, da quando avevo cominciato a salire su Pino (maiuscolo, che cosí si chiamava l’albero), immancabilmente ogni 22 dicembre, perché Pino se lo aspettava, un Natale con duecentodiciassette luci intorno.
Cosí, sdraiato sulla schiena, allargai le braccia; provai ad alzarmi, ma non ci riuscii. Riprovai con accorta lentezza e mille accorgimenti: e niente, anzi peggio.
Respirai a fondo dicendomi che non era nulla e poi che forse un po’ sí, e poi che, cazzo, non sentivo il suolo sotto, né a destra né a sinistra, e vedevo solo cielo, là in alto, azzurrissimo, fermo, una diapositiva, e anche strafottente. Mi dissi assurdamente che proprio cosí doveva essersi sentito il principe Bolkonskij ferito ad Austerlitz: cielo e memorie, nonché rimorsi, e immaginai pure l’ombra di Napoleone passarmi accanto e sfiorarmi la faccia.
Ma non era Napoleone, era Paco. Chissà perché i cani si mettono sempre a leccarti quando non è proprio il caso: i piedi mentre fai l’amore, le dita se sei al cellulare con un vescovo. Ma Paco non era un cane, Paco era Paco, un Amundsen al Polo, un Caboto nella tempesta; Paco costruiva ponti e gallerie, conosceva gli sparigli a scopa, distingueva Tiziano Ferro da Chopin, leggeva nel pensiero. Non ci fu neppure bisogno che gli dicessi qualcosa, che poi di voce manco ne avevo; cominciò a scavarmi sotto con quel suo muso da bisonte, piantato a quattro zampe nella neve che pareva un argano, e con un solo colpo mi rivoltò e finii a faccia in giú. Che poi la situazione non è che fosse cambiata di tanto, ma adesso avevo le braccia contro la terra, pronte a far forza, e dài e dài mi alzai, mi rimisi in piedi.
Lui, che pensava fosse un gioco, provò a farmi cadere di nuovo, e sarebbe stata la catastrofe, ma bastò un cenno. S’arrestò e s’acquattò, occhi a fulminare i miei, ad aspettare.
Perché Paco aspettava. Aspettava sul cancello che i bambini tornassero da scuola; aspettava un mio segnale a pelo ritto se c’era intorno un pericolo; aspettava davanti al letto di Daria, quando partivo per cantare e la lasciavo sola. – Stai qui, non muoverti finché non torno –. E lui stava lí. Mica si accucciava a sonnecchiare, mica gironzolava per i fatti suoi o andava a saccheggiare il bidone della spazzatura. Spazzatura? Lui? Lui solo galline e impallinate nel culo.
Arrivò che aveva tre mesi. E subito si era fiondato nella piscinetta, giudicando poco avventurose piante e siepi: quella roba là, tutta quell’acqua, mica capitava a tutti i cani, vediamo se riesco a camminarci su.
Perché quella doveva essere la Casa anche per lui, come per tutti noi, e la Casa non è un posto, non è un tempo, è un’idea.
La Casa sorgeva su quel ramo del lago di Garda che non volge né a mezzogiorno né a mezzanotte, perché saranno le altre case a volgere da qualche parte, lei no, lei era il centro e il sole.
La prima volta che la vedemmo, di notte, abbandonata al fondo di un sentiero di sabbia e sassi, capimmo, io e Daria, che ce l’avevamo avuta dentro da sempre, e proprio cosí: sghimbescia, ragnesca, brutta da far spavento, senza un ramo di edera intorno o una finestra che guardasse le colline, circondata da scale e scalette che dall’esterno portavano a usci improbabili su balconi di un kitsch geniale, e poi tetti cupi, camini inesistenti. Ma piú ancora ci colpí la sua stravaganza: la Casa era in realtà due case a specchio una dell’altra, a formare un otto quadrato o se vogliamo due rombi appiccicati per uno spigolo, parto della mente di un geometra matto.
E cosí fracassammo in quella notte dell’86 una tavola che se la tirava da persiana ed entrammo. Ma c’era poco da vedere: dentro era come fuori, se non peggio. Si passava da un rombo all’altro su e giú per tornare alla partenza.
Però non fiatavamo. Però inconsciamente ci tenevamo la mano.
Gliel’avrei chiesto tante volte, dopo, a Daria: ma cosa ci ha preso, cosa cazzo ci ha preso a tutti e due quella sera?
Ma lo sapevamo. Una casa è la tua Casa perché ti vuole, ti rassomiglia, ti attende da un deserto di troppe strade anonime, di giri a vuoto intorno a ciò che sfiori, credi tuo e sfugge. Un deserto di già fatto, già detto, già a posto cosí, e guai a cambiare, stai in fila, in cerchio, non deviare, abbozza, convinciti, arrenditi.
Ma la Casa no. La Casa, l’avevamo capito subito noi due, non ce la dava nessuno già bell’e fatta e nemmeno precisa precisa a come l’avremmo voluta. La Casa era noi come allora ci sentivamo dentro, informe, insoddisfatta, anonima, nascente; leggevamo in lei chi eravamo, uno spazio riconosciuto che chiedeva di aprirsi: «Non voglio restare cosí, dovete fare qualcosa, e pure voi non potete restare cosí». Era una partenza, un viaggio comune; rifarla sarebbe stato come cambiarci, perché eravamo già, come lei, chi volevamo essere. E la sentimmo attorno, quasi un piccolo universo a circondarci d’intonaci cadenti.
Certo che facemmo l’amore, lí, subito, e lo facemmo perfino fuori, sul balcone, tanto non c’era anima viva. Ricordo come fosse ora che la vidi alzarsi ritta su quel suo corpo che era una geografia di sfumature collinari, chiusi gli occhi per vedere e sognare insieme; all’improvviso lanciò un piccolo urlo e si voltò ridendo con la mano sulla bocca:
– Ma… c’è un giardino immenso, troppo, troppo grande… Come faremo? Ce la facciamo a tenerlo tutto?
In realtà non potevamo farcela, mica son tutti ricchi i cantautori.
– Ma chi se ne frega, – rise ancora, e poi: – Alzati, su, alzati, guarda un po’ là…
Io guardai, ma «un po’ là» e anche un po’ piú in là non si vedeva niente, buio, qualche alta cima agitata dal vento e il nulla.
– Alberi? Alberi cosí alti proprio davanti al lago? – e risi anch’io. Era l’unica Casa del Garda da cui non si vedeva il lago. Una chicca, un assurdo, e anche un po’ una sfiga.
Ma in un certo senso un altro segno di quella notte. Non ce lo dovevano regalare, dovevamo imparare a vederlo noi, il lago.
La Casa manifestò quasi subito di essere poco seria. Qualche figlio se lo trovò già fatto, altri vennero a ruota e incominciarono ad assomigliarle anche troppo. Demolite le scalinate a ragno, coperto di edera ogni muro, lasciati liberi i fiori di fiorire, cominciò ad aleggiare su creature viventi e non viventi un onirico senso di anarchia. La Casa mal sopportava regimi e regole, e qualcuno le insegnò a giocare. Ma quello, l’irresponsabile che giocava, non ne aveva quasi colpa: inventava, coltivava le finzioni, scovava gli sbocchi al già visto, stupiva di giorno e di notte, agitava le ali, volitava sul dolore, sulle paure, e allora non c’era dolore, non c’era mai stata paura. Tutto quel che veniva da fuori, dispute, scazzi, intrusioni del mondo, fuori restava; lí, nella Casa, bisognava ridere, bisognava stringersi, sognare gli stessi sogni, camminare su parole acrobatiche.
Ma non ero io, era la Casa a volerlo. E la Casa, poco alla volta, li uní tutti e quattro i miei ragazzi, che ancor oggi non li dividi uno dall’altro nemmeno sotto tortura.
Venne loro naturale un codice di ammiccamento, segni aerei per capirsi al volo, prendere la scena a turno, ma difendersi e amarsi in modo esclusivo; e furono giorni leggeri e docili da portare, per sentirne la bellezza e la gioia di comunicarla, decifrarla chi piú chi meno a modo suo.
Su tutto l’ironia, perché la Casa cosí voleva. Mai violenza e derisione gratuita, comicità piuttosto, e uno sguardo agli anfratti remoti dell’esistenza, restaurati come da archeologi; entusiasmi infettivi per ogni novità, scambi di scoperte, disposizione all’iperbole, alla passione bruciante, anche a breve gittata.
E nella Casa, due erano i momenti topici: il «Circo Veccioni» e la «schifezzata cosmica». Ce n’era certo anche un terzo, ma tutto mio e sacro: le luminarie di Natale, appunto.
Il «Circo Veccioni» e non «Vecchioni», come volle l’errore di Francesca sulla scritta del festone inaugurale. Fu un gran giorno. Erano venuti da ogni dove amici, parenti, persone care; totalmente esclusi i muti d’accento e di pensier.
Daria e io preparavamo da settimane gli sketch. Imitavamo le coppie di amici truccandoci alla grande, ricoprendo indifferentemente ruoli maschili e femminili. Li prendevamo in giro senza risparmiargli niente, il peggio di Plauto e Totò.
I ragazzi si buttavano sul gioco della verità, componevano ed eseguivano canzonette sconce, organizzavano all’impronta spogliarelli di avvocati e dottoresse con paletta e voto finale. Francesca era l’acrobata: volteggiava su mobili e divani con lucida follia; perché folle era sempre stata se a sei anni si tuffava in una pozza da un albero di sei metri, a sette rotolava giú dagli scivoli della morte all’acquapark e a otto guidava come Hamilton. Carolina tutto l’inverso, disegnava ritratti all’istante e recitava poesie sulla mamma e le nonne tra avvocati e dottoresse seminude in lacrime. La tenevamo sempre per ultima, perché era troppo tenera, e cosí tutti se ne andavano via mazziati e commossi. Ma il vero protagonista era Arrigo, maschera comica e tragica intercambiabile, era lui a cucire un numero e l’altro passando negli intervalli con i cartelli-annuncio, a palleggiare quattro, cinque arance assieme senza lasciarne cadere una, a deambulare con una scopa in testa che non si spostava di un centimetro. Vestito da clown, il riso che nasconde una stretta al cuore, quasi una premonizione.
La «schifezzata cosmica» era un’altra storia, roba per palati fini, ed era privata, assolutamente vietata a qualsiasi estraneo, tota nostra.
Cominciava già la sera prima con le cerimonie dell’«affissione»; ognuno di noi sei appuntava alla credenza in cucina l’elenco delle porcherie che piú porcherie non si può, vietate e messe al bando da ogni famiglia normale, che si sarebbe procurato il giorno dopo per mangiarle, crude o cotte che fossero, al momento clou. Non esistevano limiti di genere e quantità; tutte le nutelle, patatelle, bomboncelle erano consentite e riverite, liquirizie, popcorn, mini e maxi burger, torroni, Coca-Cola a imbuto, merendine al ribes, al latte rancido, qualsiasi rimanenza da supermarket, roba da infarto materno, era rigorosamente permessa, anzi, obbligatoria. Per me Sacher intere, cassuole, zampone a cubetti, Bordeaux (altri tempi) da farci un leasing e bottiglie di Perrier che si digerisce un rospo vivo.
Il giorno dopo tutti fuori a cercare due cassette da vedere la sera sbracati in un solo letto (mio e di Daria), a parte Dodi che si presentava in camera già un’ora prima tirandosi dietro il suo tappetino, e che si sdraiava sul pavimento a un palmo dallo schermo. Il primo film filava via fra sgranocchiate convulse ma dignitose e pochi salaci commenti. Alla seconda cassetta si scatenava il pandemonio: chi parlava dei cazzi suoi, chi di quelli degli altri, chi sciorinava un repertorio da Heidi ai Take That, chi rubava agli altri noccioline, o tirava noccioline, chi mollava involucri, carte e avanzi sul pavimento, chi ruttava, chi spernacchiava, fino a che Daria prendeva su e se ne andava a dormire altrove.
E questo era il segnale del «rompete le righe»: non esisteva time out o arimortis.
Nessuno, dico nessuno, potrà mai minimamente immaginare la sacralità di quell’happening in apparenza assurdo, ma perfetto e preciso come un orologio fermo: era, ora lo so, pura dramologia, un rito di continuo passaggio, una festa di primavera, un recitar a soggetto, un incrociarsi di peccato e perdono, saggezza e stupidità, fra la passione e la buffonata di vivere.
Era questo la schifezzata cosmica. Era questa la felicità.
La luminaria di dicembre era cosa mia. E lo sapevano bene tutti: si alzavano la mattina presto e poi fuori tutto il giorno, chi qua chi là ma fuori, via dalla Casa, coprifuoco fino a mezzanotte e che non venisse in mente a nessuno per nessun motivo di farsi vedere.
Perché la luminaria di dicembre è un mistero esclusivo che se non c’è lo sciamano giusto rischia di precipitare in farsa.
Che poi uno si chiede: che sarà mai? Qualche metro di filo, due lampadine, e che, ci vuole Edison? No, ci vuole Dante, va bene anche un Corazzini d’accatto ma comunque ci vuole, dietro, un poeta. Le lampadine non...