Digiunare, divorare
eBook - ePub

Digiunare, divorare

  1. 232 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Digiunare, divorare

Informazioni su questo libro

Uno scialle e una confezione di tè vengono spediti a un giovane indiano che studia in America, per confortarne il soggiorno lontano da casa con la familiarità del loro calore e dei loro profumi. Nello spazio di tempo impiegato dal pacco per raggiungere Arun, la sorella maggiore Uma affronta una nuova caldissima estate con gli anziani genitori, nella polverosa casa di famiglia.
Distanti migliaia di chilometri due mondi si specchiano in un rovesciamento per molti aspetti solo apparente. Uma e Arun hanno caratteri molto simili: l'indolenza che li accomuna affiora dietro i loro diversissimi destini. Come maschio Arun ha ottenuto il privilegio di un'istruzione americana, come femmina Uma ha fallito due matrimoni combinati, «sperperando» la dote due volte, come non manca di rimproverarle il padre.
Dal mondo che li circonda, che capricciosamente li spinge alla rinuncia o all'eccesso, a digiunare o a divorare, non vogliono altro che essere lasciati in pace. Uscendo dalla porta di servizio, senza alzare la voce, con una silenziosa dignità.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806174774
eBook ISBN
9788858421840

Parte prima

Capitolo primo

Nella veranda che guarda il giardino, il viale e il cancello, siedono l’uno accanto all’altra sul dondolo a due posti, appeso alla sua struttura di ferro, gambe e piedi ciondoloni, le ciabatte penzolanti nel vuoto. Hanno davanti un tavolo basso, rotondo, coperto da una tovaglia sbiadita con un ricamo floreale al centro. Dietro, un ventilatore a piede soffia loro aria tiepida nella nuca e nel collo.
Le stuoie di vimini, che di solito pendono dalle arcate del portico per tenere lontani il sole e la polvere, adesso sono arrotolate. I piccioni appollaiati sui rulli mugolano teneramente, becchettano le zecche, scuotono le ali. I loro escrementi chiazzano le lastre di pietra sottostanti e le piume volteggiano pigramente nell’aria.
I genitori si dondolano ritmicamente avanti e indietro. Sembra che dormano, schiacciando un pisolino – gli occhi socchiusi –, ma di tanto in tanto parlano.
– Ho fatto preparare le frittelle per il tè, oggi. Basterà? O vuoi anche dei dolci?
– Sí, sí, sí, ci vogliono anche i dolci, certo, anche i dolci. Va’ a dirlo al cuoco. Va’ a dirglielo subito.
– Uma! Uma!
– Uma deve dire al cuoco…
– Ehi, Uma!
Uma si affaccia alla porta con un’espressione agitata. – Cos’avete da urlare?
– Va’ a dire al cuoco…
– Ma mi hai detto di preparare il pacco perché sia pronto quando la figlia del giudice Dutt viene a prenderlo. Stavo finendo di legarlo con lo spago.
– Sí, sí, finisci pure, il pacco dev’essere pronto per quando arriva la figlia del giudice Dutt. Che cosa mandiamo ad Arun? Che cosa gli mandiamo?
– Del tè. Lo scialle.
– Scialle? Quale scialle?
– Quello che ha comprato la mamma.
– Comprato la mamma? Come sarebbe a dire?
Uma si stringe nelle spalle con impazienza. – Lo scialle marrone che la mamma ha comprato per Arun al Kashmir Emporium, papà.
– Uno scialle marrone del Kashmir Emporium?
– Sí, papà, sí. Forse Arun patisce il freddo in America. Lasciami andare a chiudere il pacco, altrimenti non sarà pronto quando verrà la figlia del giudice Dutt e dovremo spedirlo per posta.
– Posta? Posta? No, no, no. Costa troppo, troppo. Non avrebbe senso dal momento che la figlia del giudice Dutt va in America. Finisci il pacco, Uma, sbrigati.
– Prima va’ dal cuoco. Digli che le frittelle non bastano. Papà vuole anche i dolci.
– Anche i dolci?
– Sí, anche i dolci. Poi torna qui a farti dettare una lettera per Arun. Cosí gliela porta la figlia del giudice Dutt. Quand’è che parte per l’America?
– Vuoi dettarmi una lettera proprio adesso che sto facendo il pacco per Arun?
– Oh, oh, oh, il pacco per Arun. Sí, sí, finisci di fare il pacco. Dev’essere pronto. Pronto per la figlia del giudice Dutt.
Uma schizza via, con i suoi capelli grigi sfibrati, gli occhi miopi furiosi dietro le lenti, borbottando tra sé. I genitori, temporaneamente scossi dall’improvvisa ondata di problemi – dolci, pacco, lettera, dolci –, riprendono il loro ritmico dondolio. Fissano il calore abbacinante del pomeriggio come se il vassoio con il tè, i dolci e le frittelle potesse materializzarsi ed emergere da lí – venendo in loro soccorso. Riprendono a dondolare… dondolare, con crescente irrequietezza.
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Mammaepapà. Mammapapà. Papàmamma. Era difficile credere che avessero avuto esistenze separate, che fossero stati entità separate e non mammapapà in un unico respiro. Eppure la mamma era nata in una famiglia di mercanti di Kanpur e aveva vissuto in seno alla sua estesissima famiglia fino a sedici anni, quando aveva sposato papà. Nel frattempo, a Patna, papà, figlio di un ispettore delle tasse con una bruciante ambizione, dare al figlio la migliore educazione possibile, si distingueva negli studi vincendo numerosi premi, giocava a tennis e faceva il tirocinio d’avvocato, costruendosi infine una solida esperienza. Tutto questo i figli lo avevano appreso perlopiú da vecchie fotografie, diplomi in cornice, medaglie ormai ossidate, e dalle chiacchiere dei parenti in visita. Quanto a mammapapà, parlavano di rado dell’epoca in cui non erano uno. I pochi aneddoti di cui riferivano separatamente acquistavano cosí grande significato proprio per la loro rarità, la loro eccezionalità.
La mamma diceva: – Ai miei tempi, in casa, alle ragazze non si davano dolci, noccioline, cose buone da mangiare. Se si comprava qualcosa di speciale al mercato, come dolci e noccioline, lo si dava ai maschi. Ma la nostra non era una famiglia ortodossa, la mamma e le zie trovavano sempre il modo di far scivolare qualcosa di soppiatto –. Rideva, ricordando che… i dolci… scivolavano.
Papà raccontava: – Non avevamo l’elettricità quando eravamo ragazzi. Se volevamo studiare, dovevamo andare in strada con i nostri libri, a studiare alla luce dei lampioni. Nel periodo degli esami c’era sempre un cerchio di studenti che studiava e ripeteva le lezioni a voce alta. Era difficile concentrarsi sulle leggi mentre altri recitavano teoremi o versi in sanscrito o date della storia inglese. Ma ce la facevamo, passavamo gli esami.
Papà raccontava: – Il migliore studente del mio anno studiava giorno e notte, notte e giorno. Scoprimmo come faceva a studiare tanto. Durante gli esami si tagliava le ciglia. Cosí, quando chiudeva gli occhi, sentiva un pizzicorino che lo svegliava, e poteva continuare a studiare.
Le storie di papà erano tendenzialmente tristi. Quelle della mamma parlavano di cibo – soprattutto di dolci – e della famiglia. Ma erano rare, e scarne. Per i figli avrebbe potuto essere un tormento – tante cose taciute, lasciate all’immaginazione –, invece non si preoccupavano troppo del passato perché mammapapà parevano di per sé sufficienti. Fondendosi in uno avevano guadagnato un nerbo, una statura, un’autorità tali da sembrare già abbastanza ingombranti cosí; non avevano bisogno di storie e retroterra distinti che li rendessero ancora piú maestosi.
Talvolta trapelava qualcosa, un barlume di ciò che erano stati prima di congiungersi in quell’esistenza da gemelli siamesi sul dondolo della veranda. E talvolta Uma era sorpresa, perfino imbarazzata da quel barlume – per esempio della mamma che giocava a ramino con le sue amiche, cosa che faceva di nascosto perché papà disapprovava severamente ogni forma di gioco d’azzardo. Quando attraversava il giardino per recarsi dalle amiche per una partita mattutina, la mamma non sollevava realmente il sari sopra le ginocchia per saltare al di là della siepe, ma era come se lo facesse. I suoi modi – uniti al curioso ticchettio che accompagnava il gioco – acquistavano un che di seduttivo, da ragazza. Le guance si facevano paffute perché accettava di buon grado le noci e foglie di betel che le venivano offerte – altra debolezza criticata da papà –, gli occhi le luccicavano maliziosi mentre gettava indietro la testa e rideva, senza alcun ritegno, per cosí dire. Si stringeva al petto le carte e sbatteva le ciglia con civetteria. Se Uma le spuntava alle spalle per guardare, o Aruna si avvicinava per vedere cosa ci trovasse di tanto divertente nelle carte che teneva in mano, scacciava le figlie come mosche fastidiose: – Via, via. Andate a giocare con i vostri amici.
All’ora di pranzo rientrava attraverso un varco nella siepe, seguita dalle figlie, e nel tempo che impiegava a raggiungere il portico ritrovava i suoi modi di sempre, misurato riserbo, modestia e manierata cortesia.
Quando papà, tornando dall’ufficio, s’informava su cosa avessero fatto tutta la mattina, lei chinava il capo sospirando e si faceva aria con il ventaglio: – Era coosí caldo, – diceva. – Cosa vuoi che facessimo? Niente.
Quanto a papà, non veniva mai meno a se stesso, tutt’altro. La mattina mandava a chiamare l’autista e saliva in macchina con una premura tale da far temere che ogni indugio potesse provocare una sfuriata. Quando per caso passavano a prenderlo in ufficio, lo trovavano seduto dietro una scrivania enorme, come il satrapo di una piccola provincia, che si detergeva il collo con un ampio fazzoletto e dava ordini bruschi al segretario, alla dattilografa e ai clienti, con ogni gesto e smorfia aggiungendo qualcosa al carapace della sua autorità, nella cui lustra, plumbea monotonia si ritrovò infine rinchiuso.
La mamma gli preparava scrupolosamente la sacca da tennis e gliela mandava tramite il fattorino dell’ufficio che veniva a prenderla in bicicletta, la fissava nella morsa del portapacchi metallico e pedalava via. La mamma restava a guardarlo con aria assorta finché svoltava fuori dal cancello, sulla strada. Uma si domandava se cercasse di immaginarsi papà mentre si cambiava, in un angolo del suo ufficio, dietro il paravento di tela cerata verde. E si premeva la bocca con una mano per sopprimere una risatina.
Dopo di che la mamma si sedeva sul dondolo della veranda, da sola, e lo aspettava, tenendo distrattamente d’occhio le figliolette mentre giocavano nella chiazza d’erba secca dove stavano disegnando un giardino di sassolini, foglie, ramoscelli e petali di calendula. Interveniva infastidita quando litigavano troppo rumorosamente.
A poco a poco il pomeriggio cedeva il posto a una sera caliginosa e finalmente arrivava la macchina. Ne saltava fuori papà che saliva d’un balzo i gradini, roteando la racchetta. Indossava i calzoncini di cotone bianco che gli aveva mandato la mamma, le cui ampie falde sbattevano intorno alle sue gambe magre. In vita c’erano tracce di ruggine lasciata dalla fibbia metallica. Spesso la mamma rimproverava il lavandaio perché consegnava i calzoncini lavati con macchie di ruggine. Lo sgridava anche perché rompeva i grandi bottoni bianchi che lei doveva sostituire, occhiali sul naso, labbra strette per la concentrazione. Papà indossava anche una maglietta a maniche corte con un bordo verde o blu. Era lustro di fatica, compiacimento e sudore. – Ho battuto Shankar sei-cinque, sei-due, – comunicava loro dirigendosi verso lo spogliatoio, con le calze di cotone che gli crollavano, esauste, intorno alle caviglie. Lo udivano deporre la racchetta con un grugnito soddisfatto.
Nel portico nessuno apriva bocca. La mamma restava seduta come stordita dal successo, dalla prodezza di papà. Poi si sentivano lo sferragliare di un secchio, gli scrosci d’acqua. Un rivolo d’acqua saponata sgorgava da un tubo sul lato della casa e scorreva – sotto lo sguardo immobile delle bambine – tra polvere e foglie secche fino a una pozza fangosa seminascosta dai cespugli di basilico e gelsomino.
A un tratto la mamma si raddrizzava e urlava: – Uma! Uma! Di’ al cuoco di portare la limonata a papà!
Uma correva.
C’erano naturalmente serate mondane, la carriera di papà ne richiedeva parecchie, e talvolta erano presenti anche i suoi figli. In tali occasioni papà si concedeva un goccio di whisky allungato con acqua. Dopo di che s’abbandonava a quelli che loro consideravano tentativi piuttosto infelici di scherzare. I suoi scherzi erano sempre diretti contro qualcuno e, sotto la patina di cordialità che si confaceva a un party o a un ricevimento al club, erano decisamente feroci. Dopo aver messo in imbarazzo con le sue frecciate qualche giovane magistrato o aver ricordato a un giudice anziano un infausto incidente che era meglio dimenticare, senza peraltro suscitare altra reazione che una smorfia amara delle labbra, scoppiava lui stesso a ridere. Il disagio provocato negli altri era la misura del successo delle sue battute. Era il suo modo di segnare punti, gettava indietro la testa con una risata trionfante e sembrava che ne guadagnasse fisicamente in statura (peraltro non considerevole). Ci si sarebbe ingannati, pensando che papà fosse di buon umore. Ma la famiglia non si lasciava ingannare: sapevano che in realtà era molto teso, innervosito da quella che reputava una prova di forza. Era un sollievo vederlo tornare alla sua taciturna normalità, con la sua indiscussa e salda autorità.
Non c’era nulla di sbagliato nel pensare che il ruolo scelto da papà fosse quello di arrabbiarsi, e quello della mamma di rimproverare. Dal momento che ogni adulto deve avere un ruolo e questi erano quelli scelti dai loro genitori, i figli non li mettevano in discussione. Perlomeno non da bambini.

Capitolo secondo

Papà ha fatto chiamare la macchina. L’autista impiega un certo tempo a indossare la divisa, ancora di piú a mettere in moto e uscire dal garage (da quando papà è andato in pensione, anche la macchina e l’autista sono semipensionati, vengono chiamati di rado). Papà, in piedi sui gradini del portico, scruta quel cassone ammaccato e arrugginito che arranca con uno stridio riluttante. Lo osserva impassibile. Quando Uma dice: – Un giorno o l’altro quella Rover si fermerà per sempre… è cosí vecchia, – papà non batte ciglio, preferisce non sentirla, e non l’ha sentita. Cosí l’auto, un relitto del suo passato, raggiunge papà ai piedi della veranda. Lui siede sul sedile anteriore, accanto all’autista, e aspetta che la mamma e Uma si arrampichino sul sedile posteriore. Le porta a fare un giro al parco. Ha trascorso tutta la domenica camminando avanti e indietro sotto il portico, ora sollevando le braccia in avanti, intrecciando le dita delle mani, ora fermandosi a fare piegamenti sulle ginocchia, in una sorta di omaggio ai giorni in cui giocava a tennis, era forte e vigoroso. Ha detto alle donne che devono fare un po’ di esercizio, che passano troppo tempo sedute in casa. Cosí oggi le porterà al parco.
Appena arrivano ai grandiosi cancelli del parco, di ferro battuto magnificamente lavorato, e sempre piú arrugginito, papà scende dall’auto e si precipita dentro. Purtroppo c’è una gran folla al parco, la domenica sera, gruppi che fanno un picnic seduti in circolo, o passeggiano tra le aiuole di canne e le fontane senz’acqua. Incontra un sacco di ostacoli sulla sua strada – un ragazzino con un pallone, una madre con un bambino appeso all’orlo del vestito – ed è obbligato ad abbassare la testa, incassare le spalle e andare alla carica senza badarci.
Mamma e Uma cercano di stargli dietro, ma si distraggono facilmente. Si fermano a guardare un cespuglio potato a forma di pavone, un albero di jacaranda in fiore – con i fiorellini di un tenero azzurro sui rami spogli –, oppure devono evitare un cane che si è appena rotolato allegramente nella fanghiglia creata da un tubo d’irrigazione del prato e ora schizza intorno gocce di fango, quindi la loro attenzione è catturata dallo spettacolo di un vecchio grinzoso con indosso un dhoti di mussola cosí sottile da risultare trasparente, totalmente concentrato nei suoi esercizi di yoga, come se fosse solo nel parco in quel giorno festivo. La mamma si tira il sari sulle spalle e con un secco, – Pff, pff, – esprime il suo disgusto davanti a tale esibizione in pubblico.
Quando rialzano gli occhi vedono papà lontanissimo, cammina a grandi falcate come se dovesse arrivare a un appuntamento. Non si ferma a guardare nulla, nessuno. La mamma sbuffa annoiata e dice a Uma che proseguiranno la passeggiata da sole, senza preoccuparsi di raggiungerlo. Con calma, fanno il giro del parco, seguendo un sentiero tra la cancellata e le aiuole fiorite e fingendo di non vedere i venditori di noccioline e di gelati che infilano tra le sbarre la loro mercanzia in cerca di clienti. A Uma viene l’acquolina in bocca al profumo dei ceci abbrustoliti e speziati, ma decide di non dire nulla. Di tanto in tanto intravedono papà: con i calzoncini luminosamente candidi e la sua cupa energia spicca in mezzo a quella folla disordinata, confusa. Allora le ciglia della mamma sbattono in un impercettibile moto di riconoscimento. O anche di ammirazione? Di orgoglio? Come al solito, Uma non è in grado di dirlo.
Nel momento esatto in cui concludono il loro giro, al cancello dove li aspettano la macchina e l’autista arriva anche papà. Magica sincronia. Naturalmente lui ha fatto tre giri nel tempo che loro hanno impiegato a farne uno, ma non intende mostrarsi compiaciuto. – Forza, salite, – dice con impazienza, – mi avete fatto aspettare. Che lumache! Adesso salite, su, sbrigatevi.
– Ma papà, che fretta abbiamo? – dice Uma, arrampicandosi dietro la mamma.
Sulla strada del ritorno papà non smette di dare ordini all’autista: – Gira qui. Prendi questa strada, non quella. Piú veloce adesso… stop! Non vedi l’autobus che hai davanti? Su, adesso puoi andare, piú veloce. Uffa, perché vai cosí adagio, cosí adagio?
– Ma che fretta abbiamo? – chiede di nuovo Uma lamentosamente.
A casa, la mamma si trasforma in uno stanco mucchio di cotone. Con un filo di voce, sussurra: – Hai detto al cuoco di preparare la limonata?
Uma va a occuparsi della limonata e mammapapà si rimettono a sedere sul dondolo, sf...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Digiunare, divorare
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. Glossario
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright