Paradise Sky
eBook - ePub

Paradise Sky

  1. 512 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Deadwood, territorio del South Dakota. Il posto perfetto per reiventarsi una vita. Soprattutto se, come Nat Love, hai alle calcagna un marito in cerca di vendetta e una mira eccezionale. Ma nell'America di fine Ottocento, se sei nero come Nat, gli errori del passato non smettono mai di darti la caccia come segugi assetati di sangue. Tra duelli e sparatorie, cowboy e indiani, Mark Twain e Cormac McCarthy, Paradise Sky è un divertente omaggio al genere e il racconto, in chiaroscuro, di un personaggio eccezionale, capace di incarnare il vero spirito dell'America. Willie è solo un ragazzo, ma è già costretto a lasciarsi tutto alle spalle per sfuggire al proprietario terriero che ha assassinato suo padre. Incontrare Loving gli salva, letteralmente, la vita. L'uomo lo inizia alle sottili arti dello sparare, del cavalcare, del leggere e del giardinaggio. Quando muore, Willie eredita da lui il suo nuovo nome: Nat Love. Soldato e pistolero, Nat sembra destinato alla gloria. Ha tutto quello che un uomo del West può desiderare, compresa la donna dei suoi sogni e il rispetto di leggende come Wild Bill Hickok. Ma il passato torna a tormentarlo. E, soprattutto, Nat è nero, in un periodo in cui agli afroamericani non viene perdonato nulla. Privato della casa, dell'amore e di tutto ciò che aveva conquistato, a Nat Love non resta che mettersi sulle tracce dei suoi persecutori, pronto all'ultimo, mortale duello.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806230364
eBook ISBN
9788858424155

1.

Dunque, nella vita ho ucciso assassini e animali feroci, ho fatto l’amore nella stessa notte e nello stesso carro con quattro donne cinesi, tra cui una che aveva una gamba di legno, il che rende le cose un tantino difficili, in certi casi. Una volta, mentre attraversavo le pianure, ho pure mangiato un tizio morto, non intero, ovviamente, ma sia chiaro che non lo conoscevo tanto bene, mica eravamo parenti, insomma si è trattato solo di un malinteso.
Un’altra cosa che ho fatto è stata vincere una gara di tiro a Deadwood contro avversari di altissimo livello. Erano tutti bianchi tranne me, nero e lucido come l’ossidiana. Sono stati addirittura scritti romanzetti sul mio conto, anche se qualcuno dice che non è vero, che mi sono attribuito il nome di Deadwood Dick, il Cavaliere Oscuro delle pianure, solo per darmi prestigio e che quelle storie non avevano niente a che fare con me. Tutte balle: certo, una grossa parte di ciò che è stato scritto su di me è falso, ma ho intenzione di chiarire tutto dall’inizio alla fine, a tempo debito. Comunque, non è cosí che comincia la mia storia. Sto correndo troppo, rischio di spegnere il fuoco ancor prima di averlo acceso.
Secondo me posso cominciare da qui. Si diceva in giro che se andavi a ovest per unirti ai soldati di colore ti pagavano in dollari veri, tredici al mese, piú vitto e alloggio, e ti davano pure un cavallo. A questo pensavo quando iniziai la mia avventura. Quel pensiero era come un cane steso al sole che non ha nessuna voglia di alzarsi. Ma un giorno, all’improvviso, un fuoco è divampato in quelle ossa di cane. Accadde a causa di quelli che una volta ho sentito definire gli imprevisti della vita, avvenimenti che portano a grandi idee e scelte determinanti. Vedete, sono stato invitato a un linciaggio.
Mica mi chiedevano di tenere la corda o di cantare una canzone. Io ero l’ospite d’onore. Volevano tirarmi il collo, strozzarmi come un pollo per la cena della domenica.
All’epoca non avevo neanche vent’anni. Accadde tutto per caso. Ero andato in città su incarico di mio padre: dovevo prendere della farina e altra roba, una camminata di circa cinque miglia. Non è che avessi tutta questa voglia di portare sacchi di farina, mais e quant’altro per quelle cinque miglia, ma cosí andavano le cose. Avevamo solo un cavallo, e papà lo usava per arare il campo di grano. Quindi mi toccava andarci a piedi.
Il viaggio stava andando benissimo, il sacco sembrava leggero come se fosse vuoto, era una bella giornata, il sole era caldo, gli uccelli cantavano sugli alberi, felici come pasque. Fischiettai per la maggior parte del tragitto, e per fortuna ero solo, visto che non sono mai stato bravo a fischiare. Ma ero lí, era una mattinata splendida, mi sentivo alla grande, anche se sapevo che avrei dovuto avere a che fare con dei bianchi – veterani della Guerra civile, soprattutto. Gente che voleva parlare della guerra tutto il tempo e con chiunque si trovasse a tiro. Che voleva spiegare che se il buon vecchio Robert E. Lee avesse fatto questo invece che quello, noi negri avremmo ancora saputo stare al nostro posto nelle fattorie, e nel caso qualcuno avesse fatto finta di non sapere quale fosse, questo posto, sarebbero bastate un paio di frustate ogni tanto per riportarci sulla retta via, perché il nostro cervello era come quello di un bambino. Secondo loro, se fossimo stati lasciati a noi stessi avremmo vagato senza meta, incapaci di procurarci il cibo o dei vestiti, e avremmo passato il tempo a strusciarci contro il bestiame.
Però quel giorno non ci pensavo troppo, a certe cose. Me la godevo e basta, mentre camminavo, diretto da Wilkes, ai magazzini generali o all’emporio per comprare qualcosina con i pochi soldi che papà aveva ricavato dalla vendita di patate e pomodori dell’anno precedente. Si era attaccato a quei soldi come un corvo a un oggetto che luccica, ma a un certo punto le provviste avevano cominciato a scarseggiare e toccava andare a comprare un po’ di roba che bastasse fino al prossimo raccolto. Mangiavamo quello che ci dava la terra, ed eravamo proprietari: una cosa rarissima, un po’ come scorrazzare sul corso principale con un calesse con le frange mentre i bianchi ci salutavano e facevano il tifo da entrambi i lati della strada.
Fu una donna bianca a ficcarmi nei pasticci. Stavo camminando, il sacco vuoto sulla spalla, e pensavo a quanto odiassi andare nel retro del negozio di Wilkes e restare lí impalato col sacco in mano finché il vecchio Wilkes o suo figlio, Royce, si decidevano a chiedere cosa volessi, per poi provare a vendermi il cibo e la farina piú scadenti al doppio del prezzo. Avrei dovuto sbattermi e supplicare per riuscire a fare un buon affare senza sembrare arrogante o insistente. Questa cosa avrebbe logorato chiunque, giovane o vecchio che fosse. Ma faceva parte dell’addestramento alla sopravvivenza.
Al negozio non ci arrivai mai. Decisi di prendere una scorciatoia, entrai in un vicolo, per poi ritrovarmi in mezzo agli edifici che costituivano la città vera e propria, e passai davanti a un cortile dove una donna bianca stava stendendo il bucato. Quella casa era stata costruita cinque anni prima ai confini della città, ma poi la città era cresciuta e la casa ora si trovava quasi nascosta tra una scuderia e un barbiere. Non che fosse un granché come casa, comunque. Il terreno originario era stato svenduto dopo la guerra, e se foste stati a sentire il proprietario di quel posto, Sam Ruggert, vi sareste convinti che prima della guerra fosse stato un vasto terreno agricolo con rigogliosi frutteti. Falso. Era ricoperto di boscaglia e gramigna, e se Ruggert avesse perso meno tempo nelle stalle con una tanica di alcol di contrabbando, avrebbe potuto far nascere dal quel terreno qualcosa di diverso dalle erbacce. Ma lui non la pensava cosí. Aveva deciso che la guerra lo aveva rovinato, lui e la sua famiglia, e ogni volta che ne parlava, cosa che faceva regolarmente nel negozio verso cui mi stavo dirigendo, diceva che ogni buco delle sue mutande era colpa degli Yankee e dei negri. Secondo la mentalità di Ruggert io appartenevo a entrambe le categorie: una per nascita e una per aspirazione. Si diceva anche che fosse un tipo strambo e sempre arrabbiato, addirittura pericoloso. Le pareti esterne della sua baracca erano rattoppate con pelli di animali, il tetto cedeva da una parte e aveva un telo al posto delle tegole.
Appena passai lí davanti col mio sacco vuoto, girai la testa per guardare quella giovane donna dai capelli rossi e dalle forme generose ma non eccessive, intenta a stendere i panni sul filo, fermandoli con delle mollette. La conoscevo solo di vista. Era la terza moglie di Ruggert: la prima si era ammazzata di lavoro, la seconda era scappata, e questa era la figlia della donna che era scappata. Da dietro sembrava giovane e molto attraente, ma vista davanti, con quel viso stretto e il naso lungo, mi ricordava l’estremità di un’accetta.
Comunque, non era quella l’estremità che stavo guardando, e devo ammettere di aver provato una certa curiosità per il fatto che apparisse molto piú attraente se vista da dietro, ma i miei erano pensieri senza malizia. Avevo solo girato lo sguardo e notato che si stava piegando verso il cesto, spingendo un culo davvero notevole contro la sottoveste sottile. Fu in quel fuggevole e fatidico istante che il marito, il già citato Sam Ruggert, venne fuori dalla porta di servizio e mi vide. Il fatto che io stessi fissando ciò che chiunque sarebbe stato in grado di vedere passando da quelle parti gli fece lo stesso effetto di un animale ferito che gli si fosse arrampicato addosso per poi morirgli in mezzo alle chiappe, inondandolo di fetore.
Stava lí impalato e mi guardava fisso con i suoi occhietti porcini. Indossava solo un paio di pantaloni e gli stivali, il grosso ventre bianco era appoggiato alla cintura come un sacco di patate, e torceva le labbra in mezzo alla barba come fossero due vermi rossi che cercavano di uscire da un groviglio d’erba. Capii subito di essere in trappola. Cominciò a urlarmi contro, a dire che avevo mancato di rispetto a una donna bianca, come se mi fossi intrufolato nel loro cortile e le avessi ficcato un braccio su per il culo. Ma io non avevo fatto altro che ammirare un bel paio di chiappe quando ne avevo avuto la possibilità: niente di piú normale.
A quel punto la moglie si era girata e mi aveva visto, e lo spettacolo della sua faccia aveva spento tutto l’entusiasmo che avevo provato guardandola da dietro. Cominciò a dirmene di tutti i colori, e potete scommetterci che la parola «negro» venne fuori almeno due o tre volte. Ci buttò dentro pure «scimmione», per non farsi mancare nulla, e l’espressione piú gentile uscita dalle loro bocche fu «maledetto muso nero». Non mancarono di menzionare le mie orecchie, che sporgevano dal capo come le porte aperte, anteriori e posteriori, di una baracca.
Insomma, erano lí a strillare e inveire quando a un certo punto Ruggert cominciò a guardarsi intorno, sperando di trovare un’ascia, una zappa o anche solo una pietra da lanciarmi addosso. Non c’era nulla a portata di mano, cosí si precipitò in casa. Sapevo che sarebbe tornato fuori con un fucile. Probabilmente uno di quelli grossi.
Se anche non mi avesse fatto fuori con una pallottola, già immaginavo un’orda di bianchi che ringhiavano con una corda in mano, pronti ad appendermi a un albero o a un cornicione senza troppe chiacchiere e tantomeno un processo. L’avevo visto succedere, una volta. Un vecchio, che tutti chiamavano zio Bob, aveva detto una cosa che era andata di traverso a certi bianchi, una cosa talmente sciocca che nessuno ricorda piú quale fosse. Un attimo dopo zio Bob penzolava da una corda attaccata a un albero, e gli avevano dato fuoco ai pantaloni con un fiammifero. Tutto ciò dopo che una dolce signora di chiesa gli aveva aperto la patta per segargli gli attributi con un coltellino e darli in pasto a un cane.
Avevo dieci anni quando lo vidi succedere. Mia madre era ancora viva, e poiché la guerra era finita e vendere gli schiavi era diventato illegale, era tornata a casa. Anche papà era un uomo libero. Io sono stato uno schiavo solo per pochi anni della mia infanzia, e per fortuna non ho tanti ricordi di quel periodo. Appartenevamo a una persona piuttosto gentile, mettiamola cosí. Cioè, non ci picchiava o roba del genere, ma comunque eravamo proprietà sua. Se fossimo fuggiti saremmo stati braccati da cani e uomini armati. E poi lui aveva venduto mamma, no? Quindi diciamo pure che rispetto a tanti altri non era male, ma che la nostra vita non era comunque una passeggiata.
Mamma poté tornare a casa, e le cose non andavano malaccio, ma non durò a lungo. In poco tempo si ammalò e morí. Però questa cosa di zio Bob successe prima della sua morte. Io e mamma eravamo appena arrivati in città per procurarci qualcosa barattando la poca roba che avevamo e vedemmo il vecchio zio Bob correre come un cane che aveva rubato un prosciutto.
Era seguito da una folla, che a un certo punto gli si buttò addosso. Sembrava di vedere un enorme ammasso di mosche che si avventava su una merda di cane. Mamma provò a mettermi una mano sugli occhi per non farmi vedere cosa stava succedendo, ma un bianco se ne accorse e disse a mamma: «Togligli le mani dagli occhi, guardate bene e imparate qual è il vostro posto». Accadde tutto cosí in fretta che non avrei fatto in tempo a ficcarmi le dita nel naso, prima che fosse finita. Zio Bob fu evirato e impiccato, e gli misero pure in bocca un uccello morto trovato per strada. Non credo ci fosse un motivo simbolico: era solo un gesto meschino come un altro.
Quel giorno era rimasto marchiato a fuoco nella mia mente: ecco perché scappai a gambe levate dopo aver guardato il culo della signora Ruggert. Finii nelle scuderie e rubai un cavallo proprio sotto il naso del ragazzo di colore che lavorava lí, e quello disse: – Oh, merda, ti stai tirando addosso un bel po’ di guai.
In una frazione di secondo non ero piú nei pasticci solo per un equivoco, ma anche per un furto.
Non ebbi il tempo di sellare il cavallo, e non fui neanche troppo fortunato, nella scelta. Quella bestia era vecchia e zoppa. Dunque, piú che schizzare al galoppo fuori dalla città, il mio cavallo si avviò zoppicando, con me in groppa.
Non avevo idea del da farsi, cosí decisi di dirigermi verso casa per spiegare a papà cos’era successo. Dopo circa mezzo miglio mi venne in mente di lasciare il cavallo, sperando che in quel modo mi sarebbe stato perdonato il furto. Vaneggiavo, naturalmente, perché sarei stato ucciso a causa di un equivoco, e non certo per un reato commesso. Anche se il cavallo fosse tornato nella stalla, avesse spiegato la situazione, raccontato con fermezza e onestà gli eventi, spiegando come fossi confuso e spaventato e lo avessi solo preso in prestito, non sarebbe cambiato nulla. Se avesse parlato in mia difesa sarebbe stato impiccato insieme a me, anzi prima lui e poi io, ed entrambi con un uccello stecchito in bocca.
Corsi come un cervo fino a casa, e non ero ancora arrivato quando mi resi conto che presto avrei avuto un sacco di gente alle calcagna. Ero sicuro che ciò che avevo fatto fosse già passato di bocca in bocca, finché la mosca non era diventata un elefante. A quel punto dovevano aver stabilito che non solo avevo molestato la moglie-accetta di Ruggert e rubato un cavallo, ma anche aggredito tutte le donne della città in ogni modo possibile, e dunque offeso la virilità dei bianchi, cosa assolutamente intollerabile.
Per un momento pensai che avrei potuto creare problemi anche a papà con quella storiaccia, ma quando ne ebbi quasi la certezza ormai ero a casa e l’avevo raggiunto nei campi. Si fermò per ascoltarmi, gli spiegai tutto per filo e per segno. Liberammo il vecchio cavallo dall’aratro e lo portammo verso casa. Una volta lí, papà legò il cavallo ed entrammo. Sollevò alcune tavole dal pavimento. Lí sotto c’era un sacchetto e dentro, avvolta in un foglio di carta oleata, c’era una pistola. Era una .44 ad avancarica, spiegò papà, e la capsula a percussione era stata modificata per poter inserire le cartucce.
Quando me la diede quasi mi piegai, tanto era pesante.
– Ti conviene scappare, – mi disse. – Dirò che non ti sei fatto vedere. Non puoi prendere il cavallo che usiamo per l’aratro: se lo facessi correre morirebbe in poche ore. E poi sarebbe una mossa prevedibile, scoprirebbero che sei passato di qui e ti rintraccerebbero in un attimo. Ti conviene attraversare i campi e arrivare al canale, dove ti puoi nascondere tra gli alberi. Continua fino al bosco di pini, poi piega verso ovest e prosegui in quella direzione. Figlio mio, non tornare piú. Quelli ti aspetteranno. I bianchi hanno la memoria lunga anche per le fesserie, se a farle è stato un nero. E quel Ruggert è uno dei peggiori.
Annuii: mi sentivo cosí debole che quasi non riuscivo a reggermi in piedi, e ancora non avevo realizzato in pieno il fatto che stessi andando via per sempre.
– Prendi la pistola, è carica, ma cerca di non usarla. Se ti trovano, tienila con tutte e due le mani e mira al bersaglio grosso. Se ti circondano, conserva un proiettile per te, mira alla tempia e spara, perché se ti mettono le mani addosso è peggio, fidati.
Ero già terrorizzato, e quel consiglio mi mise le ali ai piedi. Intanto papà aveva tirato fuori il suo vecchio orologio da quattro soldi e me lo diede, dicendo che il tempo in certi casi era determinante, dopodiché mi abbracciò. Ficcai l’orologio in tasca, la pistola in un sacco, e in un baleno corsi fuori, attraversai i campi e mi diressi al canale che si trovava alle spalle di casa nostra.
Mentre mi allontanavo sentii mio padre gridare: – Corri, Willie, corri!
Ero un fulmine, arrivai al canale che scorreva in mezzo agli alberi in un batter d’occhio. Inciampai, scivolai lungo un lato e per poco non persi la pistola. Mi rimisi in piedi e ricominciai a correre nell’acqua poco profonda che strisciava sul fondo del canale come un piccolo serpente bagnato. Mi convinsi che se fossi rimasto in acqua avrei potuto seminare i cani e, se ci fossero stati abbastanza sassi sul fondo, avrebbero perso le mie tracce. Quel piano andò rapidamente a farsi fottere appena capii che stavo correndo nel fango e lasciando impronte che persino un cieco col bastone sarebbe stato capace di seguire. E poi un cane non aveva bisogno dell’odore dei miei piedi per mettersi sulle mie tracce. Comunque continuai, e in men che non si dica mi ritrovai nel punto che cercavo: il bosco di pini.
Mi tirai su dal bordo del canale e corsi tra gli alberi. Fu in quel momento che sentii i cavalli che schizzavano acqua dappertutto. Mi avevano raggiunto piú velocemente di quanto avessi sperato. Mi fermai un momento per dare un’occhiata, e sporgendomi dal bordo del canale vidi un cavallo, e sopra di lui Ruggert, che ora indossava una camicia e un vecchio cappello nero. Aveva una pistola nella fondina, sul fianco. Aveva fatto pochissima strada quando un altro uomo sopraggiunse. Non aspettai di sapere quanti fossero, perché erano sicuramente molti piú di me.
Si separarono, aprendosi a ventaglio tra i pini. Cominciai a muovermi con cautela. Mi convinsi che la cosa piú giusta da fare fosse tentare un giro largo, sbucando alle loro spalle prima di immergermi nel torrente. Non avevano cani, ma avevano fatto bene i conti. Sapevano che sarei andato a casa da mio padre, ed era per questo che erano riusciti a raggiungermi cosí velocemente: gli era bastato seguire le mie orme nei campi e nel canale.
Mi inoltrai in mezzo agli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Paradise Sky
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. 33.
  37. 34.
  38. Nota dell’autore.
  39. Il libro
  40. L’autore
  41. Dello stesso autore
  42. Copyright