E dire che ci eravamo preparati con cura, come veri dilettanti carichi di timori: non so quanto avevamo discusso e quante parrocchie periferiche avevamo colpito prima di andare a rubare il vero Gesú Bambino, laggiú a San Pietro.
Di solito l’appuntamento con Rocco e Mariano era alle sei del pomeriggio nei giardini di Villa Paganini, di fianco alla Nomentana. Da qui controlliamo meglio la città, dicevo, ed è piú vicino a casa mia.
Io, uomo d’ansie, arrivavo sempre con venti minuti di anticipo e iniziavo a macerarmi come frutta nel vino. Ripensavo a tutte le ore che avevo trascorso da ragazzino in quel parco, quand’ero l’unico a non ricordare le formazioni di calcio e i nomi dei gelati, già smisuratamente preoccupato, quasi sentissi le ossa allungarsi sotto i pantaloni corti e i pensieri diventare piú grandi della testa.
Piú tardi, su una panchina un po’ defilata, accanto al rudere soffocato dall’edera, avevo dischiuso la bocca al primo bacio e dentro mi era precipitato l’amore, come un aereo in fiamme. È un rito che ho sempre ripetuto qui: il braccio tremante lungo il metallo freddo dello schienale, lungo la schiena calda della ragazza, le dita a muoverle i capelli, lei che si avvicina un poco, la mente che si inclina impaurita e s’avvita giú nel bacio. Un giorno o due e rivolavo solo.
Sulla stessa panchina, di ritorno dalle prime lezioni universitarie, tentavo di mettere ordine negli appunti. La pagina uno del mio blocco a quadretti era scritta in rosso e in blu, impeccabilmente, quindi le righe si allargavano, subentravano fiorellini e maledizioni: infine erano parole sciolte, cucite da passaggi intellettuali impossibili da ricostruire. Io non imparo niente, sospiravo, nelle biblioteche ci sono muraglie cinesi di libri e io non ne ho scalfito mezzo. Allora cominciavo a stendere elenchi di classici greci, latini, francesi, russi, titoli su titoli copiati dai cataloghi, piani quinquennali di recupero, e nella tasca avevo la barca dei Malavoglia incagliata da settimane a pagina trenta.
A volte raccattavo un giornale abbandonato sulla ghiaietta da qualche pensionato e ci perdevo sopra il pomeriggio, stupito da quante cose strabilianti accadessero lontano da quel giardino. Ciò nonostante alla fine sono riuscito a laurearmi e a diventare professore, traversando gli esami come città straniere, con la cartina rovesciata in mano, perdendo e ritrovando la strada cento volte, senza altro desiderio che venirne via salvo, per riparare sotto il soffitto verde e azzurro del mio giardino.
Qui ho fatto anche la mia esperienza politica piú importante. Avrò avuto dodici o tredici anni e insieme a una bambina bionda, un pomeriggio che già faceva buio, trovai per terra un uccellino spiumato, piccolissimo. Tremava di freddo, arrancava nella polvere, ancora incapace di badare a se stesso. Faceva pena, povero passero, spalancava il becco come per chiedere la grazia. La bambina bionda lo prese in mano e come un sasso lo lanciò in aria due o tre volte: come un sasso ricadeva a terra, sbatacchiando le alucce. Chissà dov’era il suo nido, in cima a quale albero, e qual era sua madre tra i tanti uccelli che volavano liberi sopra le nostre teste. Adesso che facciamo, supplicavo, cosa possiamo inventarci per salvarlo, chi andiamo a chiamare? Dovranno venire i pompieri con la sirena e le scale altissime per rimetterlo sul suo ramo, e dov’è che vivono i pompieri? Mi faceva un male cane, quell’uccellino, me lo sentivo crepare in gola secondo dopo secondo. Allora la bambina testa bionda mi prese la mano, strizzò un occhio e a voce bassa mi disse: «Ruggero, andiamo via, facciamo finta di non averlo visto».
Era come se avesse letto il mio pensiero piú misero.
Quel pomeriggio ho capito cos’è lo spirito borghese, e che io nella vita non sarò mai piú cosí: un borghese, praticamente un criminale. Perché io sogno che tutto il mondo partecipi alla felicità, perché anche se le gambe mi si piegano a dirlo io sono un anarchico, perdio, come Bakunin, Cafiero, Malatesta, Bonnot, anarchico come i miei amici anarchici Rocco e Mariano.
Il passero morí dopo mezzo minuto, ma nella lana del mio cappello.
A Ruggero io gliel’ho voluto chiedere di nuovo, per sicurezza: «Ma perché facciamo questa roba qui nelle parrocchie?»
Ha alzato le spalle, ha smozzicato due parole: la religione che opprime, l’infelicità, questo è un gesto simbolico. D’altronde non si capisce niente anche quando fa lezione in classe. Rocco invece se l’è presa a male: «Ne abbiamo parlato cento volte, te l’ho spiegato almeno cento volte. Noi non permettiamo che quel bambino finisca in croce, con le spine in testa, a consacrare tutto il dolore della storia. Noi lo liberiamo dal suo destino e lo mandiamo a giocare con gli altri, quel mocciosetto, è chiaro?»
Ha la voce stridula e la faccia da monaco, le spallucce rotonde, i pantaloni un po’ corti sui sandali e i calzettoni grigi.
Io spero solo che non ci mettano in galera, perché a giugno devo assolutamente arraffare il diploma, ho già perso caterve d’anni: il calcio, il militare, il bar dei vegetali, le risse, le nuvole nere in testa. Tra l’altro questa merda di scuola costa trecentomila lire al mese, ed è ancora mio padre che spende, anche se ho quasi trent’anni e se portassi la barba lunga si vedrebbero i primi peli bianchi. A Ruggero gliel’ho detto: «Ora facciamo gli spiritosi, ma poi quand’è primavera Leopardi e Manzoni me li devi raccontare per filo e per segno, che alla maturità io porto italiano».
Lui dice che non mi devo preoccupare, che mia sorella l’anno passato ha preso il massimo dei voti, non c’è mica problema, italiano è una fesseria, una chiacchierata vaga, paroloni.
Come se io fossi uguale a Sara, come avessi quelle luci negli occhi, quella bocca, quell’intelligenza. Sara leggeva una volta e i concetti ce li aveva stampati per sempre chiari in testa, li recitava con facilità, quasi con disprezzo: io pure se studio venti ore al giorno resto un cavallo e dentro ho le nuvole nere. E comunque non studio nemmeno un minuto alla settimana, a trent’anni non si può piú studiare, in classe chiudo gli occhi dietro agli occhiali da sole e sogno libertà e potenza.
Dopo che Sara mi ha convinto a tentare di concludere le scuole, ho bollato per un mese tutte le cartacce che servivano, ho comprato due penne e un quaderno smilzo e sono strisciato in quello schifo di classe, pensando di trovare in cattedra un cadavere con la Divina Commedia in mano. Invece c’era Ruggero, avvolto in un impermeabile chiaro, con gli occhialetti tondi e l’aria di chi è appena sceso dal treno. Per mezz’ora è rimasto accanto alla finestra a guardare le frasche che si muovevano nel ventaccio, ad ascoltare il vetro che vibrava. Nella piccola gabbia in mezzo al cortile il lupo siberiano girava su se stesso come la lancetta dei secondi. Gli altri studenti, tutti ragazzetti, fumavano o sfogliavano il libro dell’ora seguente, agronomia, estimo, che cazzo ne so.
Poi Ruggero ha aperto il registro e ha fatto l’appello, senza nemmeno badare alle risposte. Quando è arrivato a me, io ho detto presente: lui ha chiuso il registro e ha bisbigliato qualcosa, tornando a guardare il vento fuori dalla finestra. «Non ho mica capito», ho detto, temendo che fosse già una domanda con il voto.
– Mariano, sei il fratello di Sara? – ha ripetuto, appena piú forte.
Ho fatto di sí con la testa e lui si è acceso una sigaretta sottile sparpagliando intorno fiammiferi da cucina. – Adesso Sara dov’è?
Gli ho detto che stava in India, da qualche parte, anche in Messico.
– Ma tornerà?
– A Natale, forse, chi la capisce è bravo, ogni tanto telefona e dice torno la prossima settimana.
Ruggero ha spento la sigaretta sotto il mocassino e mi ha messo nove, a matita.
Li ho incontrati alle sei in punto che battevano i denti nel gelo dei giardini di Villa Paganini e gli ho dato un nuovo appuntamento alle sei e trenta dentro a Santa Emerenziana. È piú prudente che nessuno ci veda arrivare insieme.
– Tanto sotto Natale la gente guarda solo le vetrine, – ha detto Ruggero, e Mariano ha aggiunto: – Se arrivo dieci minuti in ritardo aspettatemi, che mi fermo a comprare un tre etti di pizza, ho una fame da negro.
Gli ho dovuto torcere una di quelle sue orecchie carnose.
Certe volte mi chiedo perché mi porto dietro questi due pesi morti, uno smidollato e un animale vero, persone senza un briciolo di amor proprio e di disciplina. Non gli entra in testa che l’anarchia è autocontrollo, rigore, responsabilità, purezza mentale. Non lo sanno che il dolore nasce solo dall’incuria e dalla debolezza, dal fango in cui pestiamo i piedi con gusto, come ragazzini. Una volta ho cercato di convincerli a digiunare con me tre giorni consecutivi, per smaltire le scorie e ripulire il cervello. Siamo cosí pesanti, ci ingozziamo di vergogne, assecondiamo ogni vizio e la corruzione intacca velocemente i nostri pensieri. Che sono tre giorni: tre pranzi e tre cene, basta dimenticarseli e bere molta acqua. Vedrete come vi sentirete meglio dopo, con piú rispetto verso voi stessi, piú rarefatti, come l’aria pulita sopra la neve delle montagne. Mi hanno promesso sul loro onore che ci avrebbero provato, che cominciavano immediatamente.
A scuola, il giorno dopo, Mariano già si versava in bocca zampate di patatine fritte. «Non ce l’ho fatta Rocco, che ci vuoi fare, ho tentato di resistere, ma mi è venuta fame, di quella brutta». Ruggero dice che ha tenuto duro tutti e tre i giorni, mi ha assicurato di sentirsi leggero, sereno, senz’altro migliore sotto molteplici aspetti, ma sono assolutamente sicuro che ha svuotato il frigorifero di nascosto, di nascosto persino a se stesso.
A scuola, durante la ricreazione, ragazzi e professori accerchiano il mio tavolino di fòrmica, lí nel corridoio, per chiedermi qualche idea sui temi da assegnare o da concludere, piú spesso per dare un’occhiata alle pagine sportive e agli oroscopi dei quotidiani che io compro e leggo da cima a fondo, sottolineando. Loro godono solo con sport e stelle, i piú curiosi si spingono fino alle previsioni del tempo, sperando che ci sia sempre il sole per non fare niente.
È cosí che una mattina ho conosciuto meglio Ruggero e Mariano, segno zodiacale: pesci, come me, stesso anno di nascita, stesso mese, e il resto tutto da verificare. Abbiamo parlato della giustizia e poi di Sara, l’unica particella pura che questa scuola abbia ospitato: quindi del lupo siberiano che ruota penosamente tutto il giorno nella sua gabbia. «Bisognerebbe scardinare la serratura e liberarlo, – aveva protestato il professor Ruggero. – Teoricamente», ha aggiunto. E l’alunno Mariano aveva detto: «A questo mondo o si è liberi o si è morti». E io, bidello di scuola ormai da otto anni e anarchico da sempre, pensai: sí, una di queste notti scavalco il muro e apro la gabbia al lupo, non li posso piú sentire quegli ululati prigionieri.
Ma nemmeno i vicini, evidentemente, li potevano piú sentire. Da una villetta accanto hanno lanciato tra le sbarre una polpetta carogna, e adesso il lupo non c’è piú. Nella sua gabbia ci mette il motorino la segretaria riccia.
Procedo verso Santa Emerenziana in mezzo a una colla di esseri umani stesi nelle vie a sciupare i risparmi. Ogni tanto incrocio un bambino che s’è perduto e urla, ma è un vagito dentro una fabbrica di demolizioni. I vecchi galleggiano come tronchi marci, buttati di qua e di là, ormai lontanissimi da casa e dalla bottega dove volevano comprare un sapone da barba o una penna. Alcuni si tengono per mano, appoggiati al muro, sperando che il Natale passi presto: in fondo anche la guerra è passata. Uomini e donne dai visi appassiti cullano tra le braccia pacchi lucidi e immensi, come profughi trascinano passeggini carichi di ogni bendidio, sudano nel freddo polare che fa. Dalle vetrine dei negozi schizzano fuori musiche assordanti, e dentro giovani commesse impongono, infiocchettano, riscuotono e spingono via. Nelle strade ogni cinquanta metri un Babbo Natale sorride coi denti affilati cercando di farsi fotografare in compagnia di chiunque. Piú avanti ce ne sono due che si rotolano sul marciapiede, strappandosi l’ovatta dalla faccia.
Forse ormai è troppo tardi per poter amare la gente.
Forse ha ragione Rocco, ci vogliono gesti estremi, esemplari, e nessuna indulgenza per nessuno, neppure per i deboli. Ma anche a scuola, io metto unicamente voti alti, forse solo perché temo che qualcuno soffra, o magari che protesti e dica: «Allora me ne parli lei di Carlo quinto, di Ippolito Nievo, delle proposizioni consecutive», scoprendo che senza libro davanti io non ne so un accidente eppure tiro avanti lo stesso.
Quando mi sono presentato a scuola credevo fosse per una supplenza di venti giorni, un mese al massimo. Il gestore mi aveva ricevuto nella segreteria deserta, a ora di pranzo, m’aveva fatto accomodare su uno sgabello senza schienale, accanto a un trespolo dove stava incatenato per la zampetta un pappagallo pieno di colori brasiliani.
– Io amo gli animali, – mi disse, – per questo ho aperto una scuola, in fondo i ragazzi sono animali.
Il pappagallo gorgogliava come un lavandino, poi si sturò e disse: – Carapace, carapace.
– Carapace sono io, – puntualizzò il gestore, e intanto che scrutava le quindici righe sbrodolate del mio curriculum, io scrutavo lui: faccia gonfia e liscia, capelli bisunti, molti sorrisetti sfuggenti, occhi nocciola, malandrini. Sulla scrivania aveva un piatto di plastica dove galleggiav...