Lilít
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Lilít

e altri racconti

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lilít

e altri racconti

Informazioni su questo libro

Questi racconti, scritti dal 1975 al 1981, hanno argomenti e toni diversi. Ho cercato di raggrupparli, e forzando talvolta sui termini ne ho ricavato un primo gruppo che riprende i temi di Se questo è un uomo e La tregua; un secondo che prosegue Le Storie Naturali e Vizio di forma, e un terzo i cui personaggi hanno in certa misura carne e ossa. Spero che ogni racconto adempia decorosamente al suo ufficio, che è solo quello di condensare in poche cartelle, e trasmettere al lettore, un ricordo puntuale, uno stto d'animo, o anche solo una trovata. Ce ne sono di allegri e di tristi, perché i nostri giorni sono allegri e tristi. Non ci sono, che io sappia, nè messaggi, nè profezie fondamentali; se il lettore ce li trova, è bontà sua.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806528867
eBook ISBN
9788858422052

Futuro anteriore

Una stella tranquilla

In un luogo dell’universo molto lontano di qui viveva un tempo una stella tranquilla, che si spostava tranquillamente sul fondo dell’abisso, circondata da uno stuolo di tranquilli pianeti sul conto dei quali non siamo in grado di riferire nulla. Questa stella era molto grande, molto calda e il suo peso era enorme: e qui incominciano le nostre difficoltà di relatori. Abbiamo scritto «molto lontano», «grande», «calda», «enorme»: l’Australia è molto lontana, un elefante è grande e una casa è ancora piú grande, stamattina ho fatto un bagno caldo, l’Everest è enorme. È chiaro che nel nostro lessico qualcosa non funziona.
Se davvero questo racconto deve essere scritto bisognerà avere il coraggio di cancellare tutti gli aggettivi che tendono a suscitare stupore: essi otterrebbero l’effetto opposto, quello di immiserire la narrazione. Per discorrere di stelle il nostro linguaggio è inadeguato e appare risibile, come chi volesse arare con una piuma: è un linguaggio nato con noi, atto a descrivere oggetti grandi e duraturi press’a poco quanto noi; ha le nostre dimensioni, è umano. Non va oltre quanto ci raccontano i nostri sensi: fino a due o trecento anni fa, piccolo era l’acaro della scabbia; non c’era niente di piú piccolo, né, di conseguenza, un aggettivo per descriverlo; grandi, anzi, ugualmente grandi, erano il mare e il cielo; caldo era il fuoco. Solo nel 1700 si è sentito il bisogno di introdurre nel linguaggio quotidiano un termine adatto a contare oggetti «molto» numerosi, e, con poca fantasia, si è coniato il milione; poco piú tardi, con fantasia ancora minore, si è coniato il bilione, senza neppure curarsi di definirne il senso preciso, tanto che il termine ha oggi valori diversi in paesi diversi.
Neppure coi superlativi si va molto lontano: di quante volte una torre altissima è piú alta di una torre alta? Né possiamo sperare soccorso da superlativi mascherati, come «immenso, colossale, straordinario»: per raccontare le cose che vogliamo raccontare qui, questi aggettivi sono disperatamente inetti, perché la stella da cui siamo partiti era dieci volte piú grande del nostro Sole, e il Sole è «molte» volte piú grande e piú pesante della nostra Terra, della quale solo con un violento sforzo dell’immaginazione ci possiamo rappresentare la misura, di tanto essa sopraffà la nostra. C’è sí il linguaggio delle cifre, elegante e snello, l’alfabeto delle potenze del dieci: ma questo non sarebbe un raccontare nel senso in cui questa storia desidera raccontare se stessa, cioè come una favola che ridesti echi, ed in cui ciascuno ravvisi lontani modelli propri e del genere umano.
Questa stella tranquilla non doveva poi essere cosí tranquilla. Forse era troppo grande: nel remoto atto originario in cui tutto è stato creato, le era toccata un’eredità troppo impegnativa. O forse conteneva nel suo cuore uno squilibrio o un’infezione, come accade a qualcuno di noi. È consuetudine fra le stelle bruciare quietamente l’idrogeno di cui son fatte, regalando prodigalmente energia al nulla, fino a ridursi a una dignitosa strettezza ed a finire la loro carriera come modeste nane bianche: invece la stella in questione, quando fu trascorso dalla sua nascita qualche miliardo di anni, e le sue scorte incominciarono a rarefarsi, non si appagò del suo destino e divenne inquieta; lo divenne a tal punto che la sua inquietudine si fece visibile perfino a noi, «molto» lontani, e circoscritti da una vita «molto» breve.
Di questa inquietezza si erano accorti gli astronomi arabi e quelli cinesi. Gli europei no: gli europei di quel tempo, che era un tempo duro, erano talmente convinti che il cielo delle stelle fosse immutabile, fosse anzi il paradigma e il regno dell’immutabilità, che ritenevano ozioso e blasfemo spiarne i mutamenti: non ci potevano essere, non c’erano per definizione. Ma un diligente osservatore arabo, armato soltanto di buoni occhi, di pazienza, di umiltà, e dell’amore di conoscere le opere del suo Dio, si era accorto che questa stella, a cui si era affezionato, non era immutabile. L’aveva tenuta d’occhio per trent’anni, ed aveva notato che la stella oscillava fra la 4a e la 6a delle sei grandezze quali erano state definite molti secoli prima da un greco, che era diligente quanto lui, e che come lui pensava che guardare le stelle fosse una via che porta lontano. L’arabo la sentiva un poco come la sua stella: aveva voluto imporle il suo marchio, e nei suoi appunti l’aveva chiamata Al-Ludra, che nel suo dialetto voleva dire «la capricciosa». Al-Ludra oscillava, ma non regolarmente: non come un pendolo, bensí come uno che sia perplesso fra due scelte. Compieva il suo ciclo ora in un anno, ora in due, ora in cinque, e non sempre, nelle sue attenuazioni, si arrestava alla 6a grandezza, che è l’ultima ancora visibile dall’occhio non aiutato: a volte spariva del tutto. L’arabo paziente contò sette cicli prima di morire: la sua vita era stata lunga, ma una vita d’uomo è sempre pietosamente breve nei confronti di quella di una stella, anche se questa si comporti in modo da suscitare sospetti sulla sua eternità. Dopo la morte dell’arabo, Al-Ludra, benché munita di un nome, non raccolse piú molto interesse intorno a sé, perché le stelle variabili sono tante, e anche perché, a partire dal 1750, si era ridotta ad un puntino appena visibile coi migliori cannocchiali di allora. Ma nel 1950 (e il messaggio ci è giunto solo adesso) la malattia che doveva roderla dall’interno è giunta a una crisi, e qui, per la seconda volta, entra in crisi anche il racconto: ora non sono piú gli aggettivi che falliscono, ma propriamente i fatti. Non sappiamo ancora molto della convulsa morte-resurrezione delle stelle: sappiamo che, non poi cosí di rado, qualcosa si impenna nel meccanismo atomico dei nuclei stellari, e che allora la stella esplode, non piú sulla scala dei milioni o miliardi di anni, ma su quella delle ore e dei minuti; sappiamo che sono questi i piú brutali fra gli eventi che oggi alberga il cielo; ma ne comprendiamo approssimativamente il come, non il perché. Accontentiamoci del come.
L’osservatore che, per sua sventura, si fosse trovato il 19 di ottobre di quell’anno, alle ore 10 dei nostri orologi, su uno dei silenziosi pianeti di Al-Ludra, avrebbe visto, «a vista d’occhio» come suol dirsi, il suo almo sole gonfiare, non un poco ma «molto», e non avrebbe assistito a lungo allo spettacolo. Entro un quarto d’ora sarebbe stato costretto a cercare un inutile riparo contro il calore intollerabile: e questo lo possiamo affermare indipendentemente da qualsiasi ipotesi circa la misura e la forma di questo osservatore, purché fosse costruito, come noi, di molecole e d’atomi; ed entro mezz’ora la sua testimonianza, e quella di tutti i suoi congeneri, sarebbe terminata. Perciò, per concludere questo rendiconto, ci dobbiamo fondare su altre testimonianze, quelle dei nostri strumenti terrestri, a cui l’evento è pervenuto «molto» diluito nel suo intrinseco orrore, oltre che ritardato dal lungo cammino attraverso l’abisso della luce che ce ne ha recato notizia. Dopo un’ora, i mari e i ghiacci (se c’erano) del non piú silenzioso pianeta sono entrati in ebollizione; dopo tre, tutte le sue rocce sono fuse, e le sue montagne sono crollate a valle in forma di lava; dopo dieci, l’intero pianeta era ridotto in vapore, insieme con tutte le opere delicate e sottili che forse la fatica congiunta del caso e delle necessità vi aveva creato attraverso innumerevoli prove ed errori, ed insieme con tutti i poeti ed i sapienti che forse avevano scrutato quel cielo, e si erano domandati a che valessero tante facelle, e non avevano trovato risposta. Quella era la risposta.
Dopo un giorno dei nostri, la superficie della stella aveva raggiunto l’orbita stessa dei suoi pianeti piú lontani, invadendone tutto il cielo, e spandendo in tutte le direzioni, insieme coi rottami della sua tranquillità, un flutto di energia e la notizia modulata della catastrofe.
Ramón Escojido aveva trentaquattro anni ed aveva due figli molto graziosi. Con la moglie aveva un rapporto complesso e teso: lui era peruviano e lei di origine austriaca, lui solitario, modesto e pigro, lei ambiziosa e avida di contatti: ma quali contatti puoi sognare se abiti in un osservatorio a 2900 metri di quota, a un’ora di volo dalla città piú vicina e a quattro chilometri da un villaggio indio, pieno di polvere d’estate e di ghiaccio d’inverno? Judith amava e odiava il marito, a giorni alterni, qualche volta anche nello stesso istante. Odiava la sua sapienza e la sua collezione di conchiglie; amava il padre dei suoi figli, e l’uomo che si ritrovava al mattino sotto le coperte.
Raggiungevano un fragile accordo nelle gite di fine settimana. Era venerdí sera, e si prepararono con gioia chiassosa all’escursione del giorno dopo. Judith e i bambini si occuparono delle provviste; Ramón salí all’osservatorio, a predisporre le lastre fotografiche per la notte. Al mattino si liberò a fatica dei figli che lo coprivano di domande allegre: quanto era lontano il lago? Sarebbe stato ancora gelato? Si era ricordato del canotto di gomma? Entrò nella camera oscura per sviluppare la lastra, la fece asciugare e la introdusse nel blink insieme con la lastra identica che aveva impressionata sette giorni prima. Le esplorò entrambe sotto il microscopio: bene, erano identiche, poteva partire tranquillo. Ma poi ebbe scrupolo e guardò meglio, e si accorse che una novità c’era; non gran che, un puntino appena percettibile, ma sulla lastra vecchia non c’era. Quando capitano queste cose, novantanove volte su cento è un granello di polvere (non si lavora mai abbastanza pulito) o un difetto microscopico dell’emulsione; però sussiste anche la minuscola probabilità che si tratti di una Nova, e bisogna fare rapporto, salvo conferma. Addio gita: avrebbe dovuto ripetere la foto le due notti successive. Cosa avrebbe detto a Judith e ai ragazzi?

I gladiatori

Nicola se ne sarebbe stato a casa molto volentieri, e magari a letto fino alle dieci, ma Stefania non volle sentire ragioni. Alle otto era già al telefono: gli ricordò che era troppo tempo che trovava pretesti, un po’ la pioggia, un po’ che il programma era scadente, un po’ che doveva andare a un comizio, un po’ le sue insulse ragioni umanitarie; e poiché aveva notato nella sua voce un velo di malavoglia, anzi forse solo di malumore, finí col dirgli chiaro e tondo che le promesse si mantengono. Era una ragazza con molte virtú, ma quando si cacciava un’idea in capo non c’era verso. Nicola veramente non ricordava di averle mai fatto una promessa vera e propria: le aveva detto, cosí, vagamente, che un giorno o l’altro allo stadio ci sarebbero andati, ci andavano tutti i colleghi di lui, e anche (ahimè!) le colleghe di lei, tutti i venerdí compilavano le schedine del Totoglad; si era trovato d’accordo con lei che non bisogna appartarsi, darsi delle arie da intellettuali; e poi, che era un’esperienza da farsi, una curiosità che una volta nella vita bisognava togliersi, se no non si sa in che mondo si vive. Ecco, e adesso che si veniva al dunque lui si rendeva conto che tutti quei discorsi li aveva fatti con riserva mentale, e che di vedere i gladiatori proprio non ne aveva nessuna voglia, né mai l’avrebbe avuta. D’altra parte, come dire di no a Stefania? L’avrebbe pagata cara, lo sapeva: con sgarbi, bronci, rifiuti. Forse anche con qualcosa di peggio, c’era in giro quel suo cugino con la barba bionda…
Si vestí, sbarbò, lavò, scese in strada. I viali erano deserti, ma al botteghino di San Secondo c’era già la coda. Lui odiava le code, ma si mise ugualmente in fondo alla fila. Alla parete era appeso il manifesto, coi soliti colori volgari. Erano sei entrate; i nomi dei gladiatori non gli dicevano niente, salvo quello di Turi Lorusso. Non che sapesse molto della sua tecnica; sapeva che era bravo, che lo pagavano un’enormità, che andava a letto con una contessa e forse anche col conte relativo, che faceva molta beneficenza e non pagava le tasse. Mentre attendeva il suo turno, tese l’orecchio ai discorsi dei suoi vicini:
– Per conto mio, dopo i trent’anni non dovrebbero piú permettere… – …si capisce, lo scatto, l’occhio non sono piú quelli di prima, ma in compenso ha un’esperienza dell’arena che… – Ma l’ha visto, lei, nel ’91, contro quel demonio che portava la Mercedes? Quando gli ha tirato il martello da venti metri e l’ha preso in pieno? E si ricorda di quella volta che l’hanno espulso per…?
Prese due biglietti in tribuna: non era il caso di badare al risparmio. Tornò a casa e telefonò a Stefania, sarebbe passato a prenderla alle due.
Alle tre lo stadio era già pieno. La prima entrata era annunciata appunto per le tre, ma alle tre e mezza non si muoveva ancora niente. Vicino a loro sedeva un signore anziano, coi capelli bianchi e il colorito abbronzato. Nicola gli chiese se quel ritardo era normale.
– Si fanno sempre aspettare. È incredibile: prendono subito delle arie da prima donna. Ai miei tempi era diverso, sa. Invece dei paraurti di gommapiuma c’erano i rostri, mica storie. Era difficile farla franca. Riuscivano solo gli assi, quelli che il combattimento ce l’avevano nel sangue: già lei è giovane, e non può ricordare che campioni venivano fuori dalla scuderia di Pinerolo, e meglio ancora da quella di Alpignano. Adesso, cosa crede? Vengono tutti dai riformatori o dalle Carceri Nuove, qualcuno anche dal manicomio criminale: se accettano, gli condonano la pena. Adesso è roba da ridere, hanno la mutua, l’infortunio, le ferie pagate, e dopo cinquanta entrate gli dànno perfino la pensione. Sí, sí: ce n’è che vanno in pensione a quarant’anni.
Si sentí un mormorio sugli spalti, ed entrò il primo. Era molto giovane, ostentava sicurezza ma si vedeva che aveva paura. Subito dopo entrò in pista una 127 rosso fuoco; si udirono i tre rituali colpi di claxon, Nicola sentí la stretta nervosa della mano di Stefania sul suo bicipite, e l’auto puntò sul ragazzo, che attendeva leggermente curvo, teso, a gambe larghe, stringendo convulsamente il martello nel pugno. Di colpo l’auto accelerò, proiettando indietro due getti di sabbia con le ruote motrici. Il ragazzo si scansò e menò il colpo, ma troppo tardi: il martello toccò di striscio la fiancata rigandola leggermente. Il pilota non doveva avere molta fantasia; ci furono diverse altre cariche, singolarmente monotone, poi suonò il gong e l’entrata si concluse con un nulla di fatto.
Il secondo gladiatore (Nicola diede un’occhiata al programma) si chiamava Blitz, ed era tarchiato e glabro. Ci furono varie schermaglie con l’Alfasud che gli era stata sorteggiata come avversario, l’uomo era abbastanza destro e riuscí a tenersi largo per due o tre minuti, poi l’auto lo investí, in 1a marcia ma rudemente, e fu sbalzato a una dozzina di metri. Sanguinava dalla testa, venne il medico, lo dichiarò inabile e i barellieri lo portarono via fra i fischi del pubblico. Il vicino di Nicola era indignato, diceva che quel Blitz, che poi si chiamava Craveri, era un simulatore, che si faceva ferire apposta, che avrebbe fatto meglio a cambiare mestiere, anzi avrebbero dovuto farglielo cambiare d’ufficio, dalla Federazione: togliergli il tesserino e rimetterlo nella lista dei disoccupati.
A proposito del terzo, che di nuovo aveva contro un’utilitaria, una Renault 4, gli fece poi notare che queste erano piú temibili delle auto grandi e pesanti. – Per conto mio, metterei tutte Minimorris: hanno ripresa, sono maneggevoli. Con quei bestioni da 1600 in su non capita mai niente: sono buoni per i forestieri, solo fumo negli occhi –. Alla terza carica, il gladiatore attese l’auto senza muoversi, all’ultimo istante si buttò piatto a terra e la macchina gli passò sopra senza toccarlo. Il pubblico urlò di entusiasmo, molte donne gettarono fiori e borsette nell’arena, una anche una scarpa, ma Nicola apprese che quell’impresa spettacolare non era veramente pericolosa. Si chiamava «la rodolfa» perché l’aveva inventata un gladiatore che si chiamava Rodolfo: era poi diventato famoso, aveva fatto carriera politica e adesso era un pezzo grosso del Coni.
Seguí, come d’abitudine, un intermezzo comico, un duello fra due sollevatori a forca. Erano dello stesso modello e colore, ma uno portava dipinta tutto intorno una fascia rossa e l’altro una fascia verde. Pesanti com’erano, manovravano a fatica, affondando nella sabbia fin quasi al mozzo. Cercarono invano di spingersi indietro, con le forche intrecciate insieme come i cervi quando lottano; poi il verde si disimpegnò, fece una rapida marcia indietro, e percorrendo una curva stretta andò a cozzare col retrotreno contro la fiancata del rosso. Il rosso retrocedette a sua volta, ma poi invertí rapidamente la marcia e riuscí a infilare le forche sotto la pancia del verde. Le forche si sollevarono, il verde oscillò e poi crollò su un lato, mostrando sconciamente il differenziale e la marmitta dello scappamento. Il pubblico rise ed applaudí.
Il quarto gladiatore aveva contro una Peugeot tutta scassata. Il pubblico incominciò subito a gridare «camorra»: infatti, il guidatore aveva la sfacciataggine di accendere addirittura il lampeggiatore prima di sterzare.
La quinta entrata fu uno spettacolo. Il gladiatore aveva grinta, e mirava visibilmente a spaccare non solo il parabrezza, ma anche la testa del pilota, e non ci riuscí per un pelo. Evitò di precisione tre cariche, con grazia indolente, senza neanche alzare il martello; alla quarta balzò in aria come una molla davanti al muso della macchina, ricadde sul cofano, e con due violente martellate sbriciolò il cristallo del parabrezza. Nicola sentí il muggito della folla, su cui si distaccò un breve grido strozzato di Stefania che si era stretta a lui. Il pilota sembrava accecato: invece di frenare accelerò e finí di sbieco contro la barriera di legno, l’auto ribaltò e si coricò su un fianco imprigionando nella sabbia un piede del gladiatore. Questo, pazzo di furia, attraverso il vano del parabrezza continuava a menare martellate contro la testa del pilota, che tentava di uscire dalla portiera rivolta verso l’alto. Lo si vide finalmente uscire, col viso insanguinato, strappare il martello al gladiatore e stringergli il collo con le due mani. Il pubblico urlava una parola che Nicola non capiva, ma il suo vicino era rimasto tranquillo, e gli spiegò che chiedevano al direttore di gara che gli fosse risparmiata la vita, il che infatti avvenne. Entrò rapida in pista una camionetta dell’Autosoccorso Aci, e in un momento l’auto fu rimessa in piedi e rimorchiata via. Il pilota e il gladiatore si strinsero la mano fra gli applausi, e poi si incamminarono verso gli spogliatoi salutando, ma dopo pochi passi il gladiatore vacillò e cadde, non si capí se morto o solo svenuto. Caricarono anche lui sull’autosoccorso.
Mentre entrava nell’arena il grande Lorusso, Nicola si accorse che Stefania si era fatta molto pallida. Provava un vago rancore contro di lei, e gli sarebbe piaciuto restare ancora per fargliela pagare: solo per questo, perché di Lorusso non gli importava proprio niente. Per ragioni di principio avrebbe preferito che fosse Stefania a pregare lui di andare via, ma la conosceva, e sapeva che non si sarebbe mai piegata a farlo; cosí le disse che lui ne aveva abbastanza e se ne andarono. Stefania non stava bene, aveva degli impulsi di vomito, ma alle sue domande rispose ruvidamente che era la salsiccia che aveva mangiato a cena. Rifiutò di prendere un amaro al bar, rifiutò di passare la sera con lui, rifiutò tutti gli argomenti di conversazione che lui le offriva: doveva proprio stare poco bene. Nicola la accompagnò a casa, e si accorse che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lilít
  4. Passato prossimo
  5. Futuro anteriore
  6. Presente indicativo
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright