Cerca di stare calmo
eBook - ePub

Cerca di stare calmo

  1. 232 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Cerca di stare calmo

Informazioni su questo libro

Alby ha poco piú di trent'anni. Quando non beve, passa buona parte del tempo ad attaccare briga, provarci con le donne sbagliate e mettersi nei guai. Il giorno in cui la madre si ammala, la rabbia di Alby sembra travolgere i già labili argini che la contenevano, sommergendo tutto. Semi-alcolizzato, maschilista e rabbioso: Alby è tutto questo, ma è anche uno dei personaggi piú toccanti e vividi della narrativa americana degli ultimi anni. Dietro un comportamento ai limiti della normalità, dietro le risse continue e l'atteggiamento autodistruttivo, si annida in Alby un dolore pulsante. Un'incapacità profonda di stare al mondo, di accettarne la logica. Grazie a uno stile e una voce unici, sporchi e taglienti come una lama usata troppo spesso, Matt Sumell fa sorridere e indignare. E ci consegna un ritratto perfetto, duro ma vibrante, del disagio contemporaneo.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Cerca di stare calmo di Matt Sumell, Matteo Colombo in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806220075
eBook ISBN
9788858422618

Va bene

Qui è la volta che mi feci strada a colpi di American Express dalla California all’Ohio per andare a trovare Gambegrasse dopo che si era tuffata di testa nel mondo rovinando per sempre la vagina di Tara – cosí almeno dice mio fratello, e se non lo sa lui che l’ha vista –, la chiamo Gambegrasse perché aveva le gambe grasse e perché non sono intelligente. Quando me la mise in braccio per la prima volta non potei non stupirmi di quant’era piccola, e rumorosa, poi rimasi schifato quando lui mi raccontò i dettagli del parto sorseggiando dalla bottiglia di Budweiser, io che nella testa mi ricordavo quella cosa intelligente detta da una persona intelligente sul parto: «Siamo nati fra la merda e il piscio»… però in latino! «Sí», dissi tra me e me, e poi «sississississí», mentre le pizzicavo le gambe grasse e le schiacciavo con un dito la pancia e le toccavo il naso per poi ridarla a mio fratello e prendermi una birra, la prima di molte in quel viaggio, perché Gambegrasse era una cosa da festeggiare e perché a quella visita ne seguí un’altra – che è poi la cosa di cui parlo davvero qui –, quattro giorni in missione di ricognizione al numero 3 di Woodlawn Avenue, Long Island, per controllare quant’era peggiorato mio padre.
Tanto.
Rimasi lí impalato a riflettere soprattutto sul tostapane, staccato e pieno di ditate e rovesciato sul ripiano coperto di vecchia posta e briciole, entrambe le fessure chiuse con il nastro adesivo per un motivo o piú d’uno che non riuscivo a capire. Mi arresi per osservare il microonde, la pulsantiera un tempo bianca e ora marrone di dita zozze, la maniglia piú scura di alcune sfumature, con attaccato un appendino in fil di ferro su cui erano esposti cinque o sei cerotti diversi e una cravatta dei Looney Tunes. Una di quelle di Natale, con Bugs Bunny che saltava fuori da un pacco regalo con una carota a strisce tipo bastoncino di zucchero e con in faccia la faccia che viene in faccia a lui prima di chiedere quella cosa che chiede sempre, e io nella mia testa gli rispondo che non lo so cosa succede, perché non lo sapevo. C’erano tipo trentacinque gradi e l’afa, erano passati sette mesi e qualcosa da quando a dicembre c’eravamo ritrovati tutti insieme a casa di mia sorella a mangiare biscottini all’erba e passare con la macchina tre volte nell’autolavaggio finché a papà non era sembrato di avere un infarto. Stavamo andando all’ospedale, ma poi ci fermammo a prendere degli hamburger.
Posai le borse per grattarmi le caviglie che prudevano, con le pulci che ci rimbalzavano sopra tipo ping-pong mentre io guardavo in cagnesco i tre scatoloni delle poste americane sotto il tavolo sul pavimento lercio, il primo pieno di quotidiani e parole crociate, un altro di cavi elettrici e batterie usate, il terzo di bottiglie vuote di Coca light e succo di mirtilli rossi. Mentre mi preoccupavo per la sua uretra, rimasi ipnotizzato dal frigo-congelatore, l’unica cosa apparentemente pulita nei paraggi, da cui erano stati tolti i magneti e le fotografie. Immagino stesse provando a dimenticarci, e immagino io fossi lí come promemoria.
Ma lui era al lavoro ancora per un’oretta, cosí salii le scale a doppia velocità e andai in bagno, dove trovai Steve sullo sciacquone del gabinetto, magro e immobile e concentrato su qualcosa che vedeva solo lui in un angolo, con un collare antipulci ingiallito troppo stretto intorno al collo sottile. Lui era una relativa novità, un animale teoricamente a bassa manutenzione che mio fratello aveva messo in salvo per tenere compagnia a nostro padre e aiutarlo a tirare avanti. Gli feci dei richiami da gatto tipo psssssswssswssssss, ciao Steve, ciao bello, poi allungai una mano per accarezzarlo ma lui si gonfiò tutto e cominciò a soffiare e tirò unghiate all’aria vicino alla mia mano come uno stronzo, cosí gli dissi stronzo e pezzodimerda e cercai di accarezzarlo di nuovo, perché adesso era una questione di principio, era una gara, una gara ad accarezzare il gatto. – Tanto ti accarezzo, stronzo, – dissi. Ma stavolta lui volò giú dallo sciacquone e nella vasca, dove tenne il campo facendomi dei versi acuti e prendendo a pugni l’aria se mi avvicinavo troppo. – Okay, cretinetto, – dissi. E aprii la doccia.
Qualcuno ci crede se dico che non funzionò, che non se ne andò? Perché ve lo sto dicendo: non funzionò e non se ne andò. Indietreggiò un pochino e sbatté molto le palpebre sotto quell’acqua oltraggiosa, e di quel cosino bagnato che mi fissava tutto arrabbiato e gocciolante ebbi paura. Non avevo mai visto un gatto fare niente del genere, e cercai di immaginare cosa esattamente potesse essere capitato a un gatto per farlo comportare cosí. Non lo so, e mi delude l’incapacità del mio cervello a richiamare qualsiasi ricordo se non quello di mio padre che gira a quattro zampe in mutande viola la notte che morí mia madre, mentre con la sua gamba sola e ubriaco fradicio striscia triste e lento verso il bagno.
Quel che il mio cervello riuscí a fare, però, fu rendersi conto di quant’era magro Steve da bagnato, davvero magrissimo, e lo pungolai con la punta dello scopino da gabinetto per farlo spostare all’estremità della vasca, poi mi spogliai ed entrai lí con lui, all’estremità opposta, per rinfrescarmi e pensare, e la prima cosa che pensai fu quanto odiavo la seconda tenda della doccia.
Il motivo per cui ce n’erano due: qualche anno prima, tipo dodici anni prima, era cominciata a filtrare dell’acqua dal soffitto del corridoio di sotto. Mio padre aveva messo una seconda tenda da doccia contro il muro e davanti alla finestra a mo’ di tappabuchi, disse, finché non poteva far cambiare il davanzale di legno marcio e reimpermeabilizzare la vasca. Solo che non lo aveva mai fatto. Si era litigato abbondantemente in proposito finché non aveva accettato di pagare qualcuno per farlo, solo che poi aveva continuato a rimandare non facendosi trovare quando il tizio arrivava.
Il tizio aveva finalmente avuto la sua occasione una domenica, presentandosi a casa inatteso dopo la messa delle dieci alla chiesa di San Giovanni Episcopo, con tutta la famiglia al seguito. Mio padre mi disse che guardando fuori dalla finestra aveva visto tre donne messicane e un tizio non identificato che mangiavano pannocchie mentre quattro bambini saltavano a turno giú dalla veranda lanciando pigne a un quinto. Io ero solo contento che la stessero sistemando, salvo scoprire, la volta dopo che andai a casa, che non era vero. Mio padre non aveva pagato il tizio per impermeabilizzare la vasca e sostituire il davanzale. Lo aveva pagato per montare un controsoffitto sotto quello danneggiato in corridoio, fatto di pannelli di polistirolo e con quella griglia di metallo a scorrimento che si vede negli studi dentistici e nei locali commerciali.
«Cosí se ci sono perdite posso cambiare il polistirolo e basta», ci aveva detto.
La seconda tenda della doccia era un memento di tutto questo, e in automatico anche un memento di tutte le riparazioni che lui aveva mandato a puttane o sabotato; il tavolino d’angolo sorretto da una pallina da tennis su una bottiglia di succo, le pinze bloccanti al posto della manopola dell’acqua calda nel lavello, le barche che abbandonava a coprirsi di foglie e ai lunghi inverni. Ed erano quelle, le barche che trascurava di preparare per l’inverno – tanto che due si erano ricoperte di ghiaccio affondando, e di un’altra si era spezzato il blocco motore – a ferirmi piú di qualsiasi altra cosa. Su quelle barche avevo trascorso i miei anni piú felici, cazzeggiando sul fiume con gli amici o sfrecciando sulla baia liscia e come di vetro alle cinque del mattino per andare a far surf davanti alla Sunken Forest prima che ci arrivasse il vento, e poi scavare nella sabbia coi piedi cercando molluschi da mangiare a pranzo. C’erano le gite a pesca e le gite in campeggio e anche solo sul fiume di notte perché ci andava, noi tutti giovani e abbronzati e in forma a risolvere il mondo bevendo birre rubate nel garage dei genitori e dai cassetti salvafreschezza del frigorifero. Tutto il resto era di là da venire.
E trovandomi lí, nel mezzo di Tutto Il Resto – nudo, morso dalle pulci e orfano di madre nella doccia sporca di una casa sporca e con un gatto fuori di testa che mi guardava storto –, diedi la colpa a lui. O comunque gliela diedi in parte. Qualcosa di tutto quello, ne ero certo, doveva essere colpa sua.
In fin dei conti erano tutte cose che gli appartenevano, e poteva farci quel che gli pareva e piaceva. Ma il punto era proprio quello: non gli piaceva. Era una resa. Dopo la morte della mamma si era semplicemente arreso su quasi tutto. E però nessuna di quelle cose era mai stata mia, perciò che diritto avevo di essere arrabbiato?
Ma lo ero, ed era la seconda tenda della doccia a ricordarmi che lo ero, ed era la seconda tenda della doccia a ricordarmi che quel poco che fossi riuscito a combinare l’avrei pagato caro. Mi ricordava che sarebbe stato difficile.
La scostai per cercare uno shampoo sul davanzale mezzo marcio, presi un flacone di antiforfora e ne spremetti un po’ sulla testa di Steve, che quando lo feci miagolò ma nient’altro, poi mi ci insaponai io e a poco a poco chiusi completamente l’acqua calda finché mi si rimpicciolí l’uccello e Steve cominciò a tremare. Uscii rinfrescato, mi infilai saltellando nei boxer e decisi di asciugarmi fuori, all’aria aperta lontano dalle pulci, e lí trovai e portai nel garage una sedia di plastica non rotta e mi ci sedetti, in mezzo agli scatoloni e alle bici e ai pezzi di barca, a quel motore fuoribordo con una ragnatela al posto del tappo del serbatoio, e ascoltai gli irrigatori del vicino ticchettare i loro semicerchi pomeridiani sul prato mentre aspettavo che di lí a una quarantina di minuti mio padre tornasse dal lavoro. Sulla sua macchina, una Toyota ibrida nuova, c’era già un teschio con due ossa incrociate disegnato a pennarello sul paraurti anteriore e una fascetta di plastica che teneva qualcosa al suo posto. Lui scese e con qualche gemito si raddrizzò, piú piccolo e fragile che mai – la camicia di jeans due taglie piú della sua, i pantaloni troppo larghi con la cintura e pure le bretelle –, reso ancor piú ridicolo dal nuovo toupet giallo e grigio che aveva in testa. Lo abbracciai e gli dissi che mi sembrava in forma, e lui mi disse che gli sembravo di malumore e anche un po’ frocio e mi chiese che ci facevo in garage.
– Hai le pulci in casa, papà. Devi far venire a disinfestare, – gli dissi, indicando la casa con un pollice. Ci fu un piccolo battibecco al riguardo, finí con lui che diceva di averle appena bombardate di nuovo.
– Con cosa?
– Con uno di quei nebulizzatori per le pulci, – disse.
Cercai di spiegargli che non funzionavano, ovviamente, e che se ne accendeva uno poi dovevamo andarcene per tipo cinque ore. Non capiva di che stessi parlando.
– Perché è veleno, papà, – dissi. – Quella roba non la puoi respirare –. Il mio sguardo gli corse a zigzag sul corpo mentre aspettavo una risposta che non arrivò, fermandosi infine su una macchiolina di sugo sulla maglietta. Poi capii. – L’hai fatto. La stai respirando.
– Non fa niente, – disse lui. – Sulla bomboletta dice che non fa niente –. Poi scosse la testa e si incamminò verso la casa, con un passo piú barcollante di quel che ricordavo, si fermò a metà cortile e si voltò. – Di gente in casa non ne voglio.
– E perché no? – dissi.
– Perché altrimenti mi tocca pulire.
– Pulisco io, – dissi. – Problema risolto.
– Qui non ci entra nessuno! – strillò lui, partendo poi deciso verso la porta sul retro e urlandomi di lasciarlo in pace e di lasciarlo morire, anche, tattica che conoscevo fin dalle medie, quando io e mio fratello andavamo con lui al fast food il mercoledí sera e lo ascoltavamo dire cattiverie su quant’era cattiva nostra madre. Adesso, però, la sua vita mi sembrava cosí deprimente che cominciavo a credere volesse morire davvero, perché io probabilmente avrei voluto, e allora lo raggiunsi in cucina e gli chiesi se gli antidepressivi li prendeva ancora. No, mi disse, perché gli davano stanchezza.
– Lo sai, vero, che da morti è come essere superstanchissimi per l’eternità?
– Da morti è come essere lasciati in pace per l’eternità, – disse.
– Sí, certo. Ma io sono tuo figlio e ti voglio bene e non ti ci lascio in pace, e se non chiami un cazzo di disinfestatore ti tengo attaccato alle macchine per dieci anni invitando gente a casa tutti i giorni. Amici, nemici, pure il cazzo di postino invito. Metto un cartello al supermercato con scritto: «Ciao, venite tutti da noi». E quando vengono tutti da noi lo sai cosa vedono? Vedono una casa pulitissima e un altro cartello con su scritto «Coglione», e una cazzo di freccia che punta dritto sulla tua faccia, e accanto ci appendo la foto vera di un tuo coglione, perché mentre sei in coma posso farla, e tutti insieme giochiamo a Trova le differenze, solo che non vince mai nessuno perché di differenze non ce ne sono, coglione.
– Di estranei qui non ce ne voglio!
– Me ne sono accorto, – dissi, e lo guardai pescare nelle tasche e buttare centesimi in un contenitore della margarina pieno di monete e vecchie chiavi, vecchie chiavi che mi disturbarono in un modo che fatico a spiegare. Non allora ma settimane dopo ne avrei parlato a mia sorella, chiedendomi ad alta voce se partendo da quelle fosse possibile ricostruire le relative serrature, e Jackie mi avrebbe detto non lo so, ma una versione della stessa cosa può essere l’arte; la costruzione meticolosa di meccanismi altamente complessi destinati a chiavi del nostro passato altrimenti inutili.
– Senti, – dissi, – ti chiedo scusa. Non sono cose belle da dire. Mi sto sforzando davvero tanto di essere gentile e darti una mano, e ancor di piú mi sto sforzando di non staccarti la testa a pugni, ma è difficile perché sono quasi certo che le due cose coincidano, imbecille.
– Sí sí sí, – disse lui, l’attacco del suo monologo da vittima. – Non ne faccio mai una giusta, è sempre tutto colpa mia…
– Sí! Sí che lo è. Questo casino è opera tua. Sei tu che l’hai fatto. E adesso hai una nipote. Secondo te AJ vorrà mai portare Gambegrasse a trovarti? No che non vorrà. Perché qui dentro fa schifo ed è infestato di pulci perché hai messo un cazzo di collare antipulci a Steve e quelli non li usa piú nessuno dal 1987, per cui sono praticamente sicuro che adesso sia ritardato. Ha il cervello rotto, come te. Devi prendere il Frontline o l’Advantage o roba simile.
Mi piazzò il dito medio davanti alla faccia e ce lo lasciò, dicendo intanto: – Dove si compra?
Gli piazzai il dito medio davanti alla faccia e ce lo lasciai, dicendo intanto: – Al negozio di animali.
– Va bene. Andiamo in un negozio di animali.
– Perfetto. Andiamo in un negozio di animali.
– Perfetto.
– Perfetto.
E abbassammo i rispettivi medi e andammo in un negozio di animali ma non fu bello, tutta l’andata e il ritorno a discutere se il country fosse o meno una musica da bianchi con problemi di patriottismo, interrompendoci solo una volta e brevemente per osservare un curioso pezzo di animale investito in mezzo alla Montauk Highway. Il corpo dell’uccello – suppongo un corvo – non era lí, ma probabilmente sulla griglia del radiatore di un’auto parcheggiata nel vialetto di una casa, oppure era stato trascinato via da un procione o da un opossum o da qualche altro animale urbano mangiacarcasse, in ogni caso non c’era piú. Un’ala, non rimaneva altro, strappata dal corpo al momento dell’impatto e finita roteando sull’asfalto, a cui era rimasta incollata da un qualche tessuto bianco-giallastro. Ogni macchina in direzione est la faceva sbattere in avanti, e ogni macchina in direzione ovest all’indietro – avanti e indietro e avanti e indietro – e quando allungai il collo per guardarla mi sembrò quasi viva, come se tentasse di alzarsi in volo. O salutasse tipo foca ammaestrata.
Mio padre ha perso la gamba in un incidente motociclistico a Charleston, in South Carolina, quando aveva diciannove anni. Era la parola che usava lui, perso, come se fosse una cosa che si poteva trovare e recuperare. Da piccolo mi piaceva immaginare la sua gamba separata dal corpo su una spiaggia, con le dita dei piedi che si muovevano nella schiuma sabbiosa. Arrivai perfino a scriverle qualche lettera ogni tanto, le solite cose, aggiornamenti sulla famiglia e trionfi infantili – ho battuto il doppio che ci ha fatto vincere la partita; ho tirato un pugno in faccia a Brian Kalinski nel cambio d’ora e mi hanno sospeso; ho fatto un ditalino a Marisa Weber fra i cespugli di Bay Road – che poi infilavo in una busta indirizzata a «GAMBA, Charleston, South Carolina», col francobollo giusto ma senza mittente. Erano passati quindici anni, forse di piú, ma lí in macchina accarezzai l’idea di scriverle di nuovo per salutarla.
Tornato a casa mi misi a cercare Steve, ma trovai solo altro casino. Andai da mio padre per sapere se l’aveva visto e gli chiesi invece di un paralume strappato appoggiato su un ventilatore da soffitto senza pale appoggiato su un puzzle lasciato a metà appoggiato su una sedia rotta in sala da pranzo. – Lasci...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Cerca di stare calmo
  3. Pugni a Jackie
  4. Piccole cose
  5. Se p, allora q
  6. Stupro nel regno animale
  7. Tutto è importantissimo
  8. Mangia il latte
  9. Il giro dell’isolato, due volte
  10. Guerriero americano 2
  11. Supermercati
  12. Cerca di stare calmo
  13. Giri di consegne
  14. Area di sosta
  15. Pazienze alla prova
  16. Pane tostato
  17. Sempre in orizzontale
  18. Sono l’uomo giusto
  19. Eredità
  20. La fredda strada verso casa
  21. Va bene
  22. Insetti
  23. Ringraziamenti
  24. Il libro
  25. L’autore
  26. Copyright