Nel porto c’erano le quattro barche. Le barche prendevano il nome da una nazione, una strada, un’emozione e una ragazza. Lei le vide per la prima volta al tramonto. Splendide erano, e tranquille, barche bianche ben distanziate, coccolavano il porto. Sull’altra sponda una montagna. Lilla in quel momento. Sembrava fatta di un materiale pieghevole tanto era inconsistente. Fra le barche e la montagna un faro, su un’isola.
Qualcuno disse che il faro non aveva piú niente della bellezza di un tempo, quand’era abitato dalla guardia costiera e andava a gas. Adesso era automatico e molto piú luminoso. Fra loro e il mare c’erano quattro campi coltivati ad alberi di fico. Aridi campi gialli che sembravano esalare polvere. Niente erba. Lei guardò di nuovo le quattro barche, i campi, gli alberi di fico, il mare soave; guardò la casa alle sue spalle e pensò: «Può essere mia, mia», e il cuore fece una piccola capriola. Lui capí il suo turbamento e sorrise. La casa esercitava una specie di incantesimo su chiunque la frequentasse. La prese per mano e le fece salire la scala principale. Una scala di pietra con il corrimano malfermo. La parte inferiore di ogni gradino era azzurro sgargiante. – Ferma, – le disse dove diventava buio quasi in cima, e prima di accendere la luce.
Un domestico le aveva disfatto i bagagli. Nella stanza c’erano i fiori. Odoravano di caramella. Nel bagno una grande urna di vetro piena di borotalco. Lei si accostò al bordo e annusò. La fece starnutire tre volte. Ovaie di sapone viola scuro estratte dall’involucro di carta, per vari minuti ne tenne una per mano. Sí. Aveva fatto bene ad andare. Non c’era bisogno di aver paura; lui aveva bisogno di lei, la sua espressione e le loro mani strette lo confermavano.
Si accomodarono in terrazza a prendere un aperitivo preparato da lui. Era fatto con rum e limone e si rivelò fortissimo. Uno degli ospiti disse che l’angolazione della luce sulla montagna era all’apice dello sfarzo. Lui si portò le dita alle labbra e mandò un bacio alla montagna. Lei contò le cime, tredici in tutto, con un altipiano fra le prime quattro e le ultime nove.
Le cime sfioravano il cielo. Piú giú sulla parete rocciosa risaltavano varie sporgenze che tracciavano ombre sulle sporgenze vicine. Le dissero come si chiamava la montagna. Nello stesso istante le arrivò all’orecchio la domanda rivolta a una donna giovane: – Le interessa Maria Stuarda? – La donna, che aveva la pelle di una radiosità ammaliante, rispose di sí con troppa prontezza. Era possibile che tanta radiosità le venisse da una costante fornitura di sperma maschile. L’uomo aveva la fronte alta e pallida e un aspetto mortuario.
Bevvero. Fumarono. Tutti e dodici i fumatori buttavano i mozziconi sulle tegole del tetto inclinato verso gli annessi della fattoria. Cominciarono i lampi estivi. Erano sporadici, silenziosi e vagamente teatrali. Sembravano concepiti per il loro divertimento. Illuminavano una parte del cielo, poi un’altra. C’era anche uno svolazzare di pipistrelli e quelle sagome scure unite alle fuggevoli scariche sporadiche dei lampi estivi erano una distrazione e una cosa verso cui puntare il dito. – Se avessi un cavallo lo chiamerei Lampo Estivo, – disse una delle femmine, e il maschio che le stava accanto disse: – Che bello –. Lei sapeva che avrebbe dovuto parlare. Voleva parlare. Per il bene di lui e per il proprio. La sua mente aveva un piccolo guizzo, s’immobilizzava e aveva un altro guizzo; le parole lottavano per liberarsi, per dire qualcosa, una cosetta simpatica che la rendesse parte di loro. Solo che aveva la lingua legata. Loro dovevano conoscere chi l’aveva preceduta. Dovevano fare paragoni particolareggiati: l’aspetto, l’accento, il modo in cui lui la trattava. Dovevano sapere meglio di lei quanto gli fosse cara, se era una cosa seria o una breve parentesi. Avevano letto tutti nella cronaca rosa come si erano incontrati, che lui era andato a fare una radiografia e l’aveva conosciuta lí, la radiografa vestita di bianco, confinata in una stanza buia con i negativi di polmoni e apparati respiratori.
– Dovrai prendere lezioni di nuoto, dico bene? – chiese uno dei maschi, scegliendo il momento in cui si era appoggiata allo schienale a fissare un grande pino.
– Sí, – disse lei, rammaricata che gliel’avessero detto.
– Non ci vuole niente: entri e nuoti, – disse lui.
Erano tutti cosí sorpresi, sorpresi e divertiti. Le chiesero dove avesse vissuto e se fosse proprio vero.
– Non riesco a immaginare uno che non nuota da piccolo.
– Non riesco a immaginare uno che non nuota, punto e basta.
– Che ci vuole, basta che colpisci, colpisci.
Il sole filtrato dagli aghi verdi calò e si mise a giocare su un folto grappolo di nocciole marrone. Loro non ridicolizzano mai la natura, pensò lei, non si azzardano mai. Lui le si portò dietro e le batté la mano sulla pallida spalla nuda. Uno che non aveva la macchina fotografica finse di scattare una foto. Quanto sarebbe durata? Questa la domanda che doveva dominare i loro pensieri.
– Domani ti portiamo in barca, – disse lui. Evviva. Si prodigarono, si sperticarono tutti per descriverle il cabinato. Facevano a gara. In realtà era con lui che parlavano. Lei pensò: «Dovrei essere onesta, dire che non mi piace il mare, dire che sono una di terra, che mi piacciono la pioggia e le rose in un prato, la pioggerella sottile che offusca le rose e la vegetazione, che per me il mare è scuro come le valve delle cozze, e significa catastrofe». Ma non poteva.
– Dev’essere meraviglioso, – ecco cosa disse.
– È davvero qualcosa di spettacolare, – disse lui timidamente.
A cena lei sedette a un capo del tavolo a forma d’uovo e lui all’altro. Sei candele bianche nei portacandele di vetro a separarli. La segretaria aveva assegnato i posti. Una cicciona alla destra di lui aveva tantissimi braccialetti d’argento ed era velata di crespo. Cominciarono con una vellutata fredda. Era guarnita con cose tagliate cosí sottili che le riconoscevi soltanto dal sapore. Lei si sfilò le scarpe. Uno che stava raccontando del suo viaggio in India si dilungò per un tempo spropositato su quanto si mangiava male. Era andato per vedere i templi. Un altro, che faceva di tutto per tenere alto l’umore, rivolse la domanda all’intera tavolata: – In quale porto del Mediterraneo è meglio attraccare? – Ognuno aveva il suo preferito. Alcuni scelsero porti dov’erano successe cose emozionanti, altri scelsero porti che ammaliavano chiunque si avvicinasse, confrontando, tanto per sapere, le tasse portuali; quello che aveva sollevato la domanda li divertí raccontando che una volta era andato in crociera con la figlia e quand’erano arrivati a Venezia non era riuscito a sbarcare tanto era ubriaco. A lei toccò ammettere che non conosceva nemmeno un porto. Una confessione che li commosse.
– Li proveremo tutti, – disse lui dall’altro capo del tavolo, – e terremo un diario di bordo –. I commensali spostarono lo sguardo da lui a lei con un sorriso smaliziato.
Quella notte dietro le persiane chiuse inscenarono il loro rito. Erano tutti e due impazienti di arrivarci. Molto prima che venisse servito il caffè si erano allontanati da tavola e avevano trovato il modo di restare soli, scegliendo il sedile di pietra che cingeva il grande pino. Il sedile era tutto macchiato dalla gomma trasparente dell’albero. Le nocciole dondolavano accostate con un rumore sordo di nacchere. Rimasero quel tanto prescritto dalla buona educazione, poi si ritirarono. A letto lei si sentí di nuovo al sicuro, unita a lui non solo dalla passione e dal piacere ma anche da un coinvolgimento piú radicale. Non sapeva dare un nome a quell’emozione sconcertante che era piú dell’amore, o forse meno, che non era semplicemente sessuale, anche se il sesso era imprescindibile e la teneva unita come i fili di ferro tengono insieme un vaso rotto. Nessuno dei due era nuovo alle rotture e perciò amavano con cauta superstizione.
– Che cosa mi fai, – disse lui. – Come mi conosci, tutte le mie vibrazioni.
– Mi sa che siamo legati nell’intimo, – disse lei sottovoce. Pensava spesso che lui la odiasse perché lo coinvolgeva in qualcosa di troppo tenero. Adesso però non la stava odiando.
Alla fine le toccò tornare in camera sua, perché lui aveva promesso di alzarsi presto per andare a pescare insieme ai maschi con la fiocina.
Mentre lo salutava con un bacio si intravide sulla superficie cromata del thermos per il caffè poggiato sul comodino, e a fissarla di rimando vide due occhi che emanavano soddisfazione, disappunto e panico. Ogni volta che lo lasciava si aspettava di non vederlo mai piú; ogni separazione prometteva di essere l’ultima.
I maschi andarono via poco dopo le sei; lei sentí gli sportelli delle auto perché non aveva chiuso occhio.
La mattina prese la prima lezione di nuoto. Avevano deciso che si sarebbe tenuta mentre gli altri facevano colazione. Avevano portato l’istruttore dall’Inghilterra. Lei gli chiese se aveva dormito bene. Dove, non glielo chiese. I domestici sparivano di casa la sera tardi e si avviavano verso l’agglomerato di edifici col tetto basso. Il cane andava con loro. L’istruttore le disse di girarsi al contrario e scendere la scaletta di metallo. C’era uno svolazzare di vespe e lei pensò che se l’avessero punta avrebbe evitato la lezione. Nessuna vespa si prestò.
I bambini avevano già usato la piscina lasciandoci dentro giocattoli di plastica: un salvagente giallo che si allungava disegnando il collo e la testa di una papera. La papera aveva un’espressione disgustata. C’erano anche un delfino azzurro con sopra dipinto un nome e corazzate di vario genere. Erano i figli degli ospiti. I piú grandicelli, tutti maschi, ignoravano gli adulti in blocco e si aggiravano, rumorosi e invadenti, approfittando di tutto quanto avevano a disposizione: la sera guardavano pazientemente le lucertole per ore, con la canicola del giorno restavano in acqua, la mattina presto raccoglievano mandorle ricevendo da lui una commissione sul lavoro. Sul fondo della piscina era appostata una pinna nera. Lei la occhieggiò toccandola con la punta del piede. Furono gli ultimi istanti di autonomia, gli istanti prima che cominciasse la lezione.
L’istruttore le disse di sedersi, di sedersi dentro come se fosse nella vasca da bagno. Lui si accovacciò e piano piano si accovacciò anche lei. – Ora si turi il naso e metta la testa sott’acqua, – le disse. Lei calcò bene la cuffia sopra le orecchie e la fronte per proteggere la pettinatura e stringendo troppo forte il naso andò sott’acqua. – La sente? – disse lui tutto entusiasta. – La sente l’acqua che la sostiene? – Lei non la sentiva. Sentiva l’acqua travolgerla. Lui le disse di togliersi l’acqua dagli occhi. Era la gentilezza in persona. Poi si immerse, fece qualche bracciata e si alzò in piedi, scuotendo i capelli grigi. Le prese le mani e arretrò finché non ebbero tutti e due le braccia tese. Le chiese di stendersi a pancia sotto e di affidarsi a lui. Promise di non lasciarle le mani. Ogni volta, sul punto di dargli retta, lei si bloccava: prima il corpo e poi la mente si rifiutavano. Sentiva che se avesse staccato i piedi da terra sarebbe successo l’indicibile. «Di che cosa ho paura?» si chiese. «Della morte», si disse, eppure non era cosí. Le sembrava che dovesse succederle qualcosa di terribile prima di morire per davvero. Forse perché si sarebbe dibattuta per non annegare, pensò.
Quando riuscí a stendersi per un solo disperato minuto, lui esultò di gioia. Ma per quanto la riguardava quella prima lezione era stata un disastro. Tornando verso casa capí che era stato un errore lasciare che portassero un istruttore. Creava troppe aspettative. Le imponeva di riuscirci. Gli altri si sarebbero interessati ai suoi progressi, non perché ci tenessero ma perché, al pari dei lampi estivi o del passaggio degli yacht, era un argomento di conversazione. Ma non potevano spedire l’istruttore a casa. Era anziano e non era mai stato all’estero. Era già stregato dal paesaggio. Le toccava continuare. Tornando alla terrazza le parve di camminare nel vuoto, sentí il terreno mancarle sotto i piedi; aveva l’impressione di barcollare e le ginocchia tremavano in modo incontrollabile.
Sedendosi per fare colazione scoprí che qualcuno le aveva sbucciato un piattino di mandorle. Erano dolci e fresche, evocavano la dolcezza e la freschezza di una mattinata in campagna. Sapevano di nocciole. Lo disse. Nessuno concordò. Nessuno dissentí. Stavano leggendo il giornale. Ogni tanto qualcuno leggeva un pezzo a voce alta, pezzi divertenti su qualche loro conoscente che aveva commesso una scempiaggine degna di finire sui giornali. I bambini leggevano il termometro e discutevano sul filo d’ombra della meridiana. La temperatura sfiorava già i trenta gradi. Le donne stavano progettando di andare in motoscafo per abbronzarsi a torso nudo. Lei rifiutò. Lui la chiamò nella serra e le chiese se poteva dedicare un po’ del suo tempo all’organizzazione dei pasti perché la segretaria aveva tantissimo da fare.
Le foglie della passiflora si distendevano sul tetto come cavi di salvataggio di spago verde. Ogni foglia simile alle cinque dita di una mano. Foglie gialle e verdi nella stessa mano. Niente fiori. I fiori dopo. Fiori che avrebbero vissuto un giorno. Almeno a sentire il giardiniere. Lei disse: – Mi auguro che saremo qui per vederli. – Se vorrai, ci saremo, – disse lui, ma se gli fosse preso l’estro se ne sarebbe andato. Non sapeva nemmeno lui quello che era capace di fare. Nessuno lo sapeva.
Vedendola entrare nella grande cucina, la servitú per prima cosa sorrise. Donne vestite di nero, le scarpe con la para morbida, tutte sorridenti, non un briciolo di complicità in uno solo di quei sorrisi. Si era portata dietro un frasario, un quaderno e un libro inglese di ricette. La cucina sembrava un laboratorio: diversi macchinari bianchi accostati alle pareti, frigoriferi che pigolavano a varie velocità, una cappa sopra ogni cucina elettrica, le luci verdi e rosse sulle manopole vagamente minacciose, come se stessero per far partire un allarme. Sul tavolo c’era un pesce enorme. L’avevano preso i maschi quella mattina con la fiocina. Aveva la bocca aperta; gli occhi cosí ravvicinati da diventare quasi uno solo; il labbro inferiore penosamente pendulo. Le pinne erano nere e arruffate dall’olio. Lo guardarono tutte, lei e le sette o otto volenterose dalle quali doveva farsi capire. Quando si sedette a copiare la ricetta dal libro inglese e a tradurla nella loro lingua, loro accesero un’altra cappa. Stavano già tagliuzzando per la cena. Tre ragazze tagliuzzavano cipolle, pomodori e peperoni. Sembravano trarre piacere dal loro compito; sembravano sorridere ai cumuli di verdure che tagliuzzavano con tanta diligenza.
C’erano otto cestini da picnic da portare in barca. E una quantità di asciugamani. I bambini vollero a tutti i costi portare gli asciugamani. Lui aveva la borsa con la zip dove c’erano le bottiglie di vino. La agitò facendo sbatacchiare le bottiglie nel letto di ghiaccio. Gli ospiti sorrisero. Aveva la capacità di trasmettere il suo stato d’animo agli altri senza dire né fare granché. Aveva anche la capacità opposta di escludere gli altri. Due cose che affascinavano. Attraversarono i quattro campi che portavano al mare. I fichi erano duri e verdi. Il sole le giocava come una fiamma ossidrica sul collo e la schiena. Lui le disse che avrebbe fatto meglio a cospargersi di olio solare. Suonò stranamente ostile detto cosí a voce alta, davanti a tutti. Avvicinandosi all’acqua lei sentí il cuore prendere la fuga. L’acqua era tutto uno scintillio. Alcuni andarono a nuoto, altri salirono sulla barca a remi. Strusciando la mano sulla superficie increspata lei pensò: «Non è dei crampi, delle meduse o dei cocci di vetro che ho paura, ma di qualcos’altro». Calarono una scaletta sul lato della barca per far salire i nuotatori. Entrando bisognava togliersi i sandali. Il pavimento era di legno chiaro e rovente. I nuotatori dovettero farsi controllare i piedi nel caso ci fossero tracce di catrame. Il marinaio stava lí con un batuffolo di cotone impregnato nella trementina pronto a cancellarle. I maschi si misero all’opera: uno aiutò ad avviare il motore, un paio montarono i tendoni, altri portarono fuori grossi cuscini a strisce spargendoli sotto i tendoni. Due bambini rifiutarono di salire a bordo.
– Mi piace picchiare il mio fratellino sott’acqua, – disse un bimbetto, la voce minacciosa e melodiosa a un tempo.
Lei sorrise e scese i gradini che portavano a una cucina e alla zona notte con quattro posti letto. Lui la seguí. Poi la guardò, fece un respiro profondo e un mormorio.
– Tiralo fuori, – disse lei, – lo voglio adesso, subito –. Timorosa e pazza di desiderio. A lui piaceva da morire. Gli piaceva da morire quel tono imperioso. Chiuse la porta e lei lo guardò annaspare per abbassarsi i calzoncini, incapace di slegare il cordino. Adesso era lui quello goffo. Come barcollava. Lei aspettò per un momento straziante e fece aspettare lui. Poi si inginocchiò e quando cominciò lo sentí borbottare tra i denti serrati. Lui, che sapeva domare gli animali, in quello era indifeso. Lei ce la mise tutta e succhiò, succhiò, succhiò con tutta la fame che aveva e tutta la fame simulata che le piaceva fargli credere di avere. Minacciava di mutilarlo ma si limitava sempre soltanto a graffiarlo col bordo dei bei denti squadrati. Non s’intromise nessuno. Bastò qualche minuto. Lei attese un intervallo decente prima di seguirlo. Aveva sete. Sul davanzale c’erano libri tascabili e boccette di olio solare. E anche un paio di calzoncini di ricambio con sopra stampati i nomi di tutte le possibili cose al mondo: nomi di bevande e di capitali e le bandiere di ogni nazione. Il mare visto dall’oblò era un globulo di azzurro piccolo e innocuo.
Lasciarono il porto allontanandosi dalle altre tre barche e dalla macchia di pini. Ben presto ci furono soltanto mare e scogli, nessuna insenatura sprofondata tra le canne, nessuna cittadina. Chilometri e chilometri di allucinante mare. La follia dei marinai la contagiò, l’illusione che fosse terraferma e si potesse attraversare. Terraferma che non portava da nessuna parte. Gli scogli si erano ridotti a qualunque forma l’occhio e la mente fossero in grado di ab...