È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura. Forse amare non è la parola giusta, perché nelle mie condizioni è difficile provare un sentimento verso qualcosa fuori, e poi perché le mie condizioni già non mi permettono di vedere piú bene, e dunque non posso dire con certezza che cosa amo, se i quadri che vado a cercare nei musei, o questo stesso andare e cercare, fin quando la vista non calerà del tutto. Rendetevi conto, non c’è alcun motivo per diventare ciechi alla mia età , del resto non c’è alcun motivo per diventare ciechi in assoluto. Potevo scegliere di trattenere come ultime immagini quelle dei luoghi che non ho mai visto, certe foreste dell’Amazzonia dove la vegetazione è cosà folta e fitta da creare un’oscurità appena di qualche grado inferiore al buio nel quale entrerò, certe cascate nel cuore dell’Africa, il cui bianco abbagliante avrebbe forse ritardato quell’ingresso, certe trasparenze di acque coralline, nelle quali, se fosse accaduto lÃ, se fossi entrato là nella definitiva cecità forse il trapasso sarebbe stato piú lieve e dolce. Solo che la prima a cadere è stata proprio la visione da lontano, sfocata velocemente in una specie di marginatura indefinita, poi un’opacità indistinta e chiara. Questa opacità io la sentivo, la soffrivo come un sudore, come una febbre paralizzante, come se fosse non soltanto una malattia degli occhi ma di tutto il corpo; e del resto è per una malattia del corpo, malcurata, che sto diventando cieco. Ormai posso vedere da vicino, soltanto da vicino, cosà da vicino che ciò che mi resta della vista sta diventando quasi una sensazione tattile. Per questo non ho potuto decidere di conservare per me come ultime le immagini di donne e uomini, perché non tutti, non sempre, si possono guardare cosà da vicino da toccarli con gli occhi.
Barnaba, un ragazzo italiano alto e coi capelli neri ricci, era arrivato a Reims la sera prima. Aveva cenato e dormito in un albergo, e atteso che il sonno scendesse in modo naturale. Non beve, non prende pillole. Col tempo si era sforzato di accettare la sua condizione fino in fondo, compresa la difficoltà ad addormentarsi, compreso quell’attimo di blanc al risveglio, quando uno sa che deve ricordarsi qualcosa di molto doloroso, come il fatto di divenire cieco, ma per un attimo ancora non se ne ricorda. Si era alzato, si era lavato e vestito con cura, anche se i colori erano già un problema. Poi era uscito dall’albergo. Conservava un portamento teso, con certi scatti di insofferenza e punti di tenerezza; però, camminando, tendeva appena a strusciare i piedi, cercando meglio il terreno. Poiché si vergognava della sua condizione, e piú di tutto avrebbe voluto che non fosse notata dall’esterno, era riuscito a rendere naturale quella ricerca di aderenza con una specie di passo semplicemente piú allungato. Tutto questo sforzo del camminare dritto e del pudore si frantumava poi in errori clamorosi, in quelle situazioni clamorosamente ridicole in cui può trovarsi un cieco, o quasi cieco. Ma anche il ridicolo alla fine aveva imparato ad accettarlo, come la cosa piú difficile. Il museo di Reims era vicinissimo all’albergo, in rue Henri Jadart; ancora qualche metro ed entrò nel portone. Attraversò la cour d’honneur di un palazzo settecentesco, bombato in cima, e dagli ampi finestroni bianchi. Fu dentro.
Per quanto mi sforzi di guardarli tutti piano piano, ogni volta me ne resta in mente solo uno. Uno del Prado, uno della Tate Gallery, uno del Louvre, uno degli Uffizi, uno di qualche museo meno famoso e periferico, dove magari sono andato per vedere solo quello, come qui a Reims, dove in realtà è un solo quadro che vorrei vedere. Non sono un conoscitore d’arte, non lo sono mai stato. Né so bene cos’è che amo nella pittura, proprio perché non l’amo tutta. Ho visto quadri importantissimi, capolavori, ma mi sono dovuto convincere del loro valore, ho dovuto pensare che là per la prima volta c’era un certo colore, una certa luce, una certa scena, una certa prospettiva, convincermene senza neanche avere la certezza di vederli bene. Ma del resto alla pittura sono arrivato soltanto per esclusione. Di fronte ad altri quadri invece, quadri di cui magari conoscevo il titolo per fama, ma che non sapevo fossero proprio quelli, fossero proprio cosÃ, l’emozione è stata piena, la commozione è stata immediata, quadri che venivano in fuori, che ti abbracciavano, che ti portavano dentro. E per un attimo io ero ciò che volevo essere: quel giocatore di dadi in una bettola, quell’ufficiale che prendeva ordini da Napoleone tra fumi di battaglia, io ero un cavallo sbudellato, o il centurione incattivito e stupefatto davanti al sangue del Cristo, oppure ero una bottiglia di vetro su uno sfondo colorato, ero una foglia di lattuga dentro una natura morta. Sono questi i quadri che cerco, sono queste le immagini che voglio trattenere. Ma se mi avvicino tanto da distinguere le figure, fino quasi a sfiorarle, perdo il senso dell’insieme, e se faccio un passo indietro, il passo che dicono sia del pittore, non distinguo piú i contorni. Con i colori poi non ne parliamo. Potrà succedere in un qualsiasi momento, so che a ogni istante posso piombare in un buio pieno e nero, e magari mentre io mi sforzo di passare la piú parte del mio tempo nei musei guardando i quadri, come i Corot che cerco di vedere adesso, lo sguardo si spegnerà del tutto in una vasca da bagno, davanti a una tazza della colazione, alla fermata di un autobus.
La vasque de la Villa Médicis, L’étang à l’arbre penché, Souvenirs des rives méditerranéennes, La liseuse sur la rive boisée sono i quadri che Barnaba passa in rassegna. Passa in rassegna perché non è per questi quadri di Corot che è venuto, lui è venuto per Marat assassiné, la morte di Marat dipinta da David; solo che ogni museo ha un suo percorso, non si possono saltare le sale, non si può arrivare subito, e poi anche questi quadri vorrebbe vederli, e si sofferma, e si piega per leggere i titoli sulle targhette d’ottone, si piega ma non troppo, per non essere visto, perché nessuno dal fondo della sala accorgendosi della sua rigidità o della sua incertezza possa bisbigliare, possa stupirsi, possa provare tenerezza. Ma sul fondo della sala passa una scolaresca, e qualche bambino in effetti guarda il giovane alto con le mani nelle tasche dell’impermeabile, lo guarda senza fare domande, in quel modo muto e terribile in cui certe volte i bambini guardano le cose; sfila la scolaresca, sfila qualche turista svagato, e sfilando tutti lasciano apparire una ragazza ferma davanti a un Géricault, una ragazza di spalle, e le sue spalle sono belle e aperte e contornate dal disegno del vestito corto, sfiorate dalle punte dei capelli biondi non troppo lunghi. Lei non vede Barnaba, né Barnaba potrebbe vederla.
Lui è alle prese coi Corot, sente che deve trattarsi di quadri molto belli, sente che là c’è un mistero del paesaggio, ma la fontana di Villa Medici la percepisce come una massa scura, per quel che riesce a vedere potrebbe essere una barca con al centro un albero maestro trasparente, lo zampillo, e il fogliame delle due querce (ma saranno poi delle querce?) una specie di sipario aperto sulle cupole di una città d’acqua; sÃ, forse la fontana non è altro che una barca, come la barca del Pêcheur en barque à la rive, il quadro successivo, solo che al posto della barca Barnaba vede proprio un albero, abbattuto o stroncato, che spunta dal fondo limaccioso, e il pescatore non gli arriva come il pescatore, ma come un ramo nodoso che si sporge appena, avvolto nel fogliame della vegetazione bassa, immerso nell’umore dell’acqua stagnante.
Il tempo cosà lungo che Barnaba passa di fronte a ogni quadro, la vicinanza da cui guarda la tela, l’ostinazione con cui cerca di percepirla fanno sà che una coppia di anziani si fermi a osservare con sufficienza, che il custode si alzi dalla sedia e faccia un giro guardingo alle sue spalle, che la ragazza bionda voltandosi dal suo Géricault e vedendo il tutto resti un attimo interdetta, e poi capisca.
Forse perché ci sono dei momenti in cui le cose si fanno improvvisamente chiare, o forse perché nei quadri dove le figure sono grandi, centrali, nei quadri dove si tratta di persone e di passioni mi è piú facile distinguere, però Desdémone aux pieds de son père di Delacroix (se è proprio questo che c’è scritto sulla targhetta) lo vedo meglio, vedo il vestito scuro rigonfio, vedo l’incarnato bianco subito sopra il seno, vedo i capelli lunghi scarmigliati, vedo lei che solleva un braccio e incontra il braccio del padre; ma è il padre che mi appare confuso, forse ha le mani avanti per respingere la figlia, forse la sta maledicendo, comunque non lo distinguo bene, è troppo in ombra. Che cosa ricorderò di questo quadro? Il fatto che una donna chieda di essere tollerata e amata dal padre cosà com’è, anzi, proprio perché è cos� La durezza di un padre che vincola l’affetto a una linea di condotta? Ricorderò il gesto di lei? Il gesto del padre, che ho potuto soltanto immaginare? Ma c’era realmente il padre? Di Desdemona so tutto ciò che la legava a Otello, so della sua remissività e impotenza, della sua menzogna finale, di come in punto di morte preferà mentire addossandosi la colpa piuttosto che accusare altri, ma del padre cosa so? E nel quadro è solo? C’erano degli altri con lui? O forse sono io che ho confuso le ombre, che ho scambiato per persone i semplici tratti di uno sfondo? È come con le nuvole, quando potevo ancora vederle, bastava un minimo appiglio per dare loro una forma: una grande nave nel cielo, un grande spazzolino da denti, un animale grande accucciato. Devo difendermi da quell’immaginazione che collega le stelle tra di loro, come i punti di una vignetta enigmistica, e fa dire «l’Orsa!» o «il Carro!», mentre tutto nella realtà è staccato, disunito, non messo là per assomigliare a qualche cosa.
Anne, la ragazza, si avvicinò a Barnaba cosà silenziosamente che lui non se ne accorse, preso com’era dal quadro.
Lei disse piano: «Desdemona è quasi in ginocchio ai piedi del padre. Il padre ha una grande veste rosso chiaro, e la barba; guarda la donna severo, tagliente, la respinge. Da una porta sullo sfondo si affacciano altre due figure, restano bloccate sulla soglia, intimorite. La luce scende dall’alto, è tutta sul petto e sul viso di lei».
Barnaba non si è voltato subito, ha impiegato qualche attimo per controllare emozioni diverse: la sorpresa di essere stato scoperto, l’irritazione con se stesso che sempre gli veniva in questi casi, la tenerezza per il tono pacato e di complicità che c’era nella voce che aveva appena udito. E quando si è girato, gli occhi di lei erano cosà vicini che gli riuscà di coglierne perfettamente il disegno e la trasparenza, ma non la tonalità che a lui sembrava complessivamente chiara, senza poter dire a quale tipo di azzurro appartenesse. La ragazza guardò a sua volta gli occhi di Barnaba e si stupà che il margine della pupilla nera fosse cosà netto, una specie di circoletto nitido in cui si addensava il bruno scuro, e pensò che a tanta definizione dell’esterno doveva corrispondere chissà quale sfocatura e non definizione dall’interno.
«E i colori?», ha detto Barnaba tornando al quadro.
«Sono soprattutto marroni, a parte il rosso dei vestiti e il giallo della luce», ha risposto lei.
«Ma il vestito di Desdemona non è verde?»
«No non lo è», ha detto Anne sorridendo. Ha guardato Barnaba, e ha guardato il quadro. Poi ha ripreso in un tono diverso: «O forse sÃ. È verde».
Barnaba è rimasto ancora davanti al quadro, finché la ragazza ha detto «Andiamo», e sono passati alle sale successive.
Non so mai bene come comportarmi. Da un lato tenderei ad affidarmi in tutto a chiunque mi avvicini, dall’altro so che la mia condizione mi isola dalle altre persone. Per temperamento ero già un po’ diffidente, adesso ho quasi sempre paura. Di lei non riesco a vedere molto; ho visto gli occhi, e il viso, e ho sentito la voce, e anche l’odore. Prima che la mia fidanzata mi lasciasse (non posso rimproverarla per questo), avevamo un modo di annusarci quando ci incontravamo dopo un certo tempo; prima ancora di abbracciarci o di baciarci, magari in un caffè, ci annusavamo lungo il collo, come due animali, per riconoscere l’odore o per sapere dall’odore se nel frattempo qualcosa era cambiato. L’odore di Anne, l’odore di questa ragazza adesso, è appena profumato, e sconosciuto. Chissà perché ha avuto quell’esitazione e prima mi ha detto che il vestito di Desdemona era rosso e dopo verde. Certo non potrei dire che non lo fosse, ma in qualche modo mano a mano che perdevo la vista ho capito come cambiavano i colori, quali frequenze se ne andavano via; ho imparato a cercare di indovinare un colore dal suo contrario, o dall’intensità dei toni che perdevo.
Lei aspetta sempre che sia Barnaba a parlare, come del resto aspetta che sia lui a scegliere i quadri dove fermarsi, e quelli dove tirare dritto. E quando lui si ferma, lei si limita a leggergli il titolo del quadro e l’autore, per risparmiargli tutto quel piegarsi e avvicinarsi alle targhette, e poi resta in silenzio. Lei dice piano: «Les filles de Pélias demandant à Médée le rajeunissement de leur père, di Charles-Edouard Chaise» oppure «Nature morte à la statuette Maori, di Gauguin», o ancora «Un cardinal examinant un plan, di Richard Bonington» o «Bâteau sur le fleuve, clair de lune, di Stanislas Lépine» o «Le spectre de Banquo, di Théodore Chassériau» o anche «La lecture du rôle, di Renoir». Anne dice soltanto cosÃ, all’inizio; e aspetta. Barnaba non le chiede aiuto, anzi; ma se lui, a bordo del battello sul fiume, al chiaro di luna, vede anche un capitano che in realtà non c’è, e ne parla, Anne glielo descrive compiutamente nell’alone di una luce candida; e se lo spettro di Banquo gli appare in piedi e malvagio invece di starsene seduto tra gli altri commensali come se ne sta nel quadro, lei gli completa quell’immagine fin nei dettagli, in gesti che nella tela non ci sono affatto; e se Barnaba le chiede: «Cosa c’è nella mappa srotolata davanti agli occhi del cardinale?» senza rendersi conto che non è lui che non la vede, ma è la pittura stessa impressionista e solo accennata, Anne gli descrive segno per segno la pianta di una basilica che probabilmente un architetto sottopone all’approvazione del cardinale, senza che questa sia stata mai dipinta; se lui domanda: «Qui, lo sfondo della statuetta Maori com’è?», Anne non si cura del fatto che una natura morta difficilmente ha come sfondo un paesaggio, o forse proprio per questo, per lanciargli un segnale, gli descrive capanne di terra e di paglia e canneti di bambú; come del resto poi gli parlerà del viso bellissimo dell’attrice intenta ad ascoltare la lettura della sua parte, e dello strano e inquietante rapporto tra i due uomini cosà vicini a lei, quello di fronte che legge le battute, e l’altro che le sta alle spalle e ascolta.
È in questo modo che Anne completa e rifinisce le immagini sbagliate che Barnaba si fa di ciò che non può vedere, o gliele inventa dettaglio per dettaglio. Non si direbbe che lei menta per mentire, né perché la situazione le offre l’immunità da ogni riscontro; e c’è sicuramente un tempo, magari breve, in cui lei stessa è del tutto convinta di quel che dice, e lei stessa vede chiaro ciò che nei quadri non c’è, ciò che soltanto il desiderio o l’immaginazione di Barnaba producono, e lo fa suo, ed è con lui almeno in questo. Anche nel passo però: ha trovato d’istinto, fin dall’inizio, un’andatura che tiene conto di quella incerta e rinormalizzata di Barnaba. Camminano cosÃ, uno a fianco all’altra nel riflesso color avorio delle sale del museo, e quando si fermano e lei mente, la sua voce, per natura sottile, prende altre risonanze, piú vicina, piú intima, piú complice, appena sofferente.
C’era veramente un capitano sul battello? C’era veramente un canneto di bambú sullo sfondo della statuetta? E nella carta srotolata sotto gli occhi del cardinale c’era veramente quello che lei ha detto? A me sembra di vederli. All’inizio non ne sono sicuro, ma quando sento la sua voce, quando sento il suo sguardo che si volta dal quadro, tutto mi sembra come lei dice. Però appena smette di parlare mi ritorna la prima immagine che ho avuto, la mia, e allora mi sembra che il capitano non ci sia, nemmeno il canneto, neppure la pianta della basilica. Ma poi, alla fine, che importanza ha sapere se c’erano veramente? Che importanza può avere se questi quadri li ricorderò come sono, o come ho cercato di vederli, o come lei me li ha descritti? Chi mi assicura che quando il buio sarà perfetto buio li ricorderò uno per uno e non diventeranno invece una specie di visione confusa e unitaria, che piano piano si perderà nel passato? L’importante è adesso, l’importante è qui. Vorrei che lei parlasse ancora, vorrei che me ne descrivesse altri, vorrei capire se questa sensazione sottile che ho, tra quello che lei dice e quello che io non riesco a vedere bene, corrisponde in qualche modo al vero. Che spreco di sensazioni trascurate, non messe a fuoco, non riconosciute se non dopo, non perseguite, quando me le potevo permettere! Adesso ognuna è cosà vitale per me, cosà significativa, che non posso perderne nemmeno mezza, neppure questa, seppure incerta: che lei mi stia mentendo. Ma perché dovrebbe farlo? Per gentilezza? Per aiutarmi? Per fare in modo che non mi renda conto di quanto è già avanzata la mia malattia? Eppure non ne abbiamo parlato, non ho avuto bisogno di dirle: sto diventando cieco, lei l’ha capito subito. Se è per questo che lei mente ne sarei cosà addolorato che me ne andrei per mio conto, subito davanti al Marat assassiné, che pure deve stare qui, da qualche parte. O forse no, forse vorrei contraddirla, metterla in imbarazzo, farla sentire in colpa. Farle sentire, con una sola increspatura della fronte, l’indelicatezza di mentire a un cieco, o quasi… Ma perché poi indelicatezza? La mia malattia mi offre davvero poche cose, quasi sempre diverse e opposte a quelle che la salute e la normalità mi offrivano prima. Potrei prenderlo come un dono del mio stato. Ma sÃ, forse potrei prenderlo cosÃ, o poco meno.
«È stanco?», chiese Anne con dolcezza. «Al contrario», disse Barnaba, e spiegò che quello che faceva, ciò che poteva fare, non era molto faticoso. Del resto là nel transetto, ai piedi dello scalone di graniglia che saliva su, c’erano pochi quadri, non impegnativi né per chi li aveva dipinti né per chi li avrebbe visti, ritratti di persone sconosciute, interni domestici ciascuno con un’azione ben precisa: il bucato, la cucina, il sonno dei vecchi, la punizione dei bambini; nelle case in cui erano stati avranno celebrato le funzioni della casa, come lari, e in una casa d’oggi sarebbero stati messi in punti di passaggio, come di passaggio era questo punto del museo. Barnaba avrebbe voluto averne almeno un’idea complessiva da vicino, ma Anne lo trattenne dicendo: «Non ne vale la pena», parlandogli d’altro, e nel parlare, con piccoli accenni o frasi laterali cercava di raggiungere la parte comica di Barnaba, la parte comica della sua condizione, e avrebbe voluto che in qualche modo ne ridesse, e Barnaba l’avrebbe anche fatto, solo che a ogni allusione anche sfumata doveva superare un attimo d’imbarazzo, che non era il suo ma quello che avrebbe provato lui, se fosse stato Anne, nel dire certe cose senza timore di ferire. Lei sorrideva anche di questo, diceva: «Però potrebbe fare degli ottimi scherzi», e se Barnaba chiedeva quali lei rispondeva: «Tutti quelli che si possono fare in una condizione a metà . Le cose a metà sono le migliori per fare degli scherzi», e poi aggiungeva in un tono appena diverso, riflessivo, come tra sé: «Anche per mentire, la condizione a metà è la migliore».
Parlando degli scherzi che Barnaba avrebbe potuto fare, sebbene lui dicesse: «È piú facile che ne facciano gli altri a me», salirono lo scalone. L’ultimo piano era stato quello delle chambres de bonne, coi vecchi muri poi abbattuti e lo spazio ristrutturato in un salone lungo, dove paretine finte e costruite apposta segnavano la fine di un percorso cominciato giú, con la biglietteria.
Barnaba cerca d’intuire dove sia il Marat assassinato, e gli sembra che possa trattarsi di quel chiarore isolato, accentuato dai faretti sul fondo della sala, solo che Anne è già ferma davanti a un quadro non molto grande, subito là a sini...