Il mito dell’America è stato dunque creato dal fenomeno migratorio? Nei due secoli successivi a globalizzare il mondo sarà l’economia dell’Occidente, aiutata dalle armi. In Europa si afferma il modello delle free migrations, quelle economiche e volontarie, individuali: il massimo grado di libertà diventa andare a cercarsi all’estero un reddito che non si trova nel proprio Stato (per poi in parte rimetterlo in patria).
È stato scientificamente ribadito che gli ultimi due secoli potrebbero evidenziare una cesura profonda: finirebbe l’Olocene (noi abbiamo spesso preferito parlare di Neolitico) e inizierebbe l’«Antropocene», con l’invenzione del motore a vapore, nel 1784, decisivo sul suolo e sulle acque. La Commissione stratigrafica dell’International Union of Geological Sciences si pronuncerà nel corso del 2016 ma indichiamo questa data come l’inizio della seconda fase di Out of Europe per segnalare la non coincidenza fra istituzioni statali e processi economici e la labilità di periodizzazioni rigide.
1. Out of Europe 2: diffusione di areale dell’economia capitalistica.
Da circa un quarto di millennio a questa parte è avvenuta una svolta globale: è divenuto sempre meno possibile isolarsi, sulla terra e in mare, se non per pochissimi individui. Le migrazioni come occupazione umana di nuovi habitat o isolamento genetico-linguistico-culturale non sono ormai piú fisicamente possibili. Del resto, gli Stati si chiamano cosí perché non si muovono né migrano e ancora oggi sono rarissimi gli Stati dell’Onu dove si parla un’unica lingua e si pratica un’unica religione. Il fenomeno migratorio resta un meccanismo evolutivo, ma tende a perdere definitivamente alcune delle sue specificità genetiche e culturali, storiche e geografiche.
Il territorio stabile e confinato non è mai un concetto solo spaziale, che coincide con un popolo sovrano, piuttosto è il risultato di relazioni sociali e forme politiche, di un sistema di economie ed economia-mondo. Con i conquistadores europei e la Rivoluzione industriale e mercantile, le principali energie sussidiarie non furono piú solo idrobiologiche ma anche meccaniche e fossili. Quando il vantaggio in fatto di armamenti e organizzazione raggiunse i suoi limiti, la conquista europea si cibò di concorrenti interessi commerciali ed economici, mescolando i confini di religioni e arti, di scienze e istituzioni e avviando una seconda fase di Out of Europe. La superficie mondiale controllata dagli Stati europei, per il tramite di vari gruppi migranti e di grandi innovazioni tecnologiche nel migrare, crebbe dal 35 per cento del 1800 all’81,4 del 1914. Poi la conquista del cielo divenne altrettanto importante di quella degli oceani, e risultarono mondiali i conflitti interni all’imperialismo degli europei che già controllavano gran parte della superficie terrestre e marina.
Le radici dell’economia capitalistica risalgono ai commerci medievali di centri e porti europei, in relazione con lunghe rotte di migrazioni di merci. Ancora una volta non c’è una data fatidica: il tasso lordo di rendimento da capitale cresce enormemente fra il 1700 e il 1950. La Rivoluzione industriale imprenditoriale risale ad alcuni secoli fa in pochissimi paesi, al secolo scorso in pochi altri Stati, ai decenni scorsi in qualche altro Stato, al presente e forse al futuro altrove. Cambia tutto e tutto presto si misura in termini di capitali: materie prime, produzione, produttività, redditi, consumi, economia. La proprietà dei capitali ereditati e immobiliari, agricoli e industriali, commerciali e finanziari aumenta e concentra la ricchezza di pochi: dà accesso a profitti e redditi che aumentano in media molto piú del reddito da lavoro e di quello complessivo di un paese. Disuguaglianze sociali e privilegi oligarchici sono precedenti agli Stati capitalistici, ma il capitale li accresce, misura e mercifica ogni fattore e prestazione, si sgancia dalla produttività e impone un’ideologia che giustifica i privilegi e considera ineluttabili le disuguaglianze, poi supera confini e vincoli statuali.
Le dinamiche demografiche globali sembrano parallele a quelle istituzionali ed economiche europee, tutte descrivibili con crescite imponenti. La popolazione mondiale sta ancora crescendo, siamo quasi a sette miliardi e mezzo; per alcuni secoli la percentuale di crescita è molto salita, soprattutto per la riduzione della mortalità infantile e la miglior cura nella terza e quarta età, con il conseguente aumento della vita media, grazie ai vantaggi della sanità; ora c’è una parziale inversione, la crescita non è piú esponenziale.
2. La disuguale crescita demografica.
La prospettiva di crescita della popolazione è stata ed è molto diversa fra continente e continente: ora e sempre piú impetuosa in Africa, finora impetuosa ma sempre piú rallentata in Asia, quasi in stallo in Europa e in America dove da almeno un ventennio sono soltanto i flussi migratori dall’esterno a garantire una quantità di residenti e di lavoratori non inferiore alla necessità.
Il caso europeo del XIX secolo è cruciale. Vi sono state migrazioni forzate di europei anche dentro l’Europa, elemento strategico dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione del continente, effettuate anche da deportati, sradicati, errabondi. Ma gli europei soprattutto sono migrati altrove: a un certo momento, questo ramo degli euroasiatici ha scoperto la Terra come unità abitabile, ha invaso il pianeta e ha rimescolato tutte le popolazioni, attraverso migrazioni intercontinentali. Fra inizio Ottocento e inizio Novecento vi sono Stati in cui gli immigrati hanno costituito quota quasi maggioritaria della popolazione residente, Stati in cui gli emigrati hanno esportato significative quote degli abitanti della propria patria.
Noi bianchi europei ci abbiamo messo tre quarti di secolo, dagli anni Quaranta dell’Ottocento fino ai Venti del Novecento, a raddoppiare in Europa, ricollocandoci fra gli Stati europei (verso Inghilterra, Germania, Francia), a spostarci in oltre 50 milioni per lo piú verso latitudini e climi simili, esplorando ogni angolo ed esportando militarmente, con le guerre coloniali, il libero scambio e le libere migrazioni, e a costruire gli «occidentali» imperialisti del pianeta, ora migranti e turisti a vapore verso l’interno di ogni continente e negli oceani.
Migrare è diventata un’opzione o una strategia di vita per l’insieme delle popolazioni europee; strategia politica e scelte individuali incoraggiate o obbligate spesso nelle patrie con donazioni di terre, passaggi gratuiti, agevolazioni amministrative, deportazioni; strategia e scelte che in molti casi hanno poi visto un ritorno, dopo generazioni (circa la metà per gli italiani negli Usa, ad esempio). Il popolamento coloniale europeo della Terra fu spinto e condizionato dagli Stati nazionali guerrieri; le dinamiche demografiche ed economiche delle madrepatrie influirono su accelerazioni e rallentamenti. In termini demografici complessivi furono soprattutto le Americhe a crescere e proprio per l’arrivo degli europei, migranti verso luoghi ove si percepivano salari piú elevati. Il popolamento europeo della Terra riguarda oggi parte significativa della popolazione mondiale, anche considerando le successive parziali migrazioni di ritorno dopo le guerre mondiali e il dissolvimento degli imperi coloniali.
3. Sconfina e migra un «modello» europeo.
L’espansione dell’areale capitalistico è stata sempre accompagnata da elevati livelli di disuguaglianza e da rilevanti deficit di democrazia, fra gli Stati e negli Stati. Anche il fenomeno migratorio ebbe una trasformazione che risentí sia della diacronia temporale e dell’eccezionalità geografica della Rivoluzione industriale, sia dell’incredibile aumento complessivo e della relativa proletarizzazione della popolazione mondiale. I mercati del lavoro assorbirono gli immigrati prima e piú facilmente dei sistemi politici. La libertà di migrare proclamata dalla Rivoluzione francese costituí elemento essenziale del liberalismo e della concezione specificamente liberale e individuale della libertà. Soggetti privati tradizionalmente subordinati a un capo-padre (la moglie, le donne; i figli, fino all’età adulta; i servi o i veri e propri schiavi) furono sottratti al potere parentale domestico e sottoposti al potere pubblico, alle leggi degli Stati.
Nell’Ottocento esplosero «libere» migrazioni di lavoratori: il rapporto di lavoro subordinato definí eserciti industriali, uno sfruttamento assoluto della forza-lavoro, in parte di riserva, in parte razziale. Ci fu anche una scelta di partire: una catena migratoria dalla campagna alla città, dall’agricoltura all’industria, dalla costa all’interno, in patria o all’estero. Evolse la dimensione occidentale della cittadinanza: l’individuo e la libera scelta di liberi individui sembrarono divenire entità fondanti l’essere sociale della specie umana, riconosciuti e resi liberi dagli Stati in formazione, liberi anche di migrare per motivi lavorativi e familiari, in una Terra «infinita».
Si affermò inoltre un principio occidentale di legalità, in realtà come legge del piú forte − libera per il piú forte, imposta agli altri −, capace di travolgere anche tradizioni giuridiche locali. Crebbe un’idea occidentale di progresso economico, fondato sullo sviluppo di tutte le scienze e sull’affermazione di una modernità lineare, volto verso una crescita quantitativa della produzione di merci, del loro apparentemente libero consumo. Diventò essenziale distinguere migrazioni interne e migrazioni internazionali, le prime sempre enormi ed essenziali per definire l’evoluzione geografica e la struttura sociale dei cittadini, le unità amministrative di analisi economica ecologica, la storia nazionale dei sistemi linguistici, religiosi, politici. D’altra parte con gli europei migrarono gli strumenti tecnologici e industriali che avevano consentito la conquista.
Lo Stato nazionale si legittima facendo coincidere le frontiere politiche con quelle proprietarie, tributarie, burocratiche e culturali, tracciando quindi confini collettivi, antropologici, istituzionali. E può costringere a migrare: tramite l’emigrazione scaccia elementi ritenuti superflui o pericolosi. I confini regolano la cittadinanza, gli espatri, le espulsioni individuali e collettive, le diaspore, le pulizie etniche. I rigidi e controllati confini statali ridisegnano strade e percorsi, sistemano amministrativamente gli agglomerati urbani, stabilizzano i processi demografici, regolano le naturalizzazioni. Nello Stato i grandi movimenti di esodo dalle campagne e d’inurbamento di massa diventano struttura di classe e geografia politica, causa ed effetto di politiche pubbliche e di differenze e lotte sociali, che originano fenomeni migratori, una costante fino a oggi.
4. Migrazioni interne o internazionali e politiche migratorie.
Emigrazione e immigrazione si formalizzano dunque con gli Stati nazionali. L’emigrazione può essere imposta come conseguenza civile della guerra militare o come persecuzione verso categorie di donne e uomini, per credo politico, incapienza economica, identità religiosa o per altro. Comincia a definirsi meglio la condizione di profugo o rifugiato. E anche quella di delocalizzato o dislocato (sempre profugo), interno allo Stato. Solo lo Stato può legalmente imporre uguali doveri e obblighi, specifici tributi e sanzioni, reclusioni, lavori forzati, migrazioni forzate; può inglobare altri territori, dichiarare guerra, cambiare la legittimazione di governo, stabilire gli interessi nazionali, garantire gli individui proprietari. Comunque, limitandosi alle migrazioni internazionali, circa cent’anni fa, all’inizio del Novecento, la somma di migranti nelle condizioni di risiedere in un paese straniero era pari a circa il 5 per cento della popolazione mondiale.
Dentro il fenomeno globale ci sono molte altre migrazioni, come abbandoni collettivi da campagna a industria-città, oppure dentro città globali, da Stato a Stato, ora pure transcontinentali, per motivi quasi esclusivamente economici e sociali. Si dice: push & pull. Push: crisi dell’agricoltura, concorrenza e squilibri. Pull: disponibilità di terre e lavori, concorrenza qualificata, attivazione di rimesse e import-export. Non mancano certo altri motivi: il coraggio del distacco, la nostalgia di casa, la silente instabilità.
È difficile quantificare l’entità del fenomeno migratorio, in epoche antiche e moderne, in relazione alla crescita demografica, perché troppe sono le variabili e troppo irregolari i processi. Nel tempo le unità politiche e amministrative sono cambiate, e sono rare le comparazioni attendibili. Fenomeni analoghi non riguardano solo l’Occidente. Le migrazioni sono sempre condizionate anche da clima e contesto, hanno effetti sulla biodiversità e sugli ecosistemi umani di partenza e di arrivo, innescano dinamiche ecologiche di medio-lungo periodo globalmente intrecciate, anche rispetto a disastri e conflitti, armati e di classe. Occorre considerare che una massiccia industrializzazione, analoga a quella avvenuta in Occidente, è avvenuta poi in tante aree del pianeta. La fase capitalistica globale travolge i sedimenti dei precedenti periodi. L’esodo rurale diventa permanente. L’urbanizzazione irresistibile (e crescono i quartieri degli immigrati).
L’esodo rurale massiccio è di solito una migrazione interna, senza dubbio la modalità di migrazione piú importante e ormai universale, che comporta un cambio di residenza dalla campagna a insediamenti urbani, riguarda grandi masse, ed è vissuto come una scelta di vita. La migrazione a grandi distanze non cancella piú il legame con il luogo di partenza: emergono e maturano reti migratorie.
A cavallo fra Ottocento e Novecento vengono adottate politiche migratorie statali, soprattutto per controllare ogni arrivo: i primi potenti Stati nazionali introducono divieti e filtri alle frontiere, tentano di controllare e contingentare i flussi, determinando nuove rotte e nuovi flussi. Cominciano a esserci gli aerei per controllare le colonie e combattere, per viaggiare e migrare. La sempre maggiore rapidità di movimento darà un passo diverso al viaggio e all’intricato fenomeno migratorio dell’ultimo secolo, maggiori libertà e differenti costrizioni, imponendo adattamenti fisiologici e culturali.
5. I conflitti e le migrazioni economiche.
La Prima guerra mondiale è considerata un punto di svolta rispetto alla fine della free migration, tanto che la stessa crisi di molte democrazie parlamentari nel terzo e quarto decennio del secolo viene fatta spesso risalire all’incapacità di gestire con lungimiranza il fenomeno delle grandi migrazioni internazionali. Nella prima metà del Novecento il numero degli Stati formalmente indipendenti quadruplica, con la conseguenza che le barriere istituzionali e motivazionali della mobilità crescono, anche come confini fra regole e culture separate. I grandi conflitti nelle relazioni fra gli Stati e fra alleanze di Stati sono ormai mondiali. Nella seconda metà del Novecento le migrazioni di lunga distanza diminuiscono rispetto a molte fasi del passato, e i liberi migranti internazionali stanno prevalentemente nei paesi ricchi. Le relazioni internazionali affrontano la fame e la povertà dei paesi poveri, insieme all’insicurezza di grandi flussi migratori forzati.
Gli Stati nazionali disciplinano anagrafi delle popolazioni e ricostruzioni delle proprie migrazioni, delle emigrazioni dai propri confini e delle immigrazioni nei propri confini. Ma devono sempre piú dotarsi di poteri e rappresentanze inclusivi di chiunque vi vive e lavora. Chi migra non può che inserirsi in una rete plurale di minoranze e cittadinanze sociali. Gli Stati organizzano infrastrutture e mezzi di comunicazione e trasporto di massa. L’informazione e la formazione acquisiscono forme vincolanti e generali, capaci di orientare le due nuove principali forme di emigrazione a scopo di guadagno: la migrazione per lavoro e il commercio. I primi a diventare globali sono i capitali, i denari, le finanze, le merci. Poi le guerre, poi ancora i cambiamenti climatici di origine antropica.
Il fenomeno delle migrazioni umane resta di enorme quantità e di complessa qualità, anche se le politiche migratorie nazionali si cibano di argomenti simbolici e di registri retorici semplificanti. Con il progressivo e plurisecolare estendersi di entità statuali sul globo terrestre, le politiche migratorie nazionali sottraggono frazioni variabili ma consistenti di libertà di migrare a individui e gruppi. La migrazione internazionale diventa legale e illegale, riconosciuta fra Stati, fra Stati e colonie, fra Stati nazionali e non Stati.
Molte scienze umane e sociali studiano ormai le forme contemporanee del fenomeno migratorio: non solo storia e geografia, economia e diritto, ma anche politica, sociologia, statistica, filosofia, psicologia. La vita del migrante si arricchisce di letterature, diari, memorie, poesie, romanzi, foto, film, struggenti o almeno interessanti per tutti. La migrazione è fenomeno strutturale e costitutivo, una domanda e un requisito dell’economia-mondo, che ha sempre bisogno di nuove periferie sociali e di nuove delocalizzazioni produttive. Sia o meno forzata, la maggior parte dell’immigrazione vede inaugurarsi un lungo periodo di vita individuale forzata. Scatta una dinamica che è stata chiamata anche in questo caso resilienza: si fa di tutto per restare tenacemente dove si è immigrati, per non rientrare. Il numero dei lavoratori migranti continua a crescere, oscilla nella distribuzione ma non diminuisce, nemmeno nei periodi di crisi, neanche ora: aumentano anzi le rimesse economiche, non i ritorni sociali. In tal senso, il grado di libertà è relativo sia alla partenza sia all’arrivo.
6. La libertà giuridica di migrare e i migranti di oggi.
Nel Novecento i momenti di svolta per il fenomeno globale sono quelli di crisi e insicurezza di un mondo commercialmente interdipendente: le guerre, il 1929, il 1973, il 2001. L’economia-mondo supera i confini istituzionali, pur essendone condizionata, e introduce altri confini, confondendo interno/esterno, incluso/escluso, universale/particolare. Molti migranti sono da sempre soggetti non territoriali, ancor piú da quando esistono territori nazionali ed economia-mondo. La loro dimensione soggettiva apre campi nuovi di conflitti, sempre piú indipendenti dalla domanda e dall’offerta dei mercati del lavoro, sempre piú connessi a un villaggio residenziale globale.
Nel villaggio mondiale esiste oggi libertà giuridica di migrazione per tutti. Non tutti lo sanno, molti non sempre lo ricordano, quasi mai chi lo sa lo dice. La Dichiarazione universale dei diritti umani del dicembre 1948 contempla il diritto alla libertà di movimento e di migrazione. Il primo comma dell’articolo 13 dichiara che «ogni individuo» ha il diritto di muoversi e risiedere «entro i confini di ogni Stato» (una libertà individuale e collettiva di migrazione interna al singolo Stato nazionale). All’articolo 29 si aggiunge che eventuali limitazioni devono essere stabilite dalla legge per rispettare eventuali diritti e libertà di altri. Il secondo comma dell’articolo 13 dichiara che «ogni individuo» può liberamente lasciare il proprio paese e ritornarvi, lasciare «qualsiasi paese» e ritornare nel «proprio» (una libertà individuale e collettiva di migrazione esterna e generale, come andata, come ritorno, come andata senza ritorno, come andata con ritorno). Libertà di partire, diritto di restare. Diritti umani in patria, libertà di migrare altrove. Una migrazione forzata è di norma arbitraria e vietata, transitoriamente ammissibile solo in casi eccezionali, in sostanza quando non c’è alternativa alla necessità immediata di spostare qualcuno. L’articolo successivo contempla il diritto di asilo.
Il migrante è oggi sempre piú un soggetto attivo e, alla lunga, necessariamente antagonista o partner di ciò che lo costringe, lo sposta, lo vincola. Il migrante spesso non è fra i piú poveri e i meno istruiti dei paesi poveri, non danneggia il proprio paese d’origine, funge comunque da vettore di redistribuzione di risorse verso l’antica patria e da serbato...