Nel corso della sua vita Primo Levi ha pubblicato tre libri di racconti: Storie naturali, Vizio di forma e Lilit e altri racconti. Se vogliamo credere alle sue dichiarazioni, la vocazione di narratore breve risalirebbe al periodo precedente la deportazione nel Lager di Monowitz. Intorno ai vent’anni, Levi aveva progettato di scrivere alcuni racconti e persino un romanzo; il primo racconto, scritto nel 1946 dopo il ritorno dal campo di sterminio, s’intitola I mnemagoghi ed è una storia sulla memoria tra il realistico e il fantastico. Apre Storie naturali, libro uscito del 1966 a firma di Damiano Malabaila, uno pseudonimo, quasi Levi non volesse mescolare la sua naturale vocazione al racconto con la scrittura memorialistica e testimoniale di Se questo è un uomo e della Tregua. Ma Levi è prima di tutto uno scrittore di racconti.
Anche il suo primo libro, quello dedicato al Lager, è costruito attraverso brevi capitoli, frammenti narrativi perfettamente compiuti in se stessi che l’autore ha disposto dentro una cornice – il primo e l’ultimo capitolo –, in una successione che non corrisponde alla cronologia degli eventi, ma piuttosto a una sequenza tematica che testimonia la mentalità del giovane chimico torinese. Il sistema periodico, che segna nell’autocoscienza di Levi il passaggio da un ricco e complesso «dilettantismo» alla «professione» di scrittore (si definiva pur sempre «uno scrittore non scrittore»), è un libro di racconti autobiografici. Fino a Se non ora, quando?, del 1982, il suo unico vero romanzo, i libri narrativi di Levi sono tutti costituiti di brevi testi, a volte pensati o scritti in momenti diversi della sua vita, poi montati seguendo un disegno generale, anch’esso maturato con lentezza.
Storie naturali contiene racconti composti nell’arco di vent’anni, in differenti occasioni e per varie destinazioni (radio e teatro). Vizio di forma è stato invece scritto in due o tre anni, quasi per effetto della liberazione creativa prodotta dalla pubblicazione di Storie naturali. Lilít e altri racconti, il terzo libro di racconti, appartiene alla stagione creativa piú intensa di Levi, che ha inizio alla fine degli anni Settanta, quando abbandonato il lavoro di chimico (scrive la sera, la domenica o durante le vacanze estive), comincia a collaborare con assiduità al quotidiano «La Stampa». In cinque anni Levi pubblica quattro libri: un inconsueto racconto in quattordici quadri (La chiave a stella), un’antologia personale (La ricerca delle radici), una raccolta di racconti (Lilít) e persino un romanzo a sfondo storico (Se non ora, quando?) Lilít è composto di racconti sparsi pubblicati nell’arco di poco meno di un decennio su quotidiani e riviste, dove l’autore alterna poesie, articoli saggistici, recensioni ed elzeviri. Nel raccogliere le sue storie brevi lo scrittore ne esclude alcune che recupera cinque anni dopo nel volume di natura ibrida edito dal quotidiano «La Stampa», Racconti e saggi. Lilít ripartisce le storie secondo un indice che corrisponde ai diversi stili e temi del libro: racconti dedicati al Lager; racconti fantastici; storie che rinviano, almeno in parte, alla novella italiana del primo Novecento.
Quando muore, nell’aprile del 1987, lascia dispersi in varie sedi – giornali, riviste, libri – oltre una ventina di racconti; il piú vecchio è del 1977. È presumibile che con la meticolosità che gli era propria Levi ne avrebbe tratto un libro, magari accostando questi racconti ad altri che aveva progettato di scrivere, come le interviste con gli animali. L’ultimo Natale di guerra vuol dare corpo a questa ipotesi. Sarebbe stato l’ennesimo libro gemello – i libri di Levi nascono sempre due a due –, forse proprio del romanzo epistolare, Chimica per signore, purtroppo interrotto.
Se si scorre l’intera sequenza dei testi di Primo Levi apparsi su giornali e riviste, si è colpiti da un fatto: non trascorre mese o anno senza che egli scriva e pubblichi uno o piú racconti. Segno evidente di una spiccata vocazione allo scriver breve, che negli anni Sessanta egli stesso giustifica con l’esigenza di scrivere «racconti morali travestiti da racconti di fantascienza», e che in realtà risponde al desiderio di tenere aperte dinanzi a sé varie possibilità espressive.
Definire quale tipo di narratore breve sia Levi non è facile. Nell’arco della sua attività di autore ha sperimentato diversi tipi di racconto, da quello realistico al fantastico, dal racconto fantascientifico e fantabiologico al bozzetto, dalla parabola alla novella drammatica e allo «scherzo», passando per la detective story e il rifacimento dichiarato. E questa pluralità di registri narrativi a volte si alterna all’interno di uno stesso racconto. I caratteri comuni ai racconti di Levi sono: la brevità, l’unità dell’evento raccontato, la conclusione che sfrutta a fondo le premesse o l’antefatto, la vocazione moraleggiante. Levi è uno scrittore a forte valenza pedagogica: cerca di persuadere senza commuovere: fornisce al lettore un distillato di pensieri e riflessioni, non di sentimenti. È insomma uno scrittore che punta decisamente sull’intelligenza del lettore, sullo scatto mentale.
Spesso si è parlato dell’origine orale dei racconti; Levi stesso ha dichiarato di averli provati a voce con gli amici prima di passare alla scrittura; tuttavia l’oralità di questi testi, e piú in generale della sua narrativa, è subordinata alla scrittura. Non è l’oralità del narratore spontaneo di ascendenza popolare, quanto piuttosto quella del narratore colto di origine intellettuale, uno scrittore che è stato prima di tutto un lettore (un ascoltatore, afferma nella Chiave a stella).
In quasi ogni racconto di Levi si percepisce un sottofondo epico, il retaggio della novella ottocentesca italiana, oltre agli echi ben distinti di scrittori d’avventura – De Foe, Stevenson, Conrad, Verne, Kipling –, insieme al piacere dell’affabulazione tipico di chi ha scoperto la letteratura sulle pagine dei libri di racconti nell’infanzia e nell’adolescenza. Per altri aspetti, nei libri degli anni Settanta, Levi appare come un autore attento allo «sperimentalismo», alle sue innovazioni, in particolare alle tecniche narrative, forse recepite per via indiretta piú che dalla lettura dei testi. Insomma, Levi è un impasto di qualità narrative e letterarie molto strane e diverse, un ibrido, o meglio un centauro, come gli piaceva definirsi.
Spesso la critica si è posta una questione: se Levi non fosse stato l’autore di libri decisivi quali Se questo è un uomo o La tregua, l’attenzione verso i suoi racconti sarebbe stata altrettanto forte? Al di là dei suoi libri testimoniali, Levi può essere considerato uno scrittore? La risposta della critica, impegnata a stabilire giudizi di valore, è stata, almeno per vent’anni, negativa, nonostante il parere contrario dei lettori che hanno sempre ritenuto Primo Levi un narratore piacevole e curioso. I suoi libri narrativi, tra cui i racconti, sono stati letti e hanno circolato con costanza nell’arco di oltre un trentennio, per quanto l’acquisizione della sua figura di scrittore a tutto tondo non sia stata né facile né semplice, insieme al riconoscimento, in parte postumo, dello scrittore di finzione, del narratore fantastico, del narratore non-romanzesco, dello scrittore antropologo e persino dello scrittore umorista. Definire Levi un umorista potrebbe sembrare un paradosso, se a dirlo, tra i primi, non fosse stato il musicologo Massimo Mila che aveva di certo un orecchio fine e non temeva di apparire provocatorio.
I racconti di Levi, e non solo quelli dedicati al Lager, adottano una specie di «sottotono», una strana e inconsueta medietà che spiazza i lettori in cerca di rivelazioni improvvise o conclusioni inattese. Tuttavia, i suoi racconti contengono qualcosa di inquietante che è piú evidente là dove Levi non parla tanto del Lager quanto di creature fantastiche, cambiamenti di stato, metamorfosi, invenzioni strane o inconsuete atte a riprodurre la vita, dilatare o contrarre il tempo, materializzare i propri desideri segreti, oppure quando dà voce agli animali, come nelle «interviste naturali», scritte per la rubrica della rivista «Airone» intitolata Zoo immaginario.
Tra i passatempi meno noti di quel dilettante di genio che è stato Primo Levi c’è anche quello di fabbricare animali con il filo di rame, lo stesso filo per il quale s’ingegnava di realizzare vernici isolanti. In una serie di fotografie scattate da Mario Monge nel 1986, un anno prima della sua scomparsa, si vede lo scrittore che tiene in mano quelle ragnatele fittissime; in una di queste istantanee indossa poi la maschera di un gufo, uno dei suoi animali preferiti, di cui si era già divertito a disegnare con il suo MacIntosch, un triplice ritratto pubblicato sulla copertina de L’altrui mestiere. Il viso di Levi s’intravede dietro la maschera e l’intera figura provoca un leggero turbamento, lo stesso che si percepisce leggendo i racconti in cui l’autore si traveste da animale.
Cena in piedi, il racconto che apre questo volume – che raccoglie i racconti sparsi dello scrittore torinese pubblicati tra il 1977 e il 1987 – è una fantasia, un sogno, in cui il narratore veste i panni di un canguro, dando in questo modo forma narrativa a un pensiero assai comune, quello dell’estraneità che si prova in presenza di persone sconosciute. I due personaggi di Erano fatti per stare insieme, Plato – piatto – e Surfa – surface-superficie – sono due abitanti di un mondo bidimensionale. Anche questa è una fantasia, ma invece di essere ambientata come la precedente in una casa della ricca borghesia milanese, lo scrittore qui immagina un mondo perfettamente normale dove, al contrario, i protagonisti sono «due superfici dai contorni mutevoli ma di forma sostanzialmente umana, silhouette antropomorfe che si adattano alle asperità del pavimento, si spostano come ombre impenetrabili, e si congiungono per pura congruenza» (Stefano Bartezzaghi). La stessa cosa si può dire di In una notte, racconto in bilico tra il fantastico e il realistico, non a caso scritto e pubblicato negli anni bui del terrorismo e della crisi italiana, che ha per protagonisti degli indecifrabili devastatori, o per Anagrafe, che nello svolgimento quasi scontato del racconto-aziendale contiene inquietanti evocazioni e mostra una pietas che si mescola al senso di colpa.
Si ha l’impressione che la fantasia di Levi sia alimentata da qualcosa di profondo e insieme di oscuro che come una polla eruttiva fa salire alla superficie bolle iridescenti dalla forma sempre variabile ma dall’immancabile odore sulfureo. Questo è vero non solo per i racconti qui raccolti, bensí per molte delle storie brevi che compongono i tre precedenti volumi, tanto è vero che Levi stesso ne era consapevole e, pur provando un indubbio piacere verso la propria attività di novelliere, metteva una certa distanza tra se stesso e il frutto delle proprie fantasie narrative, come se si trattasse di materiale affiorante da una vena inquieta e inquietante di se stesso. La stessa cosa si può dire anche di molte sue poesie – poesia e racconto nascono dalla medesima ispirazione –, dove la struttura dei versi costituisce uno stampo sicuro entro cui colare una materia fusa e ustionante.
In quello che è senza dubbio il libro chiave per la comprensione della sua complessa personalità di scrittore, La ricerca delle radici, un’antologia di testi e insieme una intensa confessione umana, Levi ha scritto: «Si vede che, per quanto ami negarlo, uno straccio di Es ce l’ho anch’io». E cercando di darsi una ragione della scoperta a posteriori della propria parte oscura, Levi continua: «Insomma, mentre la scrittura in prima persona è per me, almeno nelle intenzioni, un lavoro lucido, consapevole e diurno, mi sono accorto che la scelta delle proprie radici è invece opera notturna, viscerale e in gran parte inconscia».
Alla scrittura «in prima persona» appartengono senza dubbio i libri testimoniali, da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, e Il sistema periodico e La chiave a stella – libri di forte impronta narrativa, ma con implicazioni autobiografiche –, mentre all’«opera notturna» spettano le poesie e i racconti. Non tutti i racconti perché, come è evidente anche in questa raccolta, L’ultimo Natale di guerra, alcuni sono scritti in «prima persona», quelli dedicati al Lager – da Pipetta da guerra a Un «giallo» del Lager, e quelli di rievocazione personale – Meccano d’amore e Fra Diavolo sul Po – o i racconti in cui dà voce a storie di altri – in Lilít e altri racconti. Solo là dove si abbandona al fantastico o ad altre immaginazioni narrative, lo scrittore riesce ad eludere il guardiano che egli stesso ha posto sulla soglia della propria fantasia. E lo fa in modo assai diverso, ricorrendo, come in La grande mutazione, a una vicenda di metamorfosi, in cui la metafora del volo si salda a quella del sogno del volo stesso e scandaglia con molta grazia e pudore la zona della sessualità adolescenziale, oppure dando vita a un tipo di racconto inedito nella sua galleria di storie brevi, quale Il fabbricante di specchi che rimanda, per altra via, al problema dell’identità evocato dalla serata mondana del canguro Innaminka.
Tra i diversi racconti di Levi c’è un gioco di rinvii e di simmetrie, piú o meno volute. Il tema delle ali è svolto infatti in forma quasi edenica in La grande mutazione, mentre assume la forma di un racconto nero in Angelica farfalla. Il passa-muri, uno dei piú belli e misteriosi racconti di tutta l’opera di Levi, richiama le ossessioni della materia di Storie naturali (L’ordine a buon mercato): là svolte seguendo una vicenda fantascientifica, qui trasformate in un racconto alchemico-esoterico. E ancora, il tema del tempo, centrale per la comprensione dell’opera di Levi, si esplicita in uno «scherzo», «Scacco al tempo», mentre nei libri precedenti si manifesta attraverso racconti realistici o fantastici.
Tutto questo fa pensare che la fantasia narrativa di Levi funzioni a partire da un numero fisso di temi o motivi, che lo scrittore combina in modo sempre diverso, dando forma a racconti stilisticamente diversi per quanto tematicamente omogenei: utilizza immagini sempre diverse e tuttavia riconducibili alle medesime variabili. Se questo è vero per molti degli scrittori del Novecento, nel caso di Levi è però interessante osservare come le fantasie che alimentano i suoi racconti spesso si riferiscano proprio alla sua «parte oscura», invece che alla «parte chiara», che è quella da cui sembrano nascere i libri testimoniali e le narrazioni autobiografiche.
Questo non significa che è possibile stabilire in modo meccanico una classificazione dell’opera di Levi, separando nettamente i libri «chiari» da quelli «oscuri», dato che la linea di demarcazione, ammesso che la si sappia tracciare con accortezza e mano leggera, passa attraverso i medesimi libri e racconti, cosí che ci sono parti «oscure» nei libri «chiari», e «chiare» in quelli «oscuri». Si prenda un racconto «in chiaro» qui raccolto, Un «giallo» del Lager, che contiene la famosa autodefinizione della «memoria patologica» riferita al periodo trascorso ad Auschwitz (davvero la memoria di Levi funziona in questo modo solo riguardo al Lager?). Qui Levi ricostruisce un episodio, uno scampolo di memoria, e si paragona al personaggio di Borges, Ireneo Funes, «el memorioso», che ricordava ogni cosa che aveva visto. È un racconto all’apparenza pacificato, a tratti persino ottimistico, per quanto riguardi il periodo piú oscuro della vita dello scrittore, lo stesso da cui pure ha ricevuto il dono della scrittura (in una intervista ha dichiarato: Se non fossi stato ad Auschwitz, sarei stato uno scrittore fallito).
L’ottimismo di Un «giallo» del Lager, che pone Levi nella posizione del detective di se stesso e del proprio passato, consiste nella sensazione di avere sciolto «il nodo dell’Olanda», che coincide con la storia di Goldbaum che torna a visitarlo attraverso un doppio episodio: la lettera di un chimico tedesco, uno dei suoi padroni di allora, e la fotografia custodita dai parenti dell’uomo inghiottito dal Lager. Tuttavia la chiusa del racconto ci consegna un’immagine inquietante, quella di una sciarpa di lana regalata allo scrittore da una delle nipoti di Goldbaum, che Levi decide di riporre in un cassetto, «provando la sensazione di chi tocchi un oggetto piovuto dal cosmo, come le pietre lunari, o come gli «apporti» vantati dagli spiritisti». Le pagine piú chiare ed evidenti – persino cartesiane – di Levi, contengono sempre un «apporto», un oggetto, un segno, un dettaglio, un particolare, un indicatore linguistico, spesso quasi invisibile, che ci avverte che lí c’è qualcosa di irrisolto, di oscuro, qualcosa che resiste a ogni solvente intellettuale, a ogni sforzo della ragione e del pensiero, anzi è esso stesso un pensiero, una ragione non-ragionevole che preme e chiede di trovare una via di uscita. In questo senso, i numerosi giochi linguistici presenti nelle opere di Levi funzionano insieme come un sintomo e una valvola di sfogo.
Si può immaginare che alcuni racconti di Levi siano resti, residui diurni della sua parte notturna, sogni a occhi aperti che affiorano e parlano la lingua strana e misteriosa della letteratura, non riducibile a formule o teoremi. Si legga il breve racconto Forza maggiore, dove si racconta, in terza persona, di M., forse un intellettuale, forse uno scrittore, che va a un importante appuntamento con il direttore di una biblioteca e incontra in una parte a lui sconosciuta della città, in un vicolo lungo e stretto, un ragazzo tarchiato in canottiera, forse un marinaio, e il suo cane. Il giovane gli sfila gli occhiali e lo picchia fino a costringerlo a stendersi a terra per poi percorrere il suo corpo a piedi nudi. Come interpretarlo? Il marinaio straniero e muto è l’evocazione di un soldato tedesco? Il cane è uno di quelli che abbaiano nel Lager? M. cerca di resistere, tuttavia deve soccombere: è una metafora della prigionia ad Auschwitz? È il resoconto di un sogno angoscioso? Difficile rispondere a queste domande. L’atmosfera del racconto è sí sospesa, indistinta, tuttavia il narratore scandaglia anche i pensieri di M. che invece sono quelli di un uomo razionale, che ha letto tanti libri, che fa paragoni e ragiona su questo duello inatteso, e conclude: «Si avviò al suo appuntamento, sapendo che non sarebbe mai piú stato l’uomo di prima».
È evidente che a differenza di quanto aveva dichiarato ai suoi intervistatori all’indomani della pubblicazione della Tregua, di aver chiuso con il Lager – «Ah sí, neanche una parola. Piú niente. Quello che dove...