Nessuno s’inerpicava piú su quella collina. Salvo che volesse ritirarsi. Era un buon posto per farlo: un romitaggio. Solo i resti bruciacchiati della casa che c’era un tempo. Qualche muro ancora in piedi, un tetto provvisorio di lamiere di zinco al posto delle torri e torrette di un tempo, per il resto solo pietre annerite, ceneri, macerie, travi carbonizzate, erbacce che s’infoltivano dentro finestre vuote. Qualche ramarro scivolava via silenziosamente.
Ma Ravi era lí, seduto sui gradini di pietra della veranda. Era ciò che aveva sempre fatto la sera quando tornava a casa, restare in ascolto del suono di un campanaccio ai piedi della collina, debole e intermittente e poi piú nitido e metallico via via che la mucca si avvicinava. A quello scampanio si mescolarono il rumore di zoccoli di capra che ticchettavano svelti sul viottolo sassoso, e i brevi belati avidi delle capre che pregustavano il cibo in serbo per loro. Furono le prime ad arrivare al casolare lí sotto, la fame accelerava il loro passo danzante nell’avvicinarsi. Poi la mucca, affamata anche lei ma con una stazza piú ingombrante da trascinare lungo un viottolo troppo stretto per i suoi fianchi ossuti. Dovette essere incoraggiata con i guizzi della verga che il proprietario stringeva in una mano mentre con l’altra si teneva ferma sulla testa la fascina di rami che aveva raccolto.
E quando quelle sagome fecero la loro comparsa nella radura sottostante, i cani che avevano sonnecchiato tutto il pomeriggio si raddrizzarono con aria d’importanza per dimostrarsi ligi ai propri doveri e lanciarono uggiolii di benvenuto per annunciarne l’arrivo alla famiglia che lí viveva.
I bambini si misero a cacciare i polli nelle stie per la notte. La madre gridò di portar dentro della legna. Il fumo prese a dipanarsi attraverso le fessure del tetto di stoppie. Le capre vennero sospinte verso un recinto di cespugli spinosi indicando loro un catino metallico in cui erano stati ammollati nell’acqua tiepida dei pezzi di pane, e la mucca venne condotta nella rimessa, con i suoi rassicuranti odori di sterco e paglia, per la mungitura.
Seguí un momento di quiete mentre ogni attività si spostava all’interno dove crepitava un fuoco di stecchi, una pentola bolliva e ne usciva l’aroma di cibo. I bambini ci si accucciarono intorno con i loro piatti di latta, aspettando. Il padre si sistemò su uno sgabello basso e la madre fu finalmente pronta a scodellare il cibo che aveva preparato.
Ma il maggiore dei due maschi rimase in piedi accanto alla porta, conscio del suo ruolo nelle mansioni quotidiane. Prese il piatto smaltato dalle mani della madre che lo aveva riempito di riso e dhal e ora lo cospargeva con una manciata di peperoncini verdi. Diede al figlio un coperchio di latta per coprire il piatto e con un lieve cenno del mento – su cui c’era un piccolo tatuaggio azzurro – gli indicò di prenderlo e portarlo su.
Il ragazzo obbedí e s’incamminò verso la cima del colle: sapeva di doversi sbrigare perché il cibo non si raffreddasse. E poi, era ansioso di tornare per avere la sua parte. Cosí salí piú svelto che poté, senza inciampare né versare nulla.
Quando comparve con il piatto coperto, invece di limitarsi a chinare il capo per fargli capire che poteva posarlo, Ravi lo stupí rivolgendogli la parola. La sua voce era roca, la usava cosí di rado, ed era evidente che parlare gli costava un grande sforzo.
Con voce gutturale, chiese: – Se ne sono andati?
Il ragazzo annuí, sí.
– Sei sicuro?
Il ragazzo annuí di nuovo.
Allora Ravi prese il piatto, e addirittura mugolò un grazie, aggiungendo: – Di’ a tuo padre che stasera non verrò giú.
Sí, il ragazzo annuí ancora una volta. Adempiuto al suo compito, volò giú per il pendio verso la propria cena, e mentre saltava di sasso in sasso lanciò tre fischi acuti per sottolineare la sua libertà. I cani gli andarono incontro abbaiando, anch’essi affamati.
Su nella casa bruciata, Ravi finí di mangiare e posò il piatto sul gradino, poi estrasse un biri dal taschino della camicia, lo accese e si appoggiò a uno dei montanti della veranda tuttora in piedi, e attese che nella famiglia lí sotto cessassero i rumori e la luce si ritirasse dalla valle e risalisse lungo i crinali finché rimasero illuminate dal sole soltanto le cime dei colli. Quando anch’esse svanirono nel crepuscolo, rimase seduto lí, aspettando che si zittissero gli ultimi richiami di un cuculo solitario e i fruscii dello scoiattolo volante mentre sbucava dalla grondaia sotto cui viveva e si lanciava nell’aria della sera dove i pipistrelli si avventavano a tuffo sugli insetti.
Spense il biri, estrasse dal taschino una scatola di fiammiferi e cominciò a giocherellarci, meditabondo; sembrava un monaco col suo rosario. Quando rialzò gli occhi scoprí che il crepuscolo lanuginoso lo aveva intessuto nella scena serale, inestricabilmente. Il silenzio era calato sul cascinale e la luce del modesto fuoco si era affievolita e spenta.
Si alzò in piedi e si fece strada verso i cespugli che invadevano la casa. Abbassò i calzoni e si udí uno sgocciolio di urina sulle pietre. Poi tornò sui suoi passi. Prese il piatto vuoto e lo portò all’altro capo della veranda, nell’unica zona che poteva ancora essere considerata una stanza: aveva muri, un tetto, e dentro c’erano la branda di corda che Bhola gli aveva portato dalla rimessa lí sotto e le poche cose sottratte alle fiamme, allineate contro la parete annerita. Ravi si diresse a tentoni verso un tavolo, sfregiato da coltelli e mannaie nel suo passato di tavolo da cucina, su cui era posata una lampada a cherosene. La accese – ecco, un altro fiammifero andato – e passò in rassegna quei poveri oggetti: una poltrona troppo imbottita dove non si sedeva mai, un attaccapanni a stelo al quale non erano appesi né cappelli né bastoni da passeggio – e vide che erano ancora tutti lí, muti e inutilizzati, come se aspettassero il giorno in cui sarebbero stati fatti a pezzi e bruciati.
Tutto ciò che la casa un tempo conteneva, e c’era stata roba in abbondanza, se n’era andato, proprio come le valigie di cuoio che venivano allineate nel vestibolo – il vestibolo! – pronte per essere portate fuori, oltre la pendola del nonno e i ritratti degli antenati, fotografie acquerellate che s’inclinavano dalla parete per guardare in basso mentre suo padre sganciava dall’attaccapanni il bastone da passeggio preferito e il colbacco di astrakan che amava indossare durante i viaggi, poi emetteva il fischio leggero, educato, con cui sollecitava la moglie trattenuta nel suo spogliatoio – il suo spogliatoio! – da un qualche ritocco dell’ultimo momento all’abito.
Mentre aspettavano che riemergesse, il padre si girò a guardare il ragazzino che se ne stava seminascosto dietro la porta della sua stanza, con una gamba attorcigliata all’altra, e gli lanciò un’occhiata scherzosa mentre si posava allegramente sul capo il colbacco di astrakan. – Ti piace? Devi sapere che l’ho comprato a Berlino, sul Kurfürstendamm. Sei capace di dirlo? «Kur-fürst-en-damm»? Si era messo a nevicare cosí sono entrato in questo negozio elegantissimo e un signore molto gentile è sbucato dal retro per chiedermi cosa volevo. Gliel’ho indicato e quando sono uscito dal negozio ce l’avevo in testa… proprio cosí! – e gli lanciò un’altra occhiata ammiccante. – Un giorno te lo lascerò portare, quando sarai capace di dire «Kur-fürst-en-damm», – propose, e il bambino sapeva che quella promessa sarebbe evaporata insieme a tutte le altre e distolse gli occhi imbarazzato dalla disinvoltura con cui suo padre mentiva.
Infine comparve sua madre, con un intenso profumo di fiori, rosa e giglio e mughetto, e indosso un sari verde salvia con un bordo sottile ricamato. – Dobbiamo sbrigarci o perderemo il treno, – strillò, come se fossero stati gli altri a farla aspettare.
Hari Singh, in attesa ai piedi delle scale, corse su, si sistemò una valigia sul capo, ne afferrò altre due con le mani e le depositò nell’auto che li avrebbe portati alla stazione di Dehra Dun. L’autista salí a prendere il resto del bagaglio.
Ai piedi delle scale i genitori si ricordarono di voltarsi a salutare il ragazzo. – Si parte! – annunciò il padre. – Fa’ il bravo! – aggiunse, e la madre gridò: – Ti porteremo… – ma non ricordando che cos’aveva promesso di portargli lasciò la frase sospesa a metà. Del resto non aveva importanza, perché qualunque giocattolo costoso e complicato gli avessero portato, l’avrebbero chiuso per sicurezza in un armadio subito dopo averlo aperto e brevemente offerto alla sua titubante ammirazione.
Lui scese le scale di sghembo fino alla porta d’ingresso e rimase a guardare l’auto che avanzava lentamente sul viale inghiaiato, poi scompariva sotto le querce che dietro di essa si richiusero come pesanti tendaggi da palcoscenico. Per un tratto riuscí a udire il motore che arrancava su per la collina fino alla carrozzabile, poi rinunciò cercando di immaginarne il percorso. Se fosse stato buio avrebbe visto le luci dei fari mentre scendevano lentamente verso valle, ma era ancora pomeriggio.
E finalmente poté liberare il respiro che aveva trattenuto nel petto finché si era gonfiato come un palloncino, premendogli contro le costole. Un palloncino che stringeva fra pollice e indice e che ora poté lasciar andare. Si sgonfiò con un sibilo, torcendosi, avvitandosi e ondeggiando, finché planò svuotato nella norma flaccida della gommosa normalità.
Non lui soltanto, ma tutti e tutto sperimentarono quell’attimo. Hari Singh, riscuotendosi, si levò il copricapo di tela ed eccolo subito ben eretto, dismessi la postura e il contegno del domestico. Salí i gradini della veranda e gli gridò: – Forza, forza! Andiamo a caccia di tigri, noi due!
Non che l’avrebbero fatto – Hari Singh non manteneva le sue promesse piú di quanto facessero i genitori del ragazzo, ma il solo udire quella proposta, stentorea e generosa, cambiò l’aria, l’atmosfera, e Bhola, il figlio di Hari, che era rimasto ad aspettare dietro i cespugli, con la fionda in mano, corse a vedere se Ravi adesso sarebbe uscito a giocare.
Fuori c’era la libertà. Fuori c’era la vita a cui lui intendeva appartenere – la vita dei grilli che schizzavano fuori dall’erba, degli uccelli che volteggiavano decine di metri piú in basso nella valle o si libravano verso le cime dei monti, degli animali invisibili nel sottobosco che di tanto in tanto rivelavano la loro presenza con un fruscio o un repentino scoppio di strida o richiami agitati; le piante che si adattavano alle loro vegetali pulsioni e obiettivi, quasi impercettibilmente, le rocce e i sassi, apparentemente inerti e tuttavia misteriosamente partecipi del cambiamento e movimento costante della terra. Bastava essere silenziosi, accorti, osservare e intuire – e quello era l’unico talento di Ravi, a quanto era dato vedere.
Fuori, Ravi aveva osservato un serpente mentre si liberava della sua vecchia pelle, emergendone in una nuova strisciante lunghezza, abbandonando sul sentiero un sudario, trasparente come un velo, fragile come vetro. Una volta si era arrampicato su un albero le cui infiorescenze cilindriche color crema attiravano schiere di formiche pronte a saccheggiarne la favolosa dolcezza e la linfa, schiere che non si sarebbero lasciate distogliere dall’intervento di un bastone, un ramoscello, e avrebbero insistito fino a raggiungere il tesoro, e in esso affogare.
Fuori, i ragni tessevano le loro tele nell’erba alta, un lavorio impossibile da osservare senza farsi muti, immobili, quasi senza respiro e invisibili, come quando aveva visto una mantide religiosa su una foglia dell’identica sua sfumatura di verde: stringeva fra le mandibole guardinghe il corpo rotondo, striato di un’ape, il cui ronzio continuò anche mentre veniva divorata, e cessò quando girò gli occhi verso di lui e si rese conto di essere osservata.
E c’era sempre l’imprevisto – sollevare una pietra piatta e trovarci sotto un inaspettato scorpione che subito si scuoteva e si preparava all’attacco; o imbattersi nell’eruzione, dal terriccio di scure foglie di tabacco, di una colonia di funghi, con il loro pallore spettrale e cuffie, cappelli e berretti, come profughi arrivati durante la notte.
Oppure in un branco di scimmie argentate, con la mascherina nera, che balzavano da un albero all’altro planando con urla di guerra, o si esercitavano come trapezisti in un circo, per poi sparire come attori da un palcoscenico predisposto dalla foresta.
E ovunque c’erano le pietre – schegge di ardesia azzurre e piatte, ciottoli resi irresistibilmente setosi da pioggia e sole che si potevano raccogliere e classificare in base alla misura e al colore in un numero infinito di forme e modelli, mai replicati o fissi.
Infinito – salvo essere come Bhola che portava sempre con sé una fionda e la puntava quasi automaticamente quando vedeva un colombo o uno scoiattolo che si potevano abbattere con un colpo. Ravi non era fatto per quel tipo di sport, un mucchietto di piume o pelo morti erano innaturali per lui quanto per la creatura uccisa. A Ravi interessavano solo le variazioni e le mutazioni degli esseri viventi, le loro innumerevoli possibilità.
Era come se un sipario calasse su tutto questo, o addirittura lo cancellasse, quando il monsone si levava con nembi tempestosi dalla valle riarsa e inghiottiva i colli, li invadeva con una bruma opaca in cui solo di tanto in tanto spuntava la cima di un pino o la vetta di un monte, e infine scatenava rovesci che costringevano Ravi a sospendere i suoi vagabondaggi e lo confinavano in casa per giorni e giorni, assordato dalla pioggia che tambureggiava sul tetto e scrosciava dentro le gronde e le tubature per poi precipitare vorticosamente a valle.
Tutto all’interno della casa s’inumidiva, la patina azzurrina della muffa strisciava furtivamente su ogni oggetto lasciato fermo anche per pochissimo tempo: scarpe, valigie, scatole, le logorava completamente. Le lenzuola del letto erano appiccicaticce quando la sera ci si infilava e nell’oscurità risuonava la stridula cacofonia dei grilli del grande albero che non aspettavano che questo, la loro stagione. Dallo stagno nella radura sottostante saliva il muggito giulivo delle rane toro. Sveglio nel suo letto, in ascolto, Ravi avrebbe voluto scivolare fuori con la grossa torcia di Hari Singh e catturarle nel fascio luminoso, ma forse sarebbe bastato il chiarore delle lucciole che svolazzavano a migliaia tra gli alberi. Rabbrividiva per il freddo e l’eccitazione.
Ma Hari Singh lo chiudeva dentro a chiave ogni sera, e durante il giorno gli riempiva le orecchie con storie di leopardi che uscivano dalla foresta e assalivano ogni povera capra o vitello lasciati fuori, e si diceva che portassero via anche i fieri cani da pastore himalayani che la gente teneva di guardia alle case e al bestiame. Cos’avrebbe potuto fare un ragazzino magro come Ravi contro simili creature?, gli domandava Hari Singh mentre gli serviva il pranzo a un capo del grande tavolo, restandogli accanto con un canovaccio sulla spalla. Mentre lui piluccava il cibo, Hari Singh raccontava dei tempi gloriosi in cui il nonno di Ravi lo prendeva con sé nelle battute di caccia e gli consentiva di portare i fucili con cui sparava agli orsi, ai cervi e alle pantere le cui pelli, corna e teste dagli occhi vitrei ora fissavano il ragazzino che consumava di malavoglia il pasto. Naturalmente mangiava pochissimo, perché restava ad ascoltare incantato, cosí Hari Singh smise di apparecchiare il tavolo con i bicchieri e l’argenteria prescritti, e prese a servirgli i pasti a un tavolinetto nella veranda dove non sarebbe stato separato da quel mondo esterno che gli forniva tutto il nutrimento di cui aveva bisogno. Nei giorni di pioggia gli metteva il cibo in un piatto e lo sistemava su uno sgabello in un angolo della cucina accanto alle braci fuligginose della stufa, e intanto lui si fumava un biri, cosa assolutamente proibita in presenza dei genitori.
L’unico visitatore durante le loro lunghe assenze estive era l’insegnante assunto per seguire Ravi nei compiti a casa, un certo signor Benjamin, che insegnava in uno dei tanti collegi allineati lungo la strada principale e arrotondava i suoi guadagni dando lezioni private. Ai suoi genitori andava a genio perché era sempre in giacca e cravatta e parlava quello che era quasi «un buon inglese», cosí non indagarono granché sulle sue capacità di insegnare al figlio la matematica, che non era il suo forte (né del signor Benjamin). Ravi avrebbe preferito altre materie, ornitologia, per esempio, o geologia, ma il signor Benjamin si considerava superiore a simili frivolezze. Si schiariva la gola arrivando, appendeva il bastone da passeggio e l’ombrello, si puliva rabbiosamente le scarpe sullo zerbino per eliminare il sudiciume che avevano raccolto lungo la strada fino alla casa sul colle, domandandosi ad alta voce cosa gli fosse preso ai genitori di Ravi per vivere cosí lontani dal centro civilizzato di Mussoorie (anche se sapeva benissimo che il padre di Ravi aveva ereditato la casa da suo padre, che un tempo possedeva un birrificio da quelle parti ed era solito venire da Bombay con la scusa di controllare la fabbrica ma in realtà per la caccia grossa e i suoi trofei). Dopodiché il signor Benjamin diceva a Ravi di aprire i libri e mettersi al lavoro.
Mentre il pomeriggio trascorreva stancamente, Ravi si curvava sempre piú scoraggiato sui quaderni sporchi e macchiati, masticando la matita fino a staccarne delle schegge che dovevano essere sputate, cosa per cui il signor Benjamin gli assestava un veloce colpetto in testa con il righello. Udiva i figli di Hari Singh nella radura sottostante, i chicchirichí del loro gallo, i belati delle capre, e constatava sempre piú avvilito che la luce pomeridiana nel frattempo si affievoliva.
Ma il signor Benjamin si tratteneva finché alle quattro, puntualmente, Hari Singh gli portava una tazza di tè caldo schiumante di latte e denso di zucchero. Ah-h, sospirava il precettore, e abbandonava i modi professionali quanto bastava per versarne un goccio dalla tazza nel piattino, soffiarci sopra e poi ingollarlo con aria beata. Ah-h, ah-h. Certo non l’avrebbe fatto davanti ai suoi datori di lavoro, ma naturalmente Ravi non lo era e il suo solo pensiero era che bisognava in qualche modo...