Storia umana della matematica
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Storia umana della matematica

  1. 200 pagine
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Storia umana della matematica

Informazioni su questo libro

I matematici sono uomini come tutti gli altri, alle prese con un talento spesso precoce, imperativo e solitario. Cosí le loro grandi scoperte sono anche vicende di padri e figli, balistica e cibernetica, amori e fallimenti, ostinazione e fortuna. Attraverso le storie di sei matematici veri e uno finto, Chiara Valerio ci racconta la seduzione della piú inafferrabile delle scienze esatte. Se la letteratura nasce quando qualcuno urla al lupo e il lupo non c'è, e la fisica comincia quando qualcuno capisce come accendere il fuoco strofinando le pietre, la matematica quando nasce? La matematica nasce perché gli esseri umani sono impazienti. Torneranno i lupi, saranno piú di noi? Quanto ci vuole per accendere il fuoco con i sassi? Gli esseri umani hanno bisogno di segnare il tempo, un prima un dopo. E per segnare il tempo si sono inventati i numeri: allineare sassolini uno dietro l'altro, annodare un filo, stabilire una successione. È questa la storia avvincente e vertiginosa che ci racconta Chiara Valerio, attraverso le vite di sette matematici - sei veri e uno finto. Perché la matematica è una forma di immaginazione che educa all'invisibile, e allora ripercorrere le vite di chi ha così esercitato la fantasia ci permette di capire quella grammatica che descrive e costruisce il mondo ricordandoci costantemente che siamo umani. Per capire come János Bolyai, matematico, abbia risolto il problema delle parallele, bisogna tornare indietro di una vita, a Farkas Bolyai, suo padre, matematico. Senza Mauro Picone, giovane matematico, sull'altopiano della Bainsizza - lo stesso di Emilio Lussu - l'esercito italiano non avrebbe mai potuto fare la guerra. Se Alan Turing, il risolutore di Enigma, desiderava ardentemente essere una macchina, Norbert Wiener, il padre della cibernetica, non avrebbe mai e poi mai voluto essere un bambino prodigio: entrambi tuttavia progettavano automi. Se Lev Landau, fisico e matematico valentissimo, non muore in un incidente sulla strada che da Mosca porta a Dubna, è perché in ospedale, oltre ai medici migliori di tutte le Russie, arrivano i fisici piú preparati di tutte le Russie. Chiara Valerio ci dimostra come ragione e sentimento, irrazionale e razionale, reale e immaginario non siano concetti opposti ma possibilità dell'essere. La capacità di calcolare il mondo lo determina nel momento stesso in cui lo descrive, attraversando i confini, le epoche storiche e le generazioni. La matematica nasce perché gli esseri umani sono fatti della stessa sostanza di cui è fatto il tempo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806230067

1. Vite parallele

Farkas Bolyai, matematico, 1775-1856
János Bolyai, matematico, 1802-1860
Di János Bolyai non esistono immagini su cui gli studiosi concordino. Quindi non esistono immagini. Fino al 2009, quando ero a Cambridge per la ricerca di post-dottorato con la quale si sarebbe conclusa la mia carriera di matematico, l’unica pagina di Wikipedia che accennava alla questione János era in ungherese. Quindi, in fondo, fino a tempi recenti, non esistevano neppure cenni.
Su di lui, tuttavia, spende qualche riga Cesare Lombroso che ne L’uomo di genio sotto la caratteristica dell’originalità scrive Bolyai, per la sua invenzione della quarta dimensione nella geometria non euclidea, è stato chiamato il geometra della follia e paragonato a un mugnaio che cerchi di tirare fuori la farina dalla sabbia. E, nel capitolo Genio e follia, aggiunge Tutti i matematici ammirano il grande geometra Bolyai, le cui eccentricità appartenevano a un carattere folle, una volta sfidò tredici ufficiali a duello, si batté con loro e tra un duello e l’altro suonava il violino, l’unico pezzo d’arredamento di casa sua. Quando andò in pensione si stampò il manifesto funebre, lasciando in bianco la data, e si costruí la bara. (…) impose agli eredi di piantare un melo sulla sua tomba in ricordo di Eva, di Paride e di Newton. Costui era il grande riformatore di Euclide. Prima di tutto, un pettegolezzo. Cesare Lombroso trae le sue notizie da Wilfrid de Fonvielle che però, nel 1879, in Comment se font les miracles en dehors de l’«Église», per spiegare al lettore qual è il senso e chi è l’inventore della geometria non euclidea, comincia con le lettere tra Farkas Bolyai, padre di János, e Carl Friedrich Gauss, il piú grande matematico del tempo, e conclude con le bizzarrie caratteriali di János e con la storia del melo piantato sulla tomba, senza interruzioni o salti, come se i due, padre e figlio, fossero una sola persona. János Bolyai muore nel 1860, appena diciannove anni prima del libro di Fonvielle e mi era sembrato strano allora, e ancora oggi, che non solo non esistesse e non esista una sua immagine accertata ma che già a pochi anni dalla morte János non avesse un’identità propria. Costui era il grande riformatore di Euclide. Occorre quindi tornare indietro di una vita.
Farkas Bolyai nasce in Transilvania nel 1775 in una famiglia che era stata benestante e che, come pure il conte Dracula, aveva opposto ferma resistenza ai turchi invasori. Nonostante l’economia della famiglia non sia piú cosí florida, al piccolo Farkas, e dal padre stesso, viene impartita una educazione minuziosa. A sette anni, Farkas viene iscritto alla scuola calvinista di Nagyszeben dove i professori, subito, si accorgono dell’eccezionalità del bambino. È veloce con le lingue e velocissimo nei calcoli. L’eccezionalità del piccolo Farkas diviene evidente anche al resto dell’Ungheria (chiamo e continuerò a chiamare Ungheria una cosa che Ungheria non era) quando, compiuti dodici anni, diventa a sua volta precettore di Simon Kemény, rampollo di una delle piú nobili, colte, prestigiose e potenti famiglie della Transilvania, come pure la famiglia del conte Dracula. Nel 1790, Farkas e Simon vengono mandati entrambi al collegio calvinista di Kolozsvár e lí resteranno per cinque anni. Della vita e degli studi di Farkas in quei beati anni del castigo non si sa molto, tuttavia, oltre le mura del collegio, soffiano leggeri e freschi (ma incessanti) i venti della Rivoluzione francese. L’Ungheria infatti, libera dagli ottomani da nemmeno un secolo, è finita, dopo una breve indipendenza, sotto il dominio asburgico (con le intemperanze poi ben incarnate dal conte Andrássy nel film Sissi – La giovane imperatrice). Farkas, nonostante sia ormai un aristocratico d’elezione, si schiera al fianco delle classi lavoratrici per sostenere la cultura e la lingua ungherese. «Libertà, uguaglianza e fratellanza» diventano «Conoscenza, libertà e felicità». Il giovanissimo illuminista sceglie la ragione come punto di osservazione dell’universo e dell’uomo. E sceglie la matematica, nonostante in collegio il professore di filosofia faccia di tutto per tenerlo lontano. Farkas è uno studioso vorace. Gli interessano la geometria, le lingue, l’ingegneria e il teatro, tanto che, finita la scuola, per qualche settimana considera l’opportunità di intraprendere la carriera di attore. E ci pensa fino a quando il principe Kemény non gli propone di seguire Simon all’estero per continuare gli studi, e cosí, nel 1796, a ventuno anni, Farkas parte per la Germania. Il conte Dracula invece ha dovuto attendere di essere morto da molti secoli prima di poter lasciare la Transilvania.
Nel mio iperuranio che sempre piú perde la sua originaria e ambita connotazione platonica per assumere quella piú naturale di un album delle figurine Panini tipo calciatori, l’incontro tra Farkas e Gauss sta nella pagina che raccoglie altri incontri importanti, miei o di conoscenti, o anche di estranei. L’epigrafe di questa sezione, che immagino come le didascalie in guisa di iscrizione latina sulla pietra nelle incisioni di Piranesi, è l’osservazione di Ludovica Koch, Nella vita di ognuno fa irruzione almeno una volta l’assoluto, con le sue spietate pretese, apre i sensi a mirabili percezioni, segna le grandi svolte della storia personale e rende per sempre insopportabile la realtà di ogni giorno. La frase viene da un saggio su Selma Lagerlöf. Senza sapere chi fosse, conoscevo Selma Lagerlöf già da bambina, perché, essendo piuttosto appassionata di atlanti, languivo davanti a un cartone animato nel quale un bambino pestifero, ridotto per punizione alla misura di un pollice, girava un paese del grande Nord a dorso di un’oca. Volava su un atlante, proprio come me. Il bambino era Nils Holgersson protagonista de Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson, un romanzo per ragazzi. Ma si potrebbe dire, di certo per me, romanzo e basta, visto che l’ho letto a vent’anni e non ho mai piú restituito la copia rilegata in vilpelle verde bosco alla mamma di Maria Letizia che, con tanta cortesia, l’aveva sottratta a uno scaffale della sua libreria di San Marco dei Cavoti.
Riguardo gli atlanti, oltre a una precoce passione per la cartografia e per i cambiamenti di scala, devo confessare che erano il necessario strumento, piú esattamente, la chiave, per tornare a casa. Le volte che mia madre rientrava prima di me, si acquattava dietro la porta d’ingresso e appena suonavo il campanello, chiedeva, come parola d’ordine, la capitale di un paese straniero, spesso esotico e, per un suo difetto morale e la convinzione che la geografia fosse una storia piú affidabile, anche nominalmente ambiguo. Germania?, Berlino, Est o Ovest?, Corea?, Seul, Nord o Sud?
A distanza di anni – quasi venti, come per Fonvielle – non ricordo di aver mandato a memoria la frase di Ludovica Koch, mi sembra di averla saputa naturalmente, da sempre. L’assoluto non è bene e non è male, è. E lo stesso mi sembra di Selma Lagerlöf che ha scritto del bambino che dal cielo trasfigura le isole in farfalle come io – come tutti – le nuvole in draghi e cavalli. Mi sembra di averla saputa naturalmente.
L’assoluto, nella pagina dell’album – pagina intitolata «l’Assoluto», quasi fosse appunto una squadra di calcio e di certo, se lo fosse, i calciatori avrebbero divise con la casacca dorata e i pantaloncini bianchi –, irraggia come le rappresentazioni della Pentecoste. Alla fine di ogni dardo dorato un rettangolo, sempre d’oro, che incornicia le figurine. L’assoluto allunga i suoi raggi di luce sul passato e i dardi dorati toccano Silvia e Giulia (le mie sorelle), un integrale ellittico di seconda specie, Amleto, Mrs Dalloway, i ricci di mare, Witold il gatto, e tutte le persone delle quali ero, sono e sarò innamorata.
Quando mi innamoro di una persona mi rendo conto di esserlo da sempre, e che lo sarò per sempre.
Molti dei miei assoluti, tuttavia, durano pochi minuti, quindi due pagine per la squadra dell’Assoluto sono sufficienti.
Farkas, a Gottinga, nel 1796, incontra Gauss di due anni piú giovane ma impegnato nella soluzione di un problema fermo da duemila anni, ovvero, quali poligoni siano costruibili con riga e compasso. Farkas e Gauss diventano amici e si scriveranno lettere per tutta la vita.
L’incontro con Gauss indirizza – converte – Farkas allo studio della matematica. La sua facilità nell’imparare le lingue, il suo amore per la letteratura e il teatro, la capacità di insegnare e recitare, scolorano. La matematica brilla come un sole e il resto rimane al buio. Mentre Gauss è immerso nelle sue Disquisitiones Arithmeticae (pubblicate solo nel 1801), Farkas si dedica alla geometria, in particolare agli assiomi della geometria, in particolare al V postulato. Si esercita alle parallele.
In una delle sue formulazioni piú note il postulato delle parallele, o V postulato, recita Per un punto non giacente su una retta né sul suo prolungamento, non è possibile tracciare piú di una parallela alla retta data. Il problema che ossessiona i matematici, da Euclide in poi, è se l’esistenza dell’unica parallela debba essere un assioma, una verità, o possa essere derivata dagli altri postulati. Per stabilirlo i matematici, i curiosi e i virtuosi (soprattutto avvocati, la storia della matematica è puntinata di giuristi esperti di calcolo) hanno percorso sostanzialmente due strade. Dimostrare il V postulato assumendo gli altri come ipotesi, dedurlo cioè dai primi quattro, o semplificare l’enunciato euclideo in una forma che ne rivelasse, con evidenza, la natura imperitura di postulato. Farkas stesso è autore di un fortunato enunciato che recita Per tre punti non allineati è sempre possibile tracciare una e una sola circonferenza. Nemmeno questo però evidentemente vero. Geometria è verità, verità è geometria. L’evidenza è qualcosa che prima di tutto, prima pure dell’astrazione, ha a che fare con gli occhi. E anche senza capire nulla di geometria si può concordare che il problema delle parallele è il problema dell’infinito. Nessuno per esempio può vedere cosa accade oltre il bordo del foglio sul quale le parallele che va tracciando non s’incontrano. Se poi siano piú sole le parallele o i numeri primi, chi lo sa.
Da bambina, papà mi parlava delle parallele e io eccepivo che i binari, all’orizzonte, si incontravano e, dunque, che fine fa il treno all’incrocio laggiú?
Per due anni, Farkas studia, definisce, ipotizza, dimostra e soprattutto fallisce. La sua vita piena di curiosità si contrae a un foglio i cui margini vanno restringendosi giorno dopo giorno. Nel 1798 Kemény, in grosse difficoltà economiche, riesce a far rientrare in Transilvania solo il figlio Simon. Farkas rimasto in Germania senza risorse, e stremato dallo studio infruttuoso, rientrerà l’anno successivo, a piedi. Intanto, l’amico Gauss ha riflettuto sul V postulato ed è scettico. Poiché non è possibile dedurlo dagli altri, esso può essere o non essere annoverato nel sistema logico-deduttivo di Euclide. Può essere o può non essere (questo è il problema, ripete Gauss a Farkas, anche se adorava Walter Scott piú di Shakespeare, che gli pareva troppo cupo).
In Ungheria, a Koloszvár, Farkas trova lavoro all’università, continua a studiare e a fallire, spedisce a Gauss dimostrazioni del V postulato e Gauss risponde che sono vie che mettono in dubbio l’esattezza della geometria e dunque di lasciar perdere. Farkas non abbandona né la sua ossessione, né il suo metodo, che ormai, quasi, coincidono. Tuttavia, nei due anni a Koloszvár, conosce una donna, la sposa e nel 1802 nasce János. Anche János, come Gauss, è l’assoluto, ma Farkas non se ne accorge subito. Le rette parallele e i simboli tracciati sui quaderni sbiadiscono, come bagnati dalla pioggia, come sbavati da un infante. Farkas è cosí impegnato, di nuovo, a sopravvivere, che sotto le pressioni del padre accetta un lavoro alla scuola calvinista dove era stato da bambino e dove rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. La vita di Farkas si ferma, il lavoro è pagato miseramente e deve farne altri. Scrive commedie che godono di un buon successo, gestisce una locanda, disegna e produce stufe in ghisa e piastrelle, le vende. Se non fosse per il V postulato che ogni tanto torna a crocchiare la notte, come un tarlo in un tavolo, Farkas, pur considerando una vita coniugale faticosa per il carattere e la cagionevolezza della sposa, potrebbe essere felice.
La matematica balugina nelle lettere a Gauss, nella compilazione del suo manuale di matematica, il Tentamen, e, definitivamente, nell’istruzione di János, del quale si fa carico, come suo padre aveva fatto con lui.
Farkas istruisce János con estrema cura. D’altronde il fanciullo mostra capacità fuori dal comune. A quattro anni conosce la funzione seno e distingue diverse figure geometriche, chiama le costellazioni per nome, come fossero amici. A cinque anni sa leggere, a sette comincia a suonare il violino e in breve esegue concerti complicati. Nel 1816 Farkas scrive a Gauss perché vorrebbe che János diventasse un matematico. Bisogna essere precisi con le preghiere, ma Farkas non lo sa (è un illuminista, è tornato a piedi dalla Germania, che ne sa delle preghiere?), spera solo che il vecchio compagno di università, ormai matematico osannato, prenda il figlio sotto la sua ala protettrice e prosegua il brillante percorso educativo che lui ha cominciato. Gauss si tira indietro e János nel 1818 viene ammesso all’accademia militare di Vienna, direttamente al quarto anno vista la brillantezza del suo esame. In due anni è il secondo del suo corso. E per questo gli pagano un altro anno di studi. L’accademia di Vienna è rinomata per l’alto livello degli studi matematici e infatti János ne sviluppa e coltiva alcuni campi. La geometria, e nell’ambito della geometria il problema del V postulato. Farkas lo dissuade, gli indirizza lettere di fuoco, ha paura. Il 4 aprile 1820 gli scrive Non pensare alle parallele. Ne ho percorso tutta la strada. Ho misurato quella notte senza fine e tutta la luce e tutta la felicità della mia vita si sono spente. E ancora Per l’amor di Dio, smettila! È una cosa da cui tenersi lontani, come dalla passione fisica, perché anche questa occuperà tutto il tuo tempo e ti toglierà la pace dello spirito e la felicità della vita. Nel 1821 muore la madre e l’anno successivo János si diploma. Nel 1823 lo mandano a Temesvár, in Ungheria, come sottotenente all’ufficio fortificazioni.
Nella lettera del 3 novembre 1823 da Temesvár, János scrive al padre Ho creato un nuovo universo dal niente. Tutto quello che ti ho mandato finora è un castello di carte rispetto alla torre. Sono convinto che tutto ciò mi porterà alla gloria quasi avessi già completato la ricerca. Farkas respira, smette di dissuadere János e nonostante non sappia cosa siano le preghiere, si sente esaudito. Risponde al figlio che se davvero cosí stanno le cose non deve perdere tempo e deve rendere pubbliche le sue scoperte, primo perché le idee passano facilmente da uno a un altro, che può anticiparne la pubblicazione, e secondo, e c’è qualche verità in questo, molte cose hanno un’epoca nella quale sono rinvenute allo stesso tempo a latitudini differenti, proprio come le violette che a primavera fioriscono dovunque. In effetti scoppia la primavera del parallelismo. Da Gottinga a Est, le violette si assiepano intorno al 1830. La corrispondenza di Gauss e Schumacher sulle superfici a curvatura variabile è del luglio 1831. L’Appendix di János con la nuova geometria è del 1832. Il Messaggero di Kazan con lo scritto di Lobačevskij intitolato Sui principî della geometria è del 1830. Le violette in verità erano già fiorite, nel 1733, nel giardino di Girolamo Saccheri (sacerdote, membro della Compagnia di Gesú, professore di matematiche prima a Torino, poi a Parma), che però non pensa di avere il pollice verde e crede stiano lí da sempre. Quindi, con l’intento di vendicare Euclide – lo studio di Saccheri si intitola Euclide vendicato da ogni offesa (Euclides ab omni naevo vindicatus) –, tenta la dimostrazione per assurdo, suppone che esistano almeno due parallele, e si ritrova in mano un’altra geometria. Ma non la vede. Farkas Bolyai invece, primo tra tutti, vede benissimo.
Nonostante Fonvielle faccia una mistura grossolana, per esigenze narrative o frettolosità, della biografia di Farkas e di quella di János, ciò che mi aveva emozionato e sempre mi emoziona nei due matematici è la permeabilità delle loro esistenze. Anche nella notizia biografica di Friedrich Schmidt, architetto a Temesvár, che precede l’edizione francese dell’Appendix non c’è solo la vita dell’autore, ma pure quella del padre, perché è Farkas che mette le carte in mano a János per erigere il castello.
Le carte da gioco di János sono quarantatre e si chiamano paragrafi, János ci gioca, tutto solo, per montare La scienza assoluta dello spazio indipendente dalla verità o dalla falsità dell’assioma XI di Euclide (che non potrà mai essere stabilita a priori). La chiosa tra parentesi è una gomitata a Kant. Dal punto di vista dell’iconografia popolare nell’epoca della riproducibilità tessile, la T-shirt con la stampa a priori undecidable for ever, versione inglese del latino di Bolyai, funziona ancora meglio come gesto non kantiano piú che non euclideo.
Farkas è un illuminista, János un irregolare, non possono soggiacere né al tempo né allo spazio assoluti di Kant, soprattutto non vogliono. Farkas scrive di non saper decidere quale geometria sia vera nella realtà. Se la geometria assoluta (S) costruita senza supporre l’unicità della parallela, o la geometria euclidea (∑) costruita con il postulato delle parallele. Scrive che se la geometria assoluta è reale, allora è possibile costruire una figura rettilinea equivalente a un cerchio, è possibile, con buona pace dell’espressione idiomatica, quadrare il cerchio.
Farkas ha ragione a sentirsi esaudito, le sue ossessioni matematiche sono sanate. Il V postulato di Euclide è una ipotesi ed esiste almeno una geometria nella quale si può quadrare il cerchio.
Nel 1832 viene pubblicata la prima versione del Tentamen di Farkas che porta in appendice la costruzione della nuova geometria di János. Farkas scrive ancora a Gauss che, non solo – per la seconda volta – ne ignora le richieste, ma risponde che lodare János equivarrebbe a lodare sé stesso, perché le sue dimostrazioni coincidono quasi interamente con le meditazioni che hanno occupato in parte la mia mente da trenta a trentacinque anni a questa parte. Sono molto contento tuttavia di essere stato anticipato in modo tanto notevole dal figlio del mio vecchio amico.
János viene promosso capitano, il grado piú alto al quale può aspirare. Non avrà altri riconoscimenti. La fredda accoglienza ricevuta per il suo lavoro e il laconico apprezzamento di Gauss lo abbattono tanto che il 16 giugno 1833, a trentun anni, viene messo in pensione e non tornerà mai piú nei ranghi dell’esercito austriaco. Costui era il grande riformatore di Euclide. Costui e anche suo padre.
Cosí Miroslav Navrátil ha, per esempio, vinto nove volte Wimbledon e non con una racchetta ma con la figlia Martina, Mike Agassi – nonostante abbia fallito con i primi tre – col figlio Andre è stato la rockstar del tennis mondiale, R...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia umana della matematica
  3. 0. Unisci i puntini
  4. 1. Vite parallele
  5. 2. Le dimensioni che contano
  6. 3. Come perdere al lottoo
  7. 4. Fatale e inevitabile
  8. 5. Morti due volte
  9. 6. L’uso umano degli esseri umani
  10. 7. In exitu
  11. Nota
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright