La Fille aux yeux d'or. La ragazza dagli occhi d'oro.
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La Fille aux yeux d'or. La ragazza dagli occhi d'oro.

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

La ragazza dagli occhi d'oro è, tra le "scene della vita parigina" di Honorè de Balzac, una delle piú misteriose e suggestive. Sullo sfondo della Parigi del 1815, assistiamo all'incontro di due creature d'eccezione: l'aristocratico de Marsay, abituato a piegare gli altri ad ogni proprio capriccio, e la splendida Paquita Valdès, la creola dagli occhi d'oro e dall'esotico incanto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806128166
eBook ISBN
9788858423653

La ragazza dagli occhi d’oro

A Eugène Delacroix, pittore

Capitolo primo

Fisionomie parigine

Uno fra gli spettacoli piú spaventosi è certamente quello offerto, nella sua generalità, dalla popolazione parigina, gente orribile a vedersi, spiritata, gialla, consunta. Non è forse Parigi un vasto campo incessantemente sconvolto da una tempesta d’interessi sotto i quali turbina una messe d’uomini che la morte falcia piú spesso che altrove, che rinascono sempre altrettanto fitti, con i visi sconvolti che esalano da ogni poro lo spirito, i desideri, i veleni di cui sono ingravidati i loro cervelli; non piú facce ma maschere: maschere di debolezza, maschere di forza, maschere di miseria, maschere di gioia, maschere di ipocrisia; tutti estenuati, tutti marcati dagli indelebili segni di un’affannosa avidità? Che cosa vogliono? L’oro? Il piacere?
Alcune osservazioni sull’anima di Parigi1 possono spiegare le cause della sua fisionomia cadaverica, che ha solo due età, giovinezza o decrepitezza; giovinezza scialba e incolore, decrepitezza imbellettata che vuol sembrare giovane. Gli stranieri, che non sono tenuti a riflettere, vedendo una tale folla di esumati provano dapprima un senso di disgusto per questa capitale, specie di vasta bottega di godimenti, ma ben presto neanche loro riescono piú a venirne fuori e vi restano volentieri a deformarsi. Poche parole bastano a giustificare fisiologicamente il colore quasi infernale dei volti parigini, perché Parigi è stata chiamata un inferno non soltanto per fare una battuta di spirito2. Prendete la definizione alla lettera. Qui tutto fuma, tutto brucia, tutto brilla, tutto bolle, tutto fiammeggia, evapora, si spenge, si riaccende, scintilla, crepita e si consuma. In nessun paese la vita fu mai piú ardente, né piú cocente. Questa natura sociale sempre in fusione sembra dirsi, appena finita ogni impresa: «A un’altra!», come dice la Natura a se stessa. E, come la Natura, questa natura sociale s’occupa d’insetti, di fiori di un giorno, di bagattelle, d’effimere, e getta anch’essa fuoco e fiamme dal suo eterno cratere. Forse, prima di analizzare le cause che imprimono una fisionomia speciale a ogni tribú di questa nazione intelligente e mobile, si deve segnalare la causa generale che ne decolora, illividisce e tinge piú o meno d’ombra e di viola gli individui.
A forza d’interessarsi a tutto, il parigino finisce col non interessarsi a niente. Poiché sulla sua faccia logorata dall’attrito non domina alcun sentimento, essa diventa grigia come l’intonaco delle case, impregnato d’ogni specie di polvere e di fumo. In effetti, indifferente la vigilia a quanto lo inebrierà il giorno dopo, il parigino, qualunque età abbia, vive come un bimbo. Brontola di tutto, si consola di tutto, s’infischia di tutto, dimentica tutto, vuole tutto, assaggia un po’ di tutto, prende tutto con passione, abbandona tutto con spensieratezza, re, conquiste, gloria, idoli, siano di bronzo o di vetro, cosí come butta via le calze, il cappello, la fortuna. A Parigi nessun sentimento resiste al gettito delle cose e la loro corrente obbliga a una lotta che allenta le passioni: qui l’amore è un desiderio e l’odio una velleità; non vi è altro parente che il biglietto da mille franchi, altro amico che il Monte di pietà. Il lasciar correre generale dà i suoi frutti e, nel salotto come nella strada, nessuno è di troppo, nessuno è assolutamente utile o assolutamente nocivo: gli sciocchi e gli imbroglioni, gli uomini di spirito e le persone probe. Tutto vi è tollerato, governo e ghigliottina, religione e colera3. Potete sempre esser accettato da tutti e, al tempo stesso, nessuno avverte mai la vostra mancanza. Chi, dunque, domina in questo mondo senza morale, senza fede, senza alcun sentimento, in questo mondo dal quale tuttavia partono e dove sfociano tutti i sentimenti, tutte le fedi, tutte le morali? Oro e piacere. Prendete queste due parole come lume e percorrete questa gran gabbia di gesso, quest’alveare di neri ruscelli, e seguite i serpentelli del pensiero che l’agita, lo solleva, lo travaglia. Guardate. Esaminate per prima la gente che non ha nulla.
L’operaio, il proletario, l’uomo che s’arrabatta con i piedi, con le mani, con la lingua, con la schiena, col solo suo braccio, con le cinque dita, per vivere, ebbene, proprio lui, che piú d’ogni altro dovrebbe economizzare sui principi essenziali della sua vita, va al di là delle proprie forze, aggioga la moglie a qualche macchina, logora il figlio inchiodandolo a un ingranaggio. Il fabbricante, quell’oscuro filo secondario che col suo impulso mette in movimento un popolo, il quale con le sue mani sporche tornisce e dora le porcellane, cuce abiti e vesti, lamina il ferro, pialla il legno, tesse l’acciaio, solidifica la canapa e il filo, sàtina i bronzi, orna di festoni il cristallo, imita i fiori, ricama la lana, ammaestra i cavalli, intreccia i finimenti e i galloni, intaglia il rame, dipinge le carrozze, arrotonda i vecchi olmi, rende vaporoso il cotone, soffia il tulle, corrode il diamante, lucida i metalli, trasforma il marmo in foglie, leviga i sassi, abbellisce il pensiero, colora, imbianca e annerisce tutto; ebbene, quel sottocapo è venuto a promettere a questo mondo di sudore e di volontà, di studio e di pazienza, un salario eccessivo, sia a nome dei capricci della città, sia al richiamo di quel mostro che si chiama Speculazione. Questi quadrumani si son messi allora a vegliare, patire, lavorare, imprecare, digiunare, camminare; si sono tutti sfiniti per guadagnare l’oro che li affascina. Poi, incuranti dell’avvenire, avidi di godimenti, contando sulle proprie braccia come il pittore sulla sua tavolozza, gran signori per un giorno, il lunedí sperperano tutti i loro soldi nelle bettole che formano una cintura di fango attorno alla città; la cintura della Venere piú impudica, una cintura continuamente allacciata e slacciata, dove, come al gioco, si sperde il periodico gruzzolo di un popolo che è tanto feroce nel piacere quanto tranquillo nel lavoro. Per cinque giorni, dunque, nessun riposo per questa parte attiva di Parigi! Si abbandona a movimenti che la fanno deviare, ingrossare, dimagrire, impallidire, zampillare in mille getti di volontà creatrice. E il suo piacere, il suo riposo sono poi una stancante dissolutezza, bruna di pelle, nera di botte, livida d’ubriachezza o gialla d’indigestione, che dura soltanto due giorni, ma che ruba il pane del domani, la zuppa della settimana, i vestiti della moglie, le fasce del bambino ridotte a stracci. Questi uomini, nati probabilmente per essere belli, perché ogni creatura ha una sua relativa bellezza, si sono irregimentati, fin dall’infanzia, al comando della forza, sotto il regno del martello, delle cesoie, della filatura, e si sono rapidamente vulcanizzati. Vulcano, con la sua bruttezza e la sua forza, non è forse l’emblema di questa brutta e forte nazione, sublime d’intelligenza meccanica, paziente quando vuole, terribile un giorno per secolo, infiammabile come la polvere e preparata all’incendio rivoluzionario dall’acquavite, e dotata infine di tanto spirito quanto basta per prendere fuoco a una parola capziosa che, per lei, significa sempre: oro e piacere! Ne fanno parte tutti coloro che tendono la mano a un’elemosina, a legittimi salari o ai cinque franchi accordati a qualsiasi genere di prostituzione parigina, insomma a qualsiasi danaro bene o mal guadagnato, ed è una folla di trecentomila individui. Senza le osterie, il governo non sarebbe forse rovesciato ogni martedí? Per fortuna, il martedí il popolo è intorpidito, cova il proprio piacere, non ha piú un soldo, e ritorna al lavoro, al pane secco, stimolato da un bisogno di procreazione materiale che gli diventa un’abitudine. Eppure esistono in esso fenomeni di virtú, uomini completi, Napoleoni ignorati, esempi tipici delle forze popolari portate alla piú alta espressione, uomini che riescono a sintetizzare la potenzialità sociale in un’esistenza nella quale il pensiero e il movimento si accordano piú che per effondervi un po’ di gioia, per difenderla dall’azione del dolore.
Il caso ha fatto un operaio economo, il caso l’ha gratificato di un pensiero e lui ha potuto guardare al futuro, ha incontrato una donna, si è ritrovato padre e, dopo qualche anno di dure privazioni, mette su una piccola merceria, affitta una bottega. Se malattie o vizi non gli sbarrano il cammino, se ha prosperato, ecco l’abbozzo di una vita normale.
Salutate4 prima di ogni altro questo re della dinamica parigina che ha assoggettato tempo e spazio. Sí, salutate questa creatura impastata di salnitro e di gas che dà figli alla Francia durante le sue notti laboriose, e durante il giorno moltiplica se stesso per il servizio, la gloria e il piacere dei suoi concittadini. Egli risolve il problema di bastare ad un tempo a una moglie amabile, alla famiglia, al «Constitutionnel»5, all’ufficio, alla Guardia nazionale6, all’Opéra, a Dio, ma per trasformare in danaro sonante «Le Constitutionnel», l’ufficio, l’Opéra, la Guardia nazionale, la moglie e Dio. Insomma, salutate un irreprensibile accumulatore. Si alza tutte le mattine alle cinque e percorre come un uccello lo spazio che separa il suo domicilio dalla rue Montmartre. Tiri il vento o tuoni, piova o nevichi, lui è al «Constitutionnel» e aspetta il pacco di giornali che si è impegnato a distribuire. Riceve quel pane politico con avidità, lo prende e lo porta con sé. Alle nove è in seno alla famiglia, propina un gioco di parole a sua moglie, le strappa un bacio, degusta una tazza di caffè o sgrida i bambini. Alle dieci meno un quarto, eccolo in municipio7. Là, appollaiato in una poltrona come il pappagallo sul suo mazzolo, riscaldato dalla città di Parigi, iscrive fino alle quattro, senza conceder loro una lacrima o un sorriso, le morti e le nascite di un intero quartiere. La felicità e l’infelicità del rione passano per la punta della sua penna come le opinioni del «Constitutionnel» viaggiavano poco prima sulle sue spalle. Nulla gli pesa! Tira sempre dritto, prende il patriottismo bell’e fatto nel giornale, non contraddice nessuno, urla o applaude con tutti gli altri, e vive come una rondine. Lavorando a due passi dalla parrocchia può, in una cerimonia importante, lasciare il posto a uno in soprannumero e andare a cantare un Requiem al leggio della chiesa di cui è, la domenica e i giorni di festa, il piú bell’ornamento, la voce piú imponente, e dove contorce con energia la grossa bocca facendo tuonare un gioioso Amen: è cantore. Alle quattro, libero dal lavoro ufficiale, torna per spargere la gioia e l’allegria nella bottega piú celebre che vi sia nel cuore della città. Sua moglie è felice, lui non ha tempo di essere geloso; è piuttosto un uomo d’azione che di sentimento. Cosí, appena arriva si mette a molestare le commesse che con i loro occhi vivi attirano molti avventori; si sollazza in mezzo agli ornamenti, ai fisciú, alla mussolina foggiata da quelle abili operaie; o, ancora piú spesso, prima di pranzo, serve un cliente, o copia una pagina di giornale, o porta all’usciere qualche cambiale scaduta. Ogni due giorni, alle sei, è fedele al proprio posto. Inamovibile bassocantante dei cori, eccolo all’Opéra, pronto a diventare soldato, arabo, prigioniero, selvaggio, contadino, ombra, zampa di cammello, leone, diavolo, genio, schiavo, eunuco nero o bianco, sempre abile nel produrre gioia, dolore, pietà, stupore, a gettare grida invariate, a tacere, a cacciare, a battersi, a rappresentare Roma o l’Egitto; ma sempre, in petto, merciaio. A mezzanotte, ridiventa buon marito, uomo, tenero padre; scivola nel letto coniugale, con l’immaginazione ancora tesa alle fallaci forme delle ninfe dell’Opéra, e sfrutta cosí a favore dell’amore coniugale le depravazioni della società e le voluttuose rotondità delle gambe della Taglioni8. Alla fine, se dorme, dorme in fretta, e sbriga il sonno come ha sbrigato la vita. Non è il dinamismo fatto uomo, lo spazio incarnato, il proteo della civilizzazione? Riassume tutto: storia, letteratura, politica, governo, religione, arte militare. Non è forse un’enciclopedia vivente, un grottesco Atlante, sempre in cammino, come Parigi, e che non riposa mai? In lui, tutto è gambe. Nessuna fisionomia saprebbe conservarsi pura in simili lavori. Forse l’operaio che muore, già vecchio a trent’anni, con lo stomaco bruciato dalle dosi progressive di acquavite, sarà considerato, secondo qualche filosofo fornito di buone rendite, piú felice del merciaio. Uno muore di colpo, l’altro a poco a poco. Dai suoi otto modi d’industriarsi, dalle spalle, dall’ugola, dalle mani, dalla moglie e dal commercio, quest’ultimo trae, come da altrettante fattorie, qualche bambino, qualche migliaio di franchi e la piú attiva felicità che abbia mai rallegrato un cuore d’uomo. Capitale e figli, in cui per lui si riassume tutto, diventano preda delle classi superiori, alle quali egli porta soldi e figlia, o un figlio educato in collegio, il quale, piú istruito del padre, ha ambizioni piú alte. Spesso il cadetto di un piccolo minutante vuol essere qualcuno nello Stato9.
Seguendo questa ambizione, il nostro pensiero s’introduce nella seconda sfera parigina. Salite dunque di un piano, e andate al mezzanino; o scendete dal solaio e restate al quarto piano; insomma penetrate tra la gente che possiede: il risultato non è diverso. I commercianti all’ingrosso e i loro garzoni, gli impiegati, il personale delle piccole banche e di gran probità, i furbacchioni, le anime dannate, i primi e gli ultimi commessi, gli apprendisti dell’ufficiale giudiziario, dell’avvocato, del notaio, insomma i membri agenti, pensanti, speculanti di quella piccola borghesia che tritura gli interessi di Parigi e vigila sul proprio grano, accaparra le derrate, immagazzina i prodotti fabbricati dai proletari, mette in barile i frutti del Mezzogiorno, i pesci dell’Oceano, i vini d’ogni costa amata dal sole, tende la mano sull’Oriente, vi prende gli scialli disdegnati da turchi e da russi, va a far raccolta fino nelle Indie, sa aspettare prima di vendere, calcola il vantaggio, sconta le cambiali, arrotola e incassa tutti i titoli, imballa al minuto tutta quanta Parigi, la scarrozza, fa la posta alle fantasie dell’infanzia, spia i capricci e i vizi dell’età matura, ne spreme le malattie; ebbene, senza bere acquavite come l’operaio, e senza andare a rotolarsi nel fango dei sobborghi, tutti vanno al di là delle loro forze; tendono oltre ogni limite le energie fisiche e quelle morali, le une in funzione delle altre; si disseccano nel desiderio, si consumano in corse precipitose. In costoro, la torsione fisica si compie sotto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La Fille aux yeux d'or. La ragazza dagli occhi d'oro.
  3. Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini
  4. Nota bibliografica
  5. La ragazza dagli occhi d’oro
  6. La Fille aux yeux d’or
  7. Appendice prima. Metafore e paragoni nel prologo de «La Fille aux yeux d’or» di Mariolina Bongiovanni Bertini
  8. Appendice seconda. Hofmannsthal e Béguin lettori de «La Fille aux yeux d’or»
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright