Le ragazze
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Le ragazze

  1. 344 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

«Non appena mi cadde l'occhio sulle ragazze che attraversavano il parco, la mia attenzione restò fissa su di loro. Quella dai capelli neri con le sue accompagnatrici, la loro risata un rimprovero alla mia solitudine. Stavo aspettando che succedesse qualcosa, senza sapere cosa. E poi ecco». Evie voleva solo che qualcuno si accorgesse di lei. Come tutte le adolescenti cercava su di sé lo sguardo degli altri. Un'occasione per essere trascinata via, anche a forza, dalla propria esistenza. Ma non aveva mai creduto che questo potesse accadere davvero. Finché non le vide: le ragazze. Le chiome lunghe e spettinate, i vestiti cortissimi. Il loro incedere fluido e incurante come di «squali che tagliano l'acqua». Poi il ranch, nascosto tra le colline. L'incenso, la musica, i corpi, il sesso. E, al centro di tutto, Russell. Russell con il suo carisma oscuro. Ci furono avvertimenti, segni di ciò che sarebbe accaduto? Oppure Evie era ormai troppo sedotta dalle ragazze per capire che tornare indietro sarebbe stato impossibile? « Le ragazze annuncia l'arrivo di una voce formidabile nella narrativa americana».
Jennifer Egan «Questo libro vi spezzerà il cuore e vi lascerà a bocca aperta».
Lena Dunham «Non so che cosa sia piú stupefacente, se la capacità di Emma Cline di comprendere gli esseri umani o la bellezza della sua scrittura».
Mark Haddon «Ma al di là del clamore che ha suscitato, questo romanzo è davvero cosí bello? Preparatevi a ingoiare il vostro scetticismo».
The Washington Post

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806226169

Parte seconda

1969

6.

Era sempre stato mio padre a occuparsi della manutenzione della piscina: passava un retino a pelo d’acqua, formando poi un cumulo di foglie bagnate. Le fiale colorate che usava per misurare il livello del cloro. Non era mai stato particolarmente assiduo nello starle dietro, ma da quando se n’era andato lui la piscina si era ridotta male. C’erano delle salamandre che oziavano attorno al filtro. Quando nuotavo lungo il bordo sentivo una resistenza viscida, della sporcizia che si disperdeva dopo il mio passaggio. Mia madre era a terapia di gruppo. Si era scordata di avermi promesso di comprarmi un costume nuovo, perciò indossavo quello vecchio arancione: pallido come un melone, con le cuciture sbrindellate e mezze aperte attorno ai buchi per le gambe. Il pezzo di sopra era troppo piccolo, ma mi piaceva quella massa adulta di seno scoperto.
Era passata solo una settimana dalla festa del solstizio e già ero tornata un’altra volta al ranch, e già avevo cominciato a rubare soldi per Suzanne, una banconota alla volta. Mi piace immaginare che ci fosse voluto piú tempo. Che mi fossi lasciata convincere nell’arco di mesi, cedendo gradualmente. Sedotta con la cura che si riserva a un’innamorata. Ma in realtà ero un bersaglio facile, ansiosa di concedermi.
Continuavo a fare il morto a galla, con le alghe fra i peli delle gambe che sembravano limatura di ferro orientata da un magnete. Un tascabile dimenticato che si arricciava sulla sdraio. Le foglie degli alberi erano argentee e luccicanti, come scaglie, ed era tutto pieno del caldo pigro di giugno. Gli alberi intorno a casa avevano sempre avuto quell’aria lí, strana e acquatica? O la mia percezione delle cose stava già cambiando, e l’ottusa spazzatura del mondo normale si stava trasformando nella lussuosa scenografia di una vita diversa?
La mattina dopo il solstizio Suzanne mi aveva riportata a casa in macchina, con la bici infilata sul sedile di dietro. Mi sentivo la bocca riarsa e strana a forza di fumare e avevo i vestiti che puzzavano di sudore e di cenere. Continuavo a togliermi fili di paglia dai capelli: testimonianze della sera prima che mi emozionavano come timbri su un passaporto. Era successo, dopotutto, e andavo catalogando una vivida serie di dettagli felici: il fatto di stare seduta accanto a Suzanne, il nostro amichevole silenzio. Il mio perverso orgoglio per essere stata con Russell. Mi piaceva ripercorrere mentalmente le varie fasi dell’accaduto, anche le parti piú schifose e noiose. Le bizzarre pause durante le quali Russell se lo faceva venire duro con la mano. C’era della potenza nella semplicità delle funzioni umane. Come mi aveva spiegato Russell: il corpo poteva farti superare di slancio certi blocchi, se glielo permettevi.
Mentre guidava Suzanne fumava ininterrottamente, offrendomi di tanto in tanto la sigaretta secondo un sereno rituale. Il silenzio fra noi non era indifferente o imbarazzato. Fuori dalla macchina scorrevano gli olivi, la terra riarsa dell’estate. Suzanne non faceva altro che cambiare stazioni alla radio, ma poi la spense di colpo.
– Dobbiamo fare benzina, – annunciò.
Noi, mi ripetei mentalmente, noi dobbiamo fare benzina.
Suzanne si fermò al distributore della Texaco, vuoto tranne che per un pick-up azzurro e bianco con il rimorchio di una barca.
– Passami una carta, – disse Suzanne. Indicando col mento il cassetto del cruscotto.
Io mi affrettai ad aprirlo, ritrovandomi in mano una valanga di carte di credito. Tutte con nomi diversi.
– Quella blu, – disse. Sembrava impaziente. Quando le porsi la carta vide la mia perplessità.
– La gente ce le regala, – disse. – Oppure ce le prendiamo –. Si rigirò fra le dita la carta blu. – Tipo, questa è di Donna. L’ha fregata alla madre.
– La carta di credito della madre?
– Ci ha salvato il culo. Altrimenti saremmo morti di fame, – disse Suzanne. Mi diede un’occhiata. – Come quando tu hai rubato la carta igienica, no?
Arrossii al ricordo. Forse sapeva che era una balla, ma dal suo viso inaccessibile non si capiva; magari no.
– E poi, – continuò, – è meglio di quello per cui la userebbero loro: altre puttanate, altra roba, sempre io, io, io. Russell sta cercando di aiutare la gente. Non dà giudizi, è proprio su un altro livello. Non gliene importa niente se uno è ricco o povero.
Una parvenza di senso ce l’aveva, quello che diceva Suzanne. Stavano solo cercando di equilibrare le forze nel mondo.
– È tutto ego, – continuò, appoggiandosi contro la macchina ma tenendo bene d’occhio l’indicatore sulla pompa: nessuno di loro riempiva mai piú di un quarto di serbatoio. – I soldi sono ego, e la gente non vuole farne a meno. Tutti vogliono solo proteggersi, tenercisi aggrappati come a una coperta. Non si rendono conto che ne diventano schiavi. Che schifo.
Scoppiò a ridere.
– La cosa assurda è che appena dài via tutto quanto, appena dici: «Ecco, prendete…» quello è il momento in cui hai davvero tutto.
Durante una delle loro spedizioni in mezzo ai rifiuti un membro del gruppo era stato fermato per essere entrato in un cassonetto, e Suzanne era inviperita nel raccontare la storia mentre tornava a imboccare la strada asfaltata.
– Nei negozi stanno sempre piú attenti. È tutta una stronzata, – disse. – Buttano via le cose e però le vogliono comunque. Questa è l’America.
– Che stronzata –. In bocca a me, la parola aveva un suono strano.
– Ci inventeremo qualcosa. Presto –. Lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore. – I soldi stanno finendo. Ma tu non puoi sfuggire a questa logica. Probabilmente non sai neanche che effetto fa.
Non mi stava davvero sfottendo: parlava come se stesse soltanto dichiarando la verità. Prendendo atto della realtà con un’affabile scrollata di spalle. Fu allora che mi venne l’idea, già pienamente formata, come se ci avessi pensato io da sola. Ed ecco cosa sembrava: la soluzione perfetta, una decorazione scintillante giusto a portata di mano.
– Io me li posso procurare un po’ di soldi, – dissi, con un entusiasmo che a posteriori mi avrebbe disgustata. – Mia madre lascia continuamente la borsa in giro.
Era vero. Trovavo sempre soldi da qualche parte: nei cassetti, sui tavoli, dimenticati accanto al lavandino del bagno. Avevo una paghetta settimanale, ma spesso mia madre mi dava di piú, per sbaglio, oppure mi faceva un vago gesto in direzione della borsa. «Prendi quello che ti serve», aveva sempre detto. E io non avevo mai preso piú del dovuto e stavo sempre attenta a riportarle il resto.
– Ma no, – disse Suzanne, lanciando il mozzicone fuori dal finestrino. – Non c’è bisogno. Sei un amore, però, – disse. – Sei stata carina a proporlo.
– Ma lo voglio fare davvero.
Lei aggrottò le labbra, ostentando incertezza, scombussolandomi lo stomaco.
– Non voglio farti fare qualcosa che non vuoi –. Una risatina. – Non sono proprio il tipo.
– Ma io voglio, – dissi. – Voglio darvi una mano.
Suzanne non parlò per un attimo, poi sorrise senza voltarsi a guardarmi. – Okay, – disse. Non mi sfuggí il leggero tono di sfida che aveva nella voce. – Se vuoi darci una mano, puoi darci una mano.
La mia missione fece di me una spia dentro casa di mia madre, e trasformò lei nella vittima ignara. Riuscii perfino a chiederle scusa per il litigio, quando quella sera la incrociai nell’immobilità del corridoio. Lei rispose con una scrollatina di spalle ma accettò le scuse, sorridendo con aria coraggiosa. Normalmente mi avrebbe dato fastidio, quel sorrisetto tremante e stoico, ma la persona nuova che ero chinò la testa in segno di profonda mortificazione. Stavo imitando una figlia, comportandomi come si sarebbe comportata una figlia. Una parte di me era eccitata dalla consapevolezza che la stavo tenendo a distanza, che ogni volta che la guardavo o le parlavo stavo mentendo. La serata con Russell, il ranch, lo spazio segreto che coltivavo in disparte. Lei poteva tenersi il guscio della mia vita, tutti gli avanzi rinsecchiti.
– Sei rientrata cosí presto, – mi disse. – Pensavo che dormissi da Connie anche stasera.
– Non mi andava.
Era strano sentir nominare Connie, tornare bruscamente al mondo normale. Mi sembrava sorprendente addirittura provare la comune sensazione della fame. Avrei voluto che il mondo intero si riorganizzasse in maniera visibile attorno a quel cambiamento nella mia vita, come un rammendo che segna il punto di uno strappo.
Mia madre si ammorbidí. – È solo che sono contenta perché volevo passare un po’ di tempo con te. Solo noi due. È parecchio che non ci capita, no? Magari faccio il filetto alla Stroganoff, – disse. – O le polpette. Che dici?
Ero sospettosa di quell’offerta: non comprava mai cibo da tenere in casa, a meno che non le facessi trovare dei biglietti apposta quando tornava dalla terapia di gruppo. E non mangiavamo carne da una vita. Sal aveva detto a mia madre che mangiare carne significava mangiare paura, e che ingerire paura faceva ingrassare.
– Buone le polpette, – fu la risposta che le concessi. Rifiutandomi di notare quanto la rendesse felice.
Mia madre accese la radio in cucina, su una stazione che trasmetteva le canzoncine leggere, sciocche, che mi piacevano da bambina. Anelli di diamanti, torrenti di campagna, alberi di melo. Se Suzanne o anche solo Connie mi avessero sorpresa ad ascoltare quel tipo di musica mi sarei vergognata – era banale, allegra e fuori moda – ma nutrivo un riluttante amore segreto per quelle canzoni, di cui mia madre canticchiava le parole che conosceva. Colorandosi in viso di un teatrale entusiasmo, tanto che era facile farsi coinvolgere dalla sua euforia. La sua postura era stata creata da anni di concorsi equestri durante l’adolescenza, in cui doveva sorridere in sella a eleganti cavalli arabi mentre le luci dell’arena facevano brillare gli strass che aveva al collo. Quando ero piccola mi sembrava cosí misteriosa. La timidezza che provavo guardandola girare per casa, ciabattando con le pantofole da notte. Il cassetto pieno di gioielli la cui provenienza mi facevo descrivere, pezzo per pezzo, come una poesia.
La casa era pulita, le finestre segmentavano il buio della notte, la moquette sotto i miei piedi nudi era fitta. Tutto ciò era l’opposto del ranch, e mi resi conto che avrei dovuto sentirmi in colpa: che era sbagliato trovarmi a mio agio in quella situazione, aver voglia di mangiare quella roba insieme a mia madre nel pulito impeccabile della nostra cucina. Cosa stavano facendo Suzanne e le altre in quello stesso momento? All’improvviso era difficile immaginarlo.
– Connie come sta? – mi chiese, sfogliando le schede con le ricette scritte a mano.
– Bene –. Probabilmente stava bene davvero. A guardare l’apparecchio di May Lopes che si incrostava di sporcizia.
– Sai, – proseguí mia madre, – può sempre venire qui da noi. Ultimamente state passando un sacco di tempo a casa sua.
– A suo padre non dà fastidio.
– Mi manca, – proseguí lei, benché mi fosse sempre sembrato che Connie la lasciasse interdetta, come una zia zitella che uno tollera a stento. – Dovremmo andare a farci una gita a Palm Springs, o qualcosa del genere –. Era evidente che aspettava di farmi questa proposta da un po’. – Potresti invitare Connie, se ti va.
– Non lo so –. Forse l’idea non era male. Io e Connie che ci prendevamo a spintoni nel caldo soffocante del sedile posteriore, bevendo frullati presi alla piantagione di datteri vicino a Indio.
– Mmm, – mormorò lei. – Potremmo andarci nelle prossime settimane. Però ecco, amore… – Una pausa. – Magari lo direi anche a Frank.
– Non ci vengo a fare un viaggio con te e il tuo fidanzato.
Lei tentò di sorridere, ma capii che non mi stava dicendo tutto. Il volume della radio era troppo alto. – Amore, – riprese. – Ma come facciamo a vivere insieme…
– Cosa? – Non sopportavo che mi fosse venuta automaticamente un’intonazione da mocciosa, mi toglieva qualunque autorità.
– Mica subito, per carità –. Arricciò le labbra. – Ma se Frank si trasferisce da noi…
– Guarda che in questa casa ci abito anch’io, – dissi. – Gli avresti permesso di piazzarsi qui da un giorno all’altro, senza nemmeno dirmelo?
– Hai quattordici anni.
– Che stronzata.
– Ehi! Occhio a come parli, – disse, ficcandosi le mani sotto le ascelle. – Non so perché ultimamente sei cosí maleducata, ma la devi piantare, e in fretta –. La vicinanza del viso implorante di mia madre, la sua palese agitazione: mi alimentavano un disgusto biologico nei suoi confronti, come quando entrando in bagno sentivo un odore urlante di ferro e capivo che le erano venute le mestruazioni. – Senti, sto cercando di farti una gentilezza, – disse, – invitando anche la tua amica. La smetti di darmi addosso?
Scoppiai a ridere, ma la risata grondava dell’amaro del tradimento. Ecco perché mia madre ci aveva tanto tenuto a preparare la cena. Adesso era anche peggio, perché mi ero lasciata conquistare tanto facilmente. – Frank è uno stronzo.
Lei avvampò in viso, ma si sforzò di non perdere la calma. – Vedi di cambiare atteggiamento. Questa è la mia vita, capito? Sto solo tentando di trovare un briciolo di felicità, – disse, – e tu me lo devi concedere. Ce la puoi fare?
Si meritava la sua vita anemica, le sue magre, infantili incertezze. – Va bene, – dissi. – Benissimo. In bocca al lupo con Frank.
Mia madre strinse gli occhi. – E con questo che vorresti dire?
– Lascia perdere –. Sentivo l’odore della carne cruda che arrivava a temperatura ambiente, un tocco pungente di metallo freddo. Mi si contrasse lo stomaco. – Non ho piú fame, – dissi, e la piantai in asso lí in cucina. La radio passava ancora canzonette sul primo amore, sui balli lungo il fiume, e la carne si era scongelata quanto bastava perché mia madre fosse costretta a cuocerla, anche se nessuno l’avrebbe mangiata.
Fu facile, dopo quel giorno, convincermi che i soldi me li meritavo. Russell diceva che tante persone erano egoiste, incapaci di amare, e sembrava che fosse proprio il caso di mia madre, e anche di mio padre, rintanato con Tamar nei Portofino Apartments di Palo Alto. Perciò era una transazione pulita, da un certo punto di vista. Come se il totale dei soldi che sgraffignavo, banconota per banconota, potesse andare a ripagare qualcosa che si era perso. Era troppo deprimente pensare che forse q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le ragazze
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Parte terza
  7. Parte quarta
  8. Ringraziamenti.
  9. Il libro
  10. L’autrice
  11. Copyright