«Non si deve credere che tutto è vero, si deve credere soltanto che tutto è necessario». Le parole rivolte dal sacerdote nel duomo a Josef K. nel penultimo capitolo del Processo (1924) definiscono, meglio di qualsiasi discorso, a quale genere appartengono i protagonisti dei due maggiori romanzi di Kafka. Mentre suggeriscono per contrasto (come vedremo) un’altra possibile tipologia novecentesca del personaggio, esse individuano infatti il perimetro lungo il quale si svolgono sia la vicenda di Josef K. che quella di K., l’‘eroe’ del Castello (1926). Ma prima vediamo quali sono le caratteristiche piú evidenti di queste due figure. Entrambe fanno la loro comparsa in maniera diretta ed enigmatica: nessuna ‘presentazione’ o descrizione le introduce; e nulla ci viene detto della loro vita precedente a quella narrata nel romanzo. Come Pessoa, che esclamava «O que ha em mim é sobretudo causaço», «Quel che c’è in me è soprattutto stanchezza», sono afflitti da una stanchezza immedicabile che spesso li fa cadere nel sonno chiudendoli a tutto ciò che gli accade attorno. Sono gli interpreti di un continuo fraintendimento: l’ostessa dice a K.: «Lei fraintende tutto, anche il silenzio. È piú forte di lei», mentre il sacerdote del Processo rimprovera cosí il suo interlocutore: «Tu fraintendi i fatti». Sono sgradevoli, audaci nei loro progetti, privi di esitazioni, dubbi o paure. Significativo il modo con cui entrano in rapporto con le figure femminili. Non implica affetti o sentimenti; è puramente strumentale e diretto al raggiungimento di uno scopo (arrivare al Castello, entrare nei segreti del tribunale) e si risolve in una meccanica connessione invece che in un’articolata e complessa relazione. Piú che soggetti quali li ha immaginati per secoli il romanzo con i loro tratti distintivi (identità, figura, memoria, nome proprio) appaiono delle funzioni, delle parti obiettivamente determinate da macchine superiori – amministrativa o giudiziaria – che ne anticipano le mosse e ne regolano i passi.
In sintonia con la loro appartenenza a un dominio che miticamente li travalica e che sempre chiede loro atti di vassallaggio in forma di «lavori quasi interminabili», si trovano a vivere in un tempo inerte e bloccato: in un «non-ancora» che è anche un «non-piú» (Anders). Come il cacciatore Gracco, che è morto ma che non è mai giunto nel regno delle ombre, cosí il personaggio K. è nel mondo «ma il grado del suo esserci è appena sufficiente a rendergli chiaro che non è in esso». L’enigma del suo venire al romanzo con la sua assenza di premesse e di memoria, è l’allegoria del suo venire al mondo in uno stato di immotivata e intempestiva deiezione che lo rende sempre impartecipe e, come si legge nel Castello, «il piú ignaro di tutti»: «un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi». È, per certi versi, la condizione della larva cosí come la immaginano la cultura classica e quelle ‘primitive’: uno stadio intermedio tra la vita e la morte, che contemporaneamente tiene e non tiene aspetti dell’una e dell’altra. Qui i rapporti con il reale si sfilacciano progressivamente e la coscienza dell’inappartenenza al mondo e dell’insanabile discrepanza tra quest’ultimo e il soggetto si fa cosí forte da trasformare l’«eroe» in un soggetto pletorico, «esagerato» (Anders). La dimensione, a un tempo, pre e post-identitaria quale si intravvede nell’inaccessibilità del soggetto al mondo dilata i confini dell’io, lo trascina in una folla di possibilità equivalenti che sussistono l’una accanto all’altra senza mai definirsi o solidificarsi in una scelta: «Forse è solo questo, ma forse invece è tutt’altro».
Tutti questi aspetti – insieme ad altri – emergono con particolare evidenza dal comportamento di K., il protagonista del Castello. A partire da un’anomala percezione del tempo («un’ora o due, secondo i suoi calcoli» sono in realtà un’intera giornata) e dello spazio (non può fare altro che «continuare a smarrirsi» in «una terra ignota [...] dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei») K. si trova immerso per intero nel regime tragico della contraddizione: non sa, non capisce, non vede chiaramente la sua colpa e si fa trascinare qua e là dalle altre figure del romanzo, a cui oppone delle repliche che sono una sistematica rottura d’ogni regola della conversazione. Ma ciò che piú di tutto lo caratterizza è la sua pervicace volontà: non presta orecchio a nessun consiglio e, anche se tutti gli dicono che è male per lui, va avanti imperterrito nel suo scopo: «son venuto qui per restarci, e ci resterò».
Questa ostinazione lo consegna a uno stato irresolubile. Segnalato dal narratore («con una contraddizione che non si diede la pena di spiegare, soggiunse quasi parlando a se stesso: “Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese cosí tetro, se non il desiderio di rimanervi?”»), esso ha poi per risvolto paradossale una catatonica condizione di separatezza («K. non udiva, dormiva, chiuso a tutto quel che accadeva») la quale apre, a sua volta, a un’interruzione dei rapporti col mondo coincidente con una libertà assurda e disperata:
Sembrò a K. che tutte le comunicazioni tra lui e il mondo fossero tagliate; certo adesso era piú libero che mai, poteva aspettare lí nel luogo proibito quanto gli pareva e piaceva; si era conquistato la libertà come nessun altro avrebbe saputo, e nessuno aveva il diritto di toccarlo o di scacciarlo e nemmeno di rivolgergli la parola, ma – e questa convinzione era almeno altrettanto forte – nulla era cosí assurdo, cosí disperato come quell’indipendenza, quell’attesa, quell’invulnerabilità.
«Piú libero che mai», senza vincoli, ab-solutus: il personaggio è qui una monade irrelata che s’alimenta della sua sola volontà e che traccia la sua orbita nel cielo della disperazione. Un personaggio assoluto, quindi, che conosce soltanto – come ammonisce il sacerdote nel duomo – la forma del vero e non quella del necessario. Da qui il tragico. «La tragedia degli eroi kafkiani è la tragedia di chi rifiuta di accettare la modalità della necessità, dell’impossibilità. Nessun consiglio, nessuna minaccia, nessun fallimento può dissuadere queste figure tragiche, perseguitate dall’eterna ossessione della mente e del cuore umano: vedere l’invisibile, ottenere l’impossibile, afferrare l’illusorio» (Doležel). Queste aspirazioni sono spogliate da Kafka sia da ogni richiamo a una trascendenza dei significati che offra una qualche spiegazione sovrannaturale degli eventi, sia da ogni riferimento a un’immanenza dei rapporti che possa costituirsi in una trama condivisa delle azioni o dei comportamenti.
Se qui Kafka ha per maestro Flaubert con la sua voraginosa coscienza della solitudine («ognuno è solo, nessuno sa comprendere l’altro, nessuno può aiutare l’altro a capire; non esiste un mondo umano comune»), pare – d’altro canto – avere quale antecedente e progenitore del suo personaggio una figura di Kleist: il Michael Kohlaas dell’omonimo racconto. L’eroe di Kleist, che fa di una banale questione di un furto di cavalli l’occasione per mettere a soqquadro il proprio tempo, è, secondo Günther Anders, figura della discrepanza tra mondo empirico e mondo morale: non vuole ammettere a nessun costo che il primo non sia il secondo, che non coincida con esso. E per questo mostra, secondo la diagnosi goethiana, un’ostinata e radicale ipocondria verso l’andamento del reale.
Ebbene, il personaggio K. eredita da Michael Kohlaas non la forza, ma l’assolutezza di un comportamento a cui gli insuccessi non insegnano nulla e – in conseguenza dell’incoincidenza tra essere e dovere, tra oggettività e soggettività – il suo insanabile dissidio col mondo.
A partire dalla sua genealogia o matrice abbiamo cosí ormai dati a sufficienza per disegnare in alcuni punti essenziali il profilo del personaggio K. e della sua assolutezza:
– assenza di evoluzione; lo sviluppo di un carattere nel tempo proprio di tante figure del romanzo ottocentesco appare qui bloccato in situazioni che si reiterano sterilmente senza dare vita a un processo o a una modifica;
– mancanza di relazioni con il mondo esterno all’io e con i suoi interpreti: i contatti con quest’ultimi sono, al limite, utilizzati strumentalmente o comunque subordinati al principio totalitario dell’interiorità. I comportamenti del personaggio mirano, in sostanza, a evitare un faccia-a-faccia con l’altro che possa imporre o suggerire cambiamenti;
– aspirazione alla verità. L’imperativo gnoseologico (scoprire il mistero della legge, vedere l’interno del Castello) è il movente primo delle azioni e tutto, scelte e comportamenti, risponde a esso;
– esasperazione della soggettività. È, per certi versi, una conseguenza dei fatti precedenti e comporta da un lato – sul piano semantico – la sottolineatura della singolarità e dello statuto eccezionale del personaggio e dall’altro – sul piano narratologico la riduzione dell’intreccio alle sue sole azioni.
Questi aspetti sono poi percorsi e, in ciò, unificati dal senso di smarrimento provato dal protagonista: K. nel Castello ha sempre «l’impressione costante di smarrirsi» mentre il Karl Rossmann di America (1927) non riesce a ritrovare la sua strada in «corridoi pieni di curve», in labirinti di stanze o per le vie caotiche della città. La centralità narrativa di stampo monologico, l’eccezionale tensione al vero e il narcisismo negativo del personaggio assoluto vanno qui di pari passo con il suo smarrimento (e proprio Il disperso doveva intitolarsi America), con la sua inettitudine o incapacità di orizzontarsi e, in genere, con la sua debolezza.
È noto come attorno a questa costellazione semantica del personaggio si coagulino, oltre a quella kafkiana, numerose altre esperienze narrative primo-novecentesche. Basti ricordare i protagonisti dei Turbamenti del giovane Törless (1906) di Musil e di Andrea o i ricongiunti (1907-13) di Hofmannsthal. Un ininterrotto sconcerto domina i loro passi e le loro azioni: l’esperienza del mondo che essi vivono è «un inestricabile groviglio di fila senza bandolo, di simboli senza cifra, di significati senza finalità» (Battaglia). La cesura con la realtà esteriore è radicale: la natura con le sue figure, la comunità umana con le sue relazioni sono percepiti come dati fittizi o inattendibili. In loro vece, con un gesto quasi assolutistico, s’impone la regione mentale del protagonista, il suo spazio interiore. Che non coincide però con un saldo principio d’identità, ma piuttosto con un cangiante caleidoscopio d’immagini: «Andreas è il luogo geometrico degli altrui destini [...] una sfera d’alabastro, che contiene il sangue di un assente e con movimenti e luci manifesta le condizioni di quello».
L’io, segnato dai formidabili colpi infertigli dai padri della modernità (Schopenhauer, Nietzsche, Freud), è visto come una realtà frantumata e priva di ogni punto di riferimento: in esso abita, dice Törless, «qualche cosa di oscuro che non posso misurare con i pensieri»: oggetto di «una seconda vista», provoca «una paura terribile».
I romanzi di Musil e di Hoffmansthal sono appunto il resoconto di questo orrore, «la cronaca di una infinita scomposizione dell’io» (Ascarelli), la vicenda di una errabonda peregrinazione nei territori della mente. L’imperativo gnoseologico che Kafka ancora indirizzava fuori del soggetto verso i dominî della Legge e del Potere, s’esercita ora sull’interiorità del protagonista e si svolge per intero – e senza alcun interlocutore – nel recinto della sua coscienza. Il personaggio assoluto ha bisogno di una solitudine assoluta per analizzare, scardinandolo, il proprio io: la coscienza diventa il teatro anatomico del sé.
Quanto il senso dello smarrimento, l’esperienza del vuoto e la ricerca di una verità o, perlomeno, di una conoscenza, siano strettamente collegati tra loro nel dominio della modernità letteraria, è testimoniato, forse al suo grado piú alto, da Cuore di tenebra (1902) di Conrad. Qui, nella relazione difratta tra narratore e figura, si definisce, lungo «le vie di una solitudine assoluta» e nel quadro di «un perfetto silenzio», un personaggio collocato per intero sotto il segno dell’inimmaginabile e dell’ineffabile. Kurtz, «fantasma venuto dalle profondità del Nulla», «cadavere dissotterrato» e «animata immagine di morte», è il protagonista – creato con il contributo di «tutta l’Europa» – di una vicenda che conduce all’esperienza, assoluta quale nessun’altra, della rivelazione dell’orrore.
Di questa esperienza, che si svolge «nel regno posto oltre il dialogo o l’interlocuzione» (Brooks), Marlow, il narratore, tenta, con la sua debole parola di secondo grado, di dar conto o sentore. Suo obiettivo è «capire l’ombra del signor Kurtz» o, come le figure della Décadence messe in scena da Musil e Hoffmansthal, approdare a «una certa qual conoscenza di se stessi» – quella conoscenza che giunge sempre «troppo tardi». Resta però fuori dal suo raggio la visione del vuoto che, abbacinante e non nominabile, era stata vissuta e interpretata da Kurtz: «la verità profonda si mantiene nascosta; per fortuna, per fortuna».
La ricerca a ogni costo del vero – propria dei personaggi posti «al limite estremo» – si misura e si scontra cosí con il linguaggio, i suoi caratteri e i suoi limiti. O, meglio, con il suo statuto paradossale. Da un lato, il linguaggio, come sistema di trasmissione sociale, non lascia spazio all’indicibile, anzi è usato (come nella menzogna finale di Marlow) proprio per «coprire ciò che non si può nominare» (Brooks); dall’altro, la verità conquistata aspira pur sempre, sia pure nel crollo della parola, a essere detta, allusa o, come qui, suggerita.
Il paradosso costitutivo dei personaggi che abbiamo delineato sin qui è allora quello, implicito nel loro furore gnoseologico, di dire una verità in assenza di un linguaggio che riesca a trasmetterla. E ciò perché ormai i «vecchi miti» su cui è cresciuta la coscienza delle parole e del discorso sono svaniti:
Il linguaggio si scopre allora liberato da tutti i vecchi miti in cui si è formata la nostra coscienza delle parole, del discorso, della letteratura. A lungo si è creduto che il linguaggio dominasse il tempo, che valesse sia come legame futuro nella parola data sia come memoria e racconto; si è creduto che fosse profezia e storia; si è persino creduto che in questa sovranità il linguaggio avesse il potere di far apparire il corpo visibile ed eterno della verità; si è creduto che la sua essenza fosse nella forma delle parole o nel soffio che le fa vibrare. E invece non è che rumore informe e flusso, la sua forza è nella dissimulazione; è per questo che esso non forma con l’erosione del tempo che una sola e identica cosa; è oblio senza profondità e vuoto trasparente dell’attesa (Foucault).
Questa critica del linguaggio, rilevabile tra le pieghe di Cuore di tenebra e attiva in tante opere del secolo scorso (da Pessoa a Beckett), proprio perché pone il ‘cuore’ della verità al di là di ciò che rende possibile la parola e il discorso, scopre per la scrittura letteraria un nuovo infinito. E ne scatena un interminabile lavorio e una libertà senza confini che aprono all’enfatica sottolineatura della sua autosufficienza: «non ha piú altro da dire che se stessa, nient’altro da fare che scintillare nella luminosità del suo essere» (Foucault). Teca o reliquiario dell’indicibile, «linguaggio che nessuno parla», «trasparenza reciproca dell’origine e della morte», palestra degli agonistici esercizi di una parola che si espone nella sua libera e tragica esistenza, la letteratura è arrivata cosí a dire nel corso del secolo: «Non rappresento piú, sono; non significo, presento» (Blanchot). I personaggi assoluti del romanzo sono i messaggeri e, talvolta, i sacerdoti di questa trascendenza del letterario – senza limiti e senza identità.
La trilogia (1951-53) di Beckett è forse l’opera novecentesca che con piú forza propone e realizza una radicale dissoluzione della categoria del personaggio. Nel corso dei tre romanzi quest’ultimo è coinvolto, infatti, in un processo crescente di evanescenza.
In Molloy abbiamo ancora una figura riconoscibile di vagabondo immesso in una serie di eventi: Molloy gira con la sua gamba irrigidita su una vecchia bicicletta, incontra dei viandanti, s’imbatte in un gendarme, finisce al commissariato, travolge e uccide il vecchio cane della signora Lousse, che poi lo ‘adotta’ prendendolo in casa, accudendolo e vezzeggiandolo. Successivamente e immotivatamente Molloy abbandona la casa di Lousse e, mentre il suo corpo incomincia a degradarsi, si dirige verso il mare, si mette alla ricerca della città della madre per sistemare definitivamente i rapporti con lei, e si ferma in un boschetto, dove infine uccide a colpi di bastone un altro vagabondo che vuol condividere il suo rifugio.
Nella seconda parte del romanzo la scena è occupata da Moran, un investigatore paranoico e autoritario a cui viene affidato da un misterioso padrone (Youdi) il compito d’indagare su Molloy. Nel corso della narrazione il personaggio si modifica. Se in principio ha ancora un ruolo e delle relazioni (con Marta la serva di casa, padre Ambroise, il collega Gaber, il figlio su cui esercita il suo stolido dominio), poi va incontro a un cambiamento che sconvolge il suo essere precedente: assiste «ad una specie di perforazione sempre piú rapida verso chissà quale giorno e quale volto, conosciuti e rinnegati». Moran fa sempre piú fatica a riconoscersi e patendo nel proprio corpo le stesse mutazioni di Molloy (anche a lui le gambe s’irrigidiscono sino a trovarsi costretto a procedere bocconi o con stampelle) eredita la sua figura. Nonostante l’uso di moduli ancora convenzionali (la linearità delle vicende secondo un ordine temporale e alcuni tratti ‘romanzeschi’ che sopravvivono nei personaggi) le forze della fusione e del rovesciamento sono qui all’opera e realizzano una trasmutazione di una figura in un’altra che abolisce ogni principio d’individuazione e ogni criterio di univoca riconoscibilità.
Malone muore procede ancora oltre lungo questa strada. Il vagabondo è diventato un moribondo, preda della decomposizione. Aboliti gli orizzonti di foresta e mare, ancora presenti in Molloy, l’ambiente si riduce a una sola stanza dove la figura che parla sopravvive a letto circondata da pochi oggetti: il piatto della minestra, il vaso da notte, il bastone, un mozzicone di matita, un vecchio quaderno. Nulla proviene dal mondo esterno. Predomina una luce grigia. Talvolta arrivano dei rumori, ma forse si tratta di allucinazioni. Dimenticata la propria storia personale, bloccata ogni evoluzione, avvolto in «un unico e grande continuo ronzio», le sole attività a cui Malone si dedica sono quella della redazione (sempre procrastinata) di un inventario delle sue povere cose e quella della scrittura. Qui nascono delle narrazioni. Malone, mentre rinuncia alla sua storia, inventa altre storie di cui sono protagonisti il giovane Sapo e il vecchio Macmann; il primo, in bas...