Provvisoriamente abito presso i miei suoceri, persone buone che mi hanno accolta con affetto. A casa loro tutto è nuovo per me. Togliermi le scarpe nell’ingresso, camminare scalza, sedermi direttamente sui tatami e dormire in un futon sono comportamenti tanto lontani da quelli a me consueti che all’inizio mi divertono e mi affascinano per il loro esotismo.
Mio suocero, un insegnante di matematica tutto casa e scuola, è un uomo generoso, ma riservato e taciturno. Appena torna dal lavoro cambia gli abiti occidentali col kimono, si siede a gambe incrociate sui tatami della stanza principale e per il resto della giornata corregge i compiti degli allievi, prepara le lezioni o legge il giornale. Unico suo hobby, le piante in vaso che riempiono ogni angolo del piccolo giardino. Mia suocera, benché timida, al contrario del marito chiacchiera volentieri quando si sente in confidenza, ed è dotata di senso dell’umorismo e di fantasia. Me ne rendo conto molto presto durante le conversazioni quotidiane che abbiamo in cucina, io nel mio giapponese stentato da autodidatta, lei in un linguaggio che riesce a semplificare fino a rendermelo comprensibile. Bene o male riusciamo a capirci, lei mi svela i segreti della cucina giapponese, mi insegna a cucire con una certa professionalità, mi racconta del Giappone della sua giovinezza, del periodo bellico e delle difficoltà del dopoguerra. Io le parlo della mia infanzia, della mia famiglia, della vita che ho condotto a Parigi insieme a suo figlio. Grazie a questi momenti di intimità si viene in breve a creare tra noi un rapporto di fiducia e d’affetto. L’esercizio quotidiano mi aiuta inoltre a fare rapidi progressi nell’apprendimento del giapponese, tanto che nel giro di quattro o cinque mesi sono in grado di sostenere senza sforzo una semplice conversazione, e comincio anche a prendere familiarità con gli ideogrammi che mi circondano; in particolare memorizzo i nomi delle località vicine in modo da potermi muovere nella regione tra Osaka e Kobe senza dipendere dalla famosa cartina, che dopo l’episodio del furto consulto il meno possibile.
Intanto do lezioni private, poi nel mese di luglio vengo assunta in una scuola di lingue come insegnante di francese ed eventualmente, se ci saranno richieste, di italiano. Quanto a mio marito, svolge attività free lance di interpretariato.
Le prime amicizie che stringiamo sono tutte nell’ambito della scuola dove lavoro, di conseguenza l’ambiente che frequentiamo è prevalentemente europeo, un’enclave di spontaneità nell’inamidato mondo circostante. Nella piccola comunità formata dagli insegnanti, per la maggior parte anglosassoni, e dalle mogli giapponesi di alcuni di loro, regna infatti un’atmosfera rilassata e confidenziale. Per queste giovani donne, educate come tutti i loro conterranei a un severo autocontrollo, dev’essere riposante, mi dico, potersi concedere un po’ di naturalezza. Anche mio marito, che ha vissuto a lungo in Europa e non è integrato nella monolitica società nipponica, sembra sentirsi piú a proprio agio in compagnia di occidentali.
A parte i miei familiari e le mogli dei miei colleghi, i giapponesi che ho l’occasione di frequentare sono soltanto i miei allievi e gli impiegati della scuola, tutte persone che confermano le mie prime impressioni sul popolo che mi ospita: formale, cortese e raffinato. E se la formalità mi diverte, se la cortesia mi fa piacere, la raffinatezza addirittura mi seduce. Lungo il percorso dalla casa dei miei suoceri alla stazione non mi stanco di ammirare le siepi volutamente irregolari che cingono i giardini privati e le abitazioni tradizionali. Resto estasiata davanti alla poetica semplicità di una scodella in ceramica o di un vassoio in legno laccato. Del cibo apprezzo la bontà e la delicatezza, ma anche l’arte con cui è disposto nei piatti, il taglio fantasioso delle verdure, gli accostamenti di colori. Per non parlare delle tavole imbandite con una quantità inverosimile di ciotoline, scodelline e piattini, tutti diversi gli uni dagli altri, che nell’insieme creano l’effetto leggiadro di una cena di bambole. Quanto alle diverse maniere di confezionare un pacchetto, le trovo geniali. E poi la grazia delle donne, la soavità dei loro gesti: invidio l’eleganza con cui sbucciano un frutto, il garbo con cui scartano una caramella, ammiro la loro capacità di infondere sollecitudine nel semplice gesto di porgere un bicchier d’acqua…
In confronto ai modi delicati delle giapponesi, giudico bruschi i miei, temo che la mia spontaneità venga presa per sfacciataggine, e al fine di adeguarmi ai canoni di femminilità vigenti cerco di contenere la mia gestualità e renderla piú aggraziata. Il problema è che la donna giapponese è per me un modello solo dal punto di vista estetico, non da quello socioculturale, cosí finisco col fare una gran confusione e rischio di perdere il senso della mia identità.
Dopo aver trascorso sei mesi a casa dei miei suoceri – in bilico fra la condizione adulta e quella di figli accuditi e coccolati, partecipi della vita sociale, ma in una comoda modalità protetta –, mio marito ed io troviamo finalmente, nella campagna a nord di Osaka, una dimora alla portata delle nostre limitate risorse economiche: una vecchia casa malandata e scomoda, ma incantevole, che si affaccia su un ruscelletto. Da lí cinque giorni alla settimana vado al lavoro in treno. Il gioco è finito, è ora di rientrare nella realtà. D’altronde lo desideravo già da tempo. Certo le chiacchierate in cucina con mia suocera mi mancheranno, ma mi consolo pensando che potrò andare a trovarla ogni volta che vorrò.
È febbraio, un venerdí sera, e sto andando in montagna per il fine settimana.
Sul pullman che da Osaka si dirige verso la regione di Nagano, sono probabilmente l’unica a non dormire. Gli altri viaggiatori poco dopo la partenza hanno reclinato i sedili e sono istantaneamente sprofondati nel sonno. Io invece sono del tutto sveglia: è la prima volta che vado a sciare da quando sono venuta a vivere in Giappone, e l’idea di ritrovare la neve, tanto familiare a me che scio fin da bambina, mi elettrizza. Non prevedevo di rimettere gli sci ai piedi cosí presto, considerata la distanza che separa Osaka dalle montagne, ma quando ho sentito che la scuola di lingue stava organizzando un weekend sulla neve per gli allievi, dopo un po’ di esitazione ho deciso di aggregarmi al gruppo. Sola, perché mio marito è via per lavoro, ma ormai parlo il giapponese abbastanza bene da cavarmela anche senza di lui. E adesso pregusto la gioia di qualche bella discesa e il piacere di due giornate rilassanti.
Per dedicare allo sci il maggior tempo possibile, si è deciso di viaggiare di notte, sia all’andata che al ritorno. Ora però, dopo aver passato un paio d’ore a cambiar posizione sul sedile, comincio a dubitare che sia stata una buona idea. Forse un po’ di lettura mi concilierebbe il sonno, ma non oso accendere la luce sopra la mia testa per timore di svegliare Etsuko, che dorme accanto a me. Etsuko è la segretaria-capo della scuola di lingue, è stata lei a parlarmi di questa gita e a insistere perché partecipassi, fugando i miei timori di essere di troppo, unica straniera in un gruppo già collaudato di giapponesi. Trascinata dal suo entusiasmo, ho accettato senza chiedere dettagli. Ignoro dunque in che genere di albergo saremo alloggiati, con quali e quante persone dividerò la stanza; tutto quello che so è che siamo diretti a una stazione termale sui monti di Nagano, dove le piste hanno fama di essere fra le piú belle del Giappone.
Passano le ore in un’alternanza di momenti di lucidità e stati di sonnolenza. Il cielo comincia a schiarirsi quando finalmente mi addormento, ma vengo svegliata poco dopo perché nel frattempo siamo arrivati a destinazione.
Scendo dal pullman come una sonnambula, mi sento le ossa rotte e piú che di sciare avrei voglia d’infilarmi in un letto, tirarmi le coperte sulla testa e continuare a dormire; ma anche se decidessi di farlo non potrei, perché l’albergo accetta i clienti solo dopo mezzogiorno. Ci viene però concesso di cambiarci negli spogliatoi riservati alle comitive che come noi arrivano il mattino presto, cioè tutte quelle sfornate dai numerosi pullman che uno dopo l’altro si fermano sul piazzale davanti all’ingresso. L’albergo, un grosso edificio in cemento che sembra piuttosto una fabbrica, è organizzato con la funzionalità di una catena di montaggio. Mi aspettavo qualcosa di piú accogliente – una baita in legno, il fuoco nel camino – e sono un po’ delusa, ma la voglia di sciare è tale che ritrovo il mio entusiasmo e non penso piú nemmeno alla stanchezza: una bella dormita stanotte mi rimetterà in sesto.
La neve è bella e le discese non sono male, ma talmente affollate da costringere gli sciatori a una velocità molto ridotta. Cosa noiosa, ma tutto sommato piú prudente nelle mie condizioni fisiche. Per diverse ore vado dunque su e giú per le piste insieme ai miei compagni, al suono delle canzonette allegre che gli impianti di risalita diffondono senza sosta.
La sera, nonostante non abbia fatto grandi sforzi, sono esausta. Il bagno nell’acqua caldissima della grande vasca termale dell’albergo, dove mi sono immersa per ristorarmi appena tornata dalle piste, mi ha messo addosso tanta sonnolenza che se non fosse per la fame altrettanto imperiosa, ora che mi trovo nella stanza che ci è stata assegnata, tirerei fuori dall’armadio a muro un futon, mi ci stenderei e mi addormenterei seduta stante. Ho appena saputo che in questa camera di otto tatami, identica a tutte quelle che si susseguono ai lati di un lungo corridoio, mangeremo e dormiremo tutti insieme. Siamo per l’appunto in otto, cinque donne e tre uomini, dunque stanotte staremo allo stretto, dato che un futon occupa giusto un tatami. Ma la prospettiva di ammassarci maschi e femmine in una sola stanza, a ridosso gli uni degli altri, non sembra imbarazzare o turbare nessuno: deduco che è nelle consuetudini.
L’arredo è costituito da un grande tavolo basso e otto sottili cuscini sui quali sedere. Le nostre sacche, accumulate in un angolo in un variopinto disordine, creano l’unica nota originale nell’uniformità che omologa oggetti ed esseri umani: non soltanto le stanze sono tutte uguali, i tavoli delle stesse dimensioni, i cuscini del medesimo colore, anche la personalità dei clienti è appiattita dai kimono di cotone e dalle casacche di lana, forniti dalla direzione, che tutti abbiamo indossato dopo il bagno. Se da bambina fossi stata alle colonie estive, forse adesso proverei un’impressione di déjà-vu.
La cena, come è stato annunciato dall’altoparlante che dà continue informazioni su orari e regole da rispettare, ci viene servita in camera alle sette in punto. Dopo aver sciato insieme tutto il giorno formiamo un gruppo affiatato, oltre che affamato, intorno al tavolo che una cameriera è venuta ad apparecchiare; ognuno dei commensali è in qualche modo legato alla scuola di lingue, o perché vi studia o perché vi lavora, e gli argomenti di conversazione non mancano. Un’altra cameriera porta dei vassoi dove sono disposti in bell’ordine diversi tipi di pesce e di verdure, tōfu, funghi shiitake, udon – tutte cose che verranno bollite poco per volta in due capienti marmitte di terracotta posate su fornelli a gas.
Dal rumore che arriva dal corridoio – da cui ci separano soltanto due pannelli scorrevoli di carta chiamati fusuma – intuisco che nelle altre stanze comitive simili alla nostra sono riunite intorno a tavoli sui quali probabilmente cuoce lo stesso tipo di cibo. Sake e birra devono scorrere in abbondanza perché il baccano e l’allegria vanno aumentando col passare dei minuti, come succede d’altronde nel nostro gruppo, dove nessuno è astemio. È la prima volta che vedo dei giapponesi stare insieme in maniera tanto disinvolta e rilassata, non si direbbero gli stessi che durante la settimana frequentano le lezioni alla scuola di lingue. Quanto a me, sono risorta dalle mie ceneri, e mi godo il calore dell’atmosfera, la simpatia dei miei nuovi amici e la bontà del cibo. Pesce, verdura, tōfu, tutti gli ingredienti, già tagliati in piccoli pezzi, finiscono via via nel brodo che bolle, e man mano che cuociono vengono presi con i bastoncini dai commensali. Finché nei vassoi non resta quasi nulla, e cosí smettiamo di mangiare. Continuiamo però a bere, vengono stappate altre bottiglie di birra e svuotate altre caraffe di sake, mentre la conversazione, sempre piú confusa, acquista fervore. Nella stanza ora fa molto caldo, la maggior parte di noi ha tolto la casacca di lana ed è rimasta col solo kimono di cotone. Una ragazza apre la finestra per far uscire il fumo e rinfrescare l’aria. Si fanno brindisi, si intonano canzoni, si scherza, si ride. Fossimo in estate, mi dicono, sarebbe il momento di andare tutti insieme a fare un giro per il paese.
Invece è inverno e siamo venuti qui per sciare, se qualcuno l’avesse dimenticato ci pensa l’altoparlante a ricordarglielo: nel bel mezzo della baldoria generale emette un paio di gracidii per richiamare l’attenzione, poi annuncia che sono le dieci e invita i gentili clienti a terminare la cena e coricarsi. Come se fosse calato un ordine inderogabile, immediatamente tutti si alzano e iniziano in silenzio a preparare la stanza per la notte. Le due cameriere di prima, riapparse poco dopo il perentorio annuncio, sbarazzano il tavolo da piatti, portacenere colmi di mozziconi, resti di cibo, bottiglie e bicchieri, lo spostano nel corridoio e lo sistemano verticalmente contro una parete. Dall’armadio a muro vengono tirati fuori i futon, al cui posto finiscono i nostri bagagli. Nelle altre camere dell’albergo deve aver luogo lo stesso cambiamento di scena, perché improvvisamente il rumore di gozzoviglie è cessato.
Stordita dalla repentina metamorfosi, guardo i miei compagni di stanza disporre uno accanto all’altro i futon, che occupano tutto lo spazio senza lasciare fessure. Speriamo che nessuno russi, mi dico con un po’ di apprensione. Poi mi scuoto dallo stupore e vado a prendere nell’armadio i piccoli cuscini imbottiti d’orzo. Inizio a disporli uno per futon, quattro lungo una parete e quattro lungo quella di fronte.
– Perché li metti cosí? – mi chiede Etsuko. – Non è meglio se tutte le teste sono al centro?
Il suggerimento mi sembra insensato: già non sarà facile dormire in otto in una stanza, se in piú dovessi trovarmi a pochi centimetri dalla faccia di qualcun altro, sono sicura che non chiuderei occhio tutta la notte.
– No, no, – rispondo, – meglio stare con la testa verso il muro.
Visto che nessuno solleva obiezioni, i cuscini restano dove li ho messi io. Nel giro di dieci minuti tutti i miei compagni sono sotto i piumoni – i tre uomini vicino alla porta –, qualcuno spegne la luce, si sente ancora qualche bisbiglio, poi cala il silenzio.
Silenzio per modo di dire, perché è difficile che non ci sia rumore in una stanza dove otto persone dormono insieme. Anzi sette, l’ottava – io – è piú sveglia che mai e ascolta le altre, che di sicuro si sono addormentate subito perché dopo pochi minuti qualcuna già russa. Il sonno che prima di cena, subito dopo il bagno, facevo fatica a combattere, mi ha abbandonata: giaccio lucidissima fissando il soffitto che intravedo nella penombra. Provo a chiudere gli occhi, dicendomi che devo dormire altrimenti domani crollerò, ma non serve a nulla. Decido allora di tirarmi il piumone sopra la testa per attutire i rumori, ma resto con i piedi scoperti e siccome hanno spento il riscaldamento dopo un po’ ho freddo. Mi giro su un fianco e mi rannicchio. Ho l’impressione che la mia coscienza inizi a offuscarsi, quando dei colpi di tosse mi tirano bruscamente fuori dal torpore. Proprio quando stavo per addormentarmi!, penso stizzita, e la stizza, si sa, non concilia il sonno.
La stessa sequenza si ripete piú volte: sto per scivolare in uno stato di beata incoscienza quando un lieve russare, qualcuno che si gira di fianco a me, un digrignare di denti dall’altra parte della stanza mi snebbiano la mente di colpo. Passano cosí le ore, che sento battere da una pendola chissà dove, rumore che si aggiunge agli altri nella cospirazione per tenermi sveglia. Mi volto e mi rivolto sul futon, che è piuttosto duro, senza trovare una posizione propizia. Il pensiero degli altri che dormono come marmotte aumenta la mia irritazione. A un certo punto una voce di donna dice nel sonno parole concitate, poi qualcuno passa nel corridoio: nel silenzio, lo scricchiolio delle assi del pavimento ha una risonanza allarmante… Niente, nessuna reazione fra i miei compagni di stanza. Solo il consueto coro sommesso di mugolii, fruscii, sospiri, soffi, brevi grugniti. Piú il tizio dall’altra parte della stanza che digrigna i denti. Non avevo mai sentito nessuno digrignare i denti in vita mia, ora so che non è un rumore piacevole.
Sento la pendola battere le tre. Sono già piú di quattro ore che mi rigiro sul futon, dopo la notte passata praticamente in bianco sul pullman, e domani mi attende una giornata di sci. Sarà quel che sarà, mi dico cercando di non pensare a nulla…
La voce sgradevole dell’altoparlante, accompagnata dalle note di una marcetta stimolante, mi sveglia di soprassalto. Evidentemente ho poi finito coll’addormentarmi, penso intontita. Il mio primo istinto è gridare di far tacere quell’arnese, ma aprendo gli occhi vedo che intorno a me tutti hanno cominciato ad attivarsi, qualcuno sta già ripiegando materasso e piumone, altri si stanno avviando verso il bagno con la borsa da toilette sotto il braccio.
– Sveglia, dormigliona! – mi fa Etsuko ridendo. – Sono già le sette, la colazione è alle sette e mezza!
Già le sette? Perché dobbiamo alzarci cosí presto? Avrò dormito al massimo quattro ore. Gli altri invece ne hanno dormite piú di otto e ora sono freschi come rose. Cerco di capire chi è che digrignava i denti, ma la maggior parte dei futon sono già stati riposti e nella stanza siamo rimasti in pochi.
– C’era qualcuno che digrignava i denti, – dico a Etsuko.
– Ah sí? – fa lei. – Chi era?
– Non lo so, credo un uomo. E una ragazza parlava nel sonno.
– Veramente? Non ho sentito.
Già, nessuno ha sentito nulla, penso con invidia. Invidia per la meravigliosa capacità che hanno i giapponesi di dormire in qualunque circostanza e situazion...