La minaccia
eBook - ePub

La minaccia

  1. 464 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Una serie di attentati che scuotono Oslo e la detective Hanne Wilhelmsen che torna a indagare. L'ultimo intenso crime dell'autrice norvegese che ha venduto 7 milioni di copie nel mondo. Oslo, aprile 2014. Quando una bomba esplode nei locali del Consiglio islamico per la cooperazione compiendo una strage, i primi sospetti della polizia e dei servizi segreti si concentrano sulla pista islamica. Ma ben presto una seconda bomba scuote la capitale. E dopo anni di voluto eremitaggio Hanne Wilhelmsen, che ha ripreso a lavorare su una serie di cold cases, viene catapultata nella drammatica attualità. Il disegno che inizia a intravedere è dei piú inquietanti. Un cappio di odio, vendetta e razzismo che minaccia, fatalmente, di stritolare la città.

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Informazioni

1.

Un piccione viaggiatore si stava librando su Oslo.
Il proprietario lo chiamava Colonnello per via delle tre macchie a forma di stella che aveva sul petto. Era un pennuto piccolo e compatto, di quasi dodici anni. L’età e l’esperienza lo avevano reso sicuro di sé, ma anche molto cauto, e per questo volava basso, per evitare gli uccelli rapaci. Proveniente dal fiordo, fendeva l’aria vigile e attento, e sfrecciò tra le due torri del municipio prima di cambiare lievemente rotta e puntare verso est.
Un palazzo di piú piani si stagliava davanti a lui impacchettato dentro tele cerate e avvolto da impalcature. Il Colonnello si predispose all’atterraggio.
Aveva volato a lungo.
La nostalgia di casa gli riempiva il petto ampio e grigio su cui spiccavano, cosí nitidi e belli, quei caratteri distintivi simili a onorificenze che avevano costretto il suo padrone a sborsare molto piú di quello che il suo pedigree avrebbe preveduto, quando lo aveva acquistato ancora pulcino. I suoi genitori erano stati lavoratori indefessi, ma niente di piú, invece cure amorevoli e grandi aspettative avevano reso il Colonnello un vero e proprio campione. Era uno dei piccioni viaggiatori piú premiati di tutto il Nordeuropa quello che adesso se ne stava appollaiato sulla cima di un edificio devastato da un’esplosione avvenuta all’improvviso un giorno di luglio di neanche tre anni prima.
Colonnello voleva tornarsene a casa. Raggiungere Ingelill, la sua anima gemella da piú di dieci anni. Voleva sentire il fischio del suo padrone – l’indicazione che era ora di mangiare – e il tubare rassicurante degli altri piccioni. Il piccolo volatile di colore grigio e dagli occhi acuti avvertiva il desiderio impellente di trovarsi nella colombaia costruita nel meleto, per dirigersi poi verso la casetta dove lo aspettava Ingelill. Conosceva la rotta a memoria. Non mancava molto. Qualche minuto soltanto, se avesse spiegato le ali e spiccato il volo.
Lassú, tra Colonnello e il freddo sole d’aprile, si librava un uccello rapace. Era ancora cosí giovane che di tanto in tanto si allontanava dai boschi a nord della capitale per raggiungere il centro, dove si avventava sulle indolenti tortore dal collare che animavano i parchi cittadini. Scorse il Colonnello proprio quando il vecchio piccione grigio aveva appena sbattuto debolmente le ali e se ne stava pizzicando una, pronto al decollo.
Il predatore si lasciò cadere in picchiata.
Con una mano tenuta di taglio sopra gli occhi per farsi ombra, un uomo molto magro era fermo davanti alle barriere protettive innalzate intorno all’edificio mezzo dilaniato. Uno sparviero, notò. Sí, uno sparviero, pensò deciso, anche se era molto raro vederne uno in centro. L’uomo rimase immobile dov’era. Quei rapaci dotati di ali corte e robuste non cacciavano a quel modo, di solito: erano assassini, piú che piloti di cacciabombardieri.
In quell’istante l’uccello puntò in modo brusco e repentino verso qualcosa che l’uomo non era in grado di vedere. Mentre se ne stava lí a guardare, sempre con la mano sopra gli occhi, avvertí l’odore acre e pungente del proprio corpo pungergli il naso. Non si lavava da una settimana. Il fatto di essere cosí sudicio lo imbarazzava ancora; e dire che ne aveva trascorsi, di anni, alla ricerca frenetica e disperata di droga o alcol mentre vagabondava continuamente tra le strutture comunali dove poteva dormire e quelle messe a disposizione dalla chiesa protestante attraverso la Kirkens Bymisjon.
Un tempo sapeva tutto sugli uccelli. Allora si chiamava Lars Johan Austad e portava un’uniforme militare. Adesso, le rare volte in cui qualcuno gli si rivolgeva chiamandolo per nome, era conosciuto soltanto con il soprannome di Scarpa: glielo avevano appioppato perché aveva sempre male ai piedi e indossava calzature troppo grandi per lui.
Il rapace doveva aver ghermito un piccione, concluse quando una piccola nube di piume grigie si levò dal cornicione in cima all’edificio. A Scarpa piacevano i piccioni. Erano socievoli e gli tenevano compagnia; soprattutto d’estate, quando di solito preferiva dormire all’aperto.
Lasciò cadere il braccio e si incamminò.
Un bel modo per crepare, pensò mentre si strascinava verso la Karl Johan con le mani sprofondate nelle tasche. Un attimo prima ci si gode tranquilli il panorama, e un attimo dopo si diventa il pranzo di qualcuno.
In fondo Lars Johan Austad avrebbe desiderato fare la stessa fine. Rabbrividí nel gelo di aprile che lo aggredí quando passò davanti al ministero delle Finanze avvolto nell’ombra. Era venuto il momento di procurarsi qualcosa da mangiare. Mezzogiorno: sentí giungere dal municipio la melodia che accompagnava il rintocco di quell’ora.
Una campanellina di ottone tintinnò con tono squillante.
– Vieni, dài, Colonnello! Fiihiu!
Il fischio fece tubare inquieti gli altri piccioni. Stava calando la sera e l’ora di cena era passata da un pezzo.
– Colonnello! Fiiiihiiiuuuu!
Diretta verso la colombaia, una donna gracile camminava sulle lastre di selce che spuntavano tra gli ultimi residui di neve marroncina disseminati sul prato.
– Colonnello! – ripeté l’uomo, che fischiò ancora prima di suonare nuovamente la campanellina.
La donna gli passò con cautela un braccio intorno alle spalle.
– Adesso vieni, Gunnar. Il Colonnello è in grado di trovare la strada da solo senza che tu lo chiami.
– Avrebbe già dovuto essere qui, – si lamentò l’uomo mentre oscillava rigido, spostando il peso da un piede all’altro. – Colonnello sarebbe dovuto arrivare molte ore fa.
– Sarà in ritardo, – lo consolò l’anziana. – Vedrai che domani mattina lo troverai nella sua casetta quando ti svegli. Da Ingelill. Il Colonnello non abbandonerebbe mai la sua Ingelill, lo sai. Adesso vieni. Ho preparato il tè. E gli scones. Quelli con la farina bianca setacciata che ti piacciono tanto.
– Non voglio, mamma. Non voglio.
Lei gli sorrise senza ascoltarlo. Poi, con delicatezza lo prese per mano e lo trascinò con sé verso casa. Riluttante lui la seguí strascicando i piedi.
– Domani è il tuo compleanno, – disse la donna. – Trentacinque anni. Com’è passato il tempo, vero Gunnar?
– Colonnello, – gemette l’uomo. – Deve essergli successo qualcosa.
– Ma no. Adesso vieni. Ti ho preparato il pan di Spagna. E domani mi aiuti a decorare la torta. Con la panna montata, le fragole e le candeline.
– Colonnello…
– Eh sí, il tempo è passato in un baleno, – ripeté lei, rivolta piú che altro a sé stessa, prima di aprire la porta d’ingresso e spingere il figlio dentro, al caldo.

2.

Nel suo incedere il tempo pareva seguire le curve di un otto rovesciato.
Com’era cambiato. Forse era per colpa dei chili di troppo che paradossalmente lo facevano sembrare piú basso dei suoi duecentodue centimetri, ovvero, come lei sapeva bene, la sua statura nei giorni in cui tutto sembrava andargli per il verso giusto. Adesso le spalle larghe erano curve. La cintura dei pantaloni gli tirava sotto la pancia floscia. Il volto era completamente rasato, cosí come il cranio.
– Hanne, – le disse.
– Billy T., – gli rispose lei dopo qualche secondo, senza far segno di voler arretrare con la carrozzella dalla soglia per permettergli di entrare. – Ne è passato di tempo.
Billy T. appoggiò allo stipite un braccio, vi si chinò sopra e nascose il viso nella mano enorme.
– Undici anni, – biascicò.
Nel corridoio si sentí il rumore di una porta che veniva richiusa. Dall’appartamento vicino giunse il suono di passi decisi, diretti verso l’ascensore. Rallentarono quando si avvicinarono alla porta di Hanne Wilhelmsen e a quel colosso, il quale aveva assunto una posizione che pareva minacciosa.
– Tutto bene? – domandò una voce maschile molto profonda.
– Come hai fatto a entrare? – chiese Hanne senza rispondere al vicino. – Il citofono, abbiamo…
– Santo cielo, – gemette Billy T. togliendosi di scatto la mano dal viso. – Ho lavorato nella polizia piú a lungo di te. Una stupida serratura di merda! Non mi avresti fatto entrare se avessi suonato, proprio come mi hai respinto tutte le cazzo di volte che ho tentato di mettermi in contatto con te!
– Senti un po’, – intervenne il vicino bruscamente, cercando di frapporsi tra Billy T. e la sedia a rotelle. Era alto quasi come il vecchio collega di Hanne. – Pare che la signora Wilhelmsen non abbia molta voglia di vederti.
Guardò l’interpellata con espressione interrogativa. Lei non rispose.
Undici anni.
E tre mesi.
Piú qualche giorno.
– Giusto? – continuò il vicino con irritazione mentre appoggiava una mano sul petto di Billy T. e provava a spingerlo lungo il corridoio.
– È vero, – disse lei alla fine. – Non mi interessa. Mi faresti la cortesia di accompagnarlo fuori?
– Hanne…
Billy T. scostò la mano dell’uomo prima di cadere in ginocchio. Il vicino sobbalzò arretrando di un passo. Rimase a bocca aperta dallo stupore quando vide quel corpo enorme inginocchiarsi e giungere le mani a mo’ di preghiera.
– Hanne. Ti imploro. Ho bisogno d’aiuto.
Lei non rispose. Cercò di distogliere lo sguardo, ma quello di Billy T. era come incatenato al suo. Aveva gli occhi come quelli di un husky – lei non li aveva mai dimenticati –, uno azzurro e uno castano. Erano proprio gli occhi la cosa che le faceva piú paura. Non era rimasto molto dell’uomo che ricordava. Il giubbotto di jeans imbottito era diventato troppo piccolo, e una grande macchia di qualcosa che poteva essere ketchup faceva non bella mostra di sé su uno dei taschini anteriori. Agli angoli della bocca si vedevano le ombre nere lasciate dal tabacco da masticare, e la pelle del viso era floscia, di un pallore invernale.
Eppure lo sguardo azzurro-castano era lo stesso. Davanti alla carrozzella, a solo pochi centimetri dalle sue gambe inutilizzabili, tutti gli anni che lei aveva voluto dimenticare la fissavano. La incalzavano. Hanne cercò di opporre resistenza, e si accorse di aver smesso di respirare.
– Dài, vieni, – esclamò il vicino alla fine, con un tono di voce cosí alto che lei sussultò. – La tua presenza non è gradita, l’hai sentito, no? Se non vieni con me, sarò costretto a chiamare la polizia.
Billy T. non si alzò. Le mani erano ancora giunte. Il viso sempre sollevato verso di lei. Hanne non disse nulla. Si sentí la sirena di un’ambulanza che si avvicinava in Kruses gate, e attraverso la finestra in fondo al corridoio una luce azzurrognola e intermittente inondò a scatti una parete, poi impallidí mentre la sirena ammutoliva.
Si fece di nuovo silenzio.
Alla fine Billy T. si tirò su. Indolenzito, con un gemito soffocato. Dopo aver spazzolato alla bell’e meglio le ginocchia dei pantaloni, cercò di raddrizzare il giubbotto striminzito. Senza proferire parola, si incamminò verso l’ascensore. Il vicino lanciò a Hanne un sorriso c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La minaccia
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. Postfazione dell’autrice.
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright