Il mestiere di scrivere
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Il mestiere di scrivere

Esercizi, lezioni, saggi di scrittura creativa

Raymond Carver, William L. Stull, Riccardo Duranti, Riccardo Duranti

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mestiere di scrivere

Esercizi, lezioni, saggi di scrittura creativa

Raymond Carver, William L. Stull, Riccardo Duranti, Riccardo Duranti

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Informazioni sul libro

Il mestiere di scrivere raccoglie le lezioni, gli esercizi, i consigli e le note sulla scrittura di uno dei maestri della narrativa americana. Raymond Carver nel corso della sua vita ha sempre affiancato al «lavoro di scrittore» quello di insegnante; nella convinzione che il talento dovesse accordarsi con le intenzioni e la tecnica, e potesse svilupparsi attraverso il metodo. Questo libro è il breviario di un artigiano ma anche un atto d'amore per la letteratura; un modo per riflettere sul senso del narrare e mettersi alla prova, confrontandosi con chi ha fatto della scrittura la propria vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858421093

Occasioni

La stella polare

Tanti anni fa – sarà stato nel ’56 o nel ’57 – quando non avevo ancora vent’anni, ma ero già sposato e mi guadagnavo da vivere facendo le consegne a domicilio per un farmacista di Yakima, la cittadina nella parte orientale dello Stato di Washington dove abitavo, un giorno feci una consegna in una casa nella parte ricca della città. Fui invitato a entrare da un signore molto anziano, ma lucidissimo, che indossava un cardigan. Mi chiese di aspettare un momento in salotto mentre andava a prendere il libretto degli assegni.
In quel salotto c’erano un sacco di libri. I libri erano proprio dappertutto: sui tavolinetti e sui ripiani, sul pavimento accanto al divano, ogni superficie a disposizione era adibita a punto di sostegno per i libri. C’era anche una piccola libreria appoggiata a una delle pareti (non avevo mai visto una biblioteca personale prima di allora; file e file di libri sistemati su appositi scaffali in una casa privata). Mentre aspettavo e il mio sguardo vagava su tutti quei libri, notai che sul tavolinetto c’era una rivista con un titolo singolare e per me, sorprendente: «Poetry». Ne rimasi colpito e la presi in mano. Era il mio primo contatto con una «rivista letteraria» oltre che con una rivista di poesia e la cosa mi lasciò di stucco. Forse mi feci prendere dall’avidità e cosí presi anche un libro, un volume intitolato The Little Review Anthology, a cura di Margaret Anderson. (Dovrei aggiungere che, all’epoca, cosa volesse dire «a cura di» per me era un mistero). Feci scorrere tra le dita le pagine della rivista e, cosa ancor piú audace, cominciai a sfogliare quelle del libro, che era pieno di poesie, ma anche di pagine di prosa e altre che sembravano note o commenti sui pezzi scelti. Che cosa mai vuol dire tutto questo?, mi chiesi. Non avevo mai visto prima un libro del genere – né, tantomeno, una rivista come «Poetry». Continuai a leggiucchiare da una all’altra pubblicazione e in cuor mio cominciai a desiderare di possederle.
Quando il signore anziano finí di compilare l’assegno, come se mi avesse letto nel cuore, mi disse: «Prendilo pure il libro, figliolo. Può darsi che ci trovi qualcosa che ti piace. Ti interessa la poesia? Perché non prendi anche la rivista? Magari un giorno scriverai qualcosa anche tu. Se è cosí, dovrai pur sapere dove mandarla».
Dove mandarla. Non sapevo bene cosa, ma sentivo che stava succedendo qualcosa di importante. Avevo solo diciotto o diciannove anni ed ero ossessionato dall’idea di dover «scrivere qualcosa» e già a quell’epoca avevo goffamente tentato di scrivere qualche poesia. Ma non mi era mai passato per la testa che ci potesse essere un posto dove in effetti si mandano i propri tentativi con la speranza che vengano letti e forse addirittura – incredibile, o cosí almeno mi pareva allora – presi in considerazione per essere pubblicati. Però ce l’avevo proprio in mano la prova concreta che da qualche parte nel vasto mondo c’erano delle persone responsabili che, Gesú buono, facevano uscire tutti i mesi una rivista di poesia. Ero attonito; come ho detto mi sentivo davanti a una rivelazione. Ringraziai l’anziano signore diverse volte e lasciai la casa. Consegnai il suo assegno al farmacista mio principale e mi portai a casa «Poetry» e The Little Review Anthology. E cosí cominciò il mio apprendistato.
Naturalmente, oggi non riesco a ricordare i nomi dei poeti pubblicati in quel numero della rivista. Molto probabilmente ce n’era qualcuno anziano e molto famoso, accanto ad altri nuovi e «sconosciuti», nella stessa proporzione, suppergiú, della rivista odierna. Ed è altrettanto naturale che a quei tempi non avessi sentito parlare di nessuno di loro – anzi, che neanche avessi letto niente, né di moderno né di contemporaneo. Ricordo però di aver notato che la rivista era stata fondata nel 1912 da una certa Harriet Monroe. La data la ricordo perché era lo stesso anno in cui era nato mio padre. Quella sera tardi, con gli occhi arrossati da tanta lettura, ebbi la netta sensazione che la mia vita stesse subendo un mutamento profondo, addirittura, perdonatemi, meraviglioso.
Ricordo che nell’antologia c’era un approfondito dibattito sul «modernismo» letterario e sul ruolo che un uomo con lo strano nome di Ezra Pound aveva avuto nel far avanzare questo movimento. Nell’antologia erano riportate alcune sue poesie, lettere ed elenchi di regole – le cose da fare e da non fare quando si scrive. Fui informato anche che nei primi tempi di «Poetry» – la stessa rivista che mi era passata per le mani quel giorno – quest’uomo ne era stato il corrispondente estero. Inoltre, pare che Pound fosse stato il tramite essenziale attraverso cui un gran numero di nuovi poeti approdò sia alla rivista della Monroe che, naturalmente, a «The Little Review»; come tutti sanno, Pound non si era mai stancato di aiutare e incoraggiare poeti come H.D., Eliot, James Joyce, Richard Aldington, per citarne solo una manciata. Nell’antologia trovai discussioni e analisi su altri movimenti poetici, uno dei quali, ricordo, era l’imagismo. Appresi poi che oltre a «The Little Review», la stessa «Poetry» era una delle riviste piú aperte nei confronti della poesia imagista. A quel punto, mi girava la testa. Non capisco proprio come abbia potuto dormire tanto quella notte.
Come ho detto, questo avveniva nel ’56 o ’57. Perciò, che scusa ho per il fatto che mi ci sono voluti ventotto anni o poco piú prima di decidermi a mandare le mie poesie a «Poetry»? Nessuna. La cosa straordinaria e importante è che quando poi ho effettivamente mandato qualcosa, nel 1984, la rivista esisteva ancora, era ancora viva e vegeta e redatta, come sempre, da persone responsabili il cui scopo era quello di mantenere in vita e in perfetta efficienza questa iniziativa unica nel suo genere. E una di queste persone, nella sua veste di redattore, mi scrisse elogiando le mie poesie e mi annunciò che la rivista ne avrebbe pubblicate sei appena possibile.
Se la cosa mi fece piacere e mi riempi di orgoglio? Certo. E credo che un ringraziamento particolare vada a quello sconosciuto signore anziano cosí gentile che mi regalò quella copia della rivista. Chi era? Ormai sarà morto da tempo e il contenuto della sua biblioteca sarà andato disperso dove vanno a finire le piccole collezioni eccentriche, ma in fin dei conti non molto preziose, cioè sui banchi delle librerie di libri usati. Quel giorno gli dissi che avrei senz’altro letto la rivista e anche il libro e che sarei tornato da lui per dirgli che cosa ne pensavo. Com’è naturale non mantenni mai questa promessa. Troppe altre cose stavano succedendo all’epoca; fu una promessa fatta spontaneamente, ma rotta nel momento stesso in cui la sua porta mi si chiuse alle spalle. Non l’ho piú rivisto e non so neanche come si chiamava. Posso solo dire che quell’incontro c’è stato veramente e si è svolto proprio come l’ho descritto. Allora non ero che un ragazzotto ingenuo, ma niente può spiegare o negare quel momento: il momento in cui la cosa di cui avevo maggior bisogno nella vita – chiamatela una stella polare, un punto di riferimento – mi si presentò davanti per caso e con generosità. Nessun’altra cosa sia pure vagamente simile a quell’attimo mi è piú accaduta da allora.
Titolo originale: Some Prose on Poetry.
Questo breve saggio-racconto è apparso proprio sulle pagine della rivista «Poetry», nel numero di ottobre-novembre 1987. È stato incluso nella raccolta di poesie A New Path to the Waterfall, uscita postuma nel 1989.

A proposito di Vicini

L’idea per scrivere Vicini mi è venuta per la prima volta nell’autunno del 1970, due anni dopo esser tornato negli Stati Uniti da Tel Aviv. Mentre eravamo lí avevamo dovuto badare per alcuni giorni all’appartamento di alcuni amici. Anche se non è che siano successe davvero tutte le smargiassate descritte nel racconto, devo ammettere di aver ficcato un po’ il naso nel frigorifero e nel mobile bar. Mi resi conto che l’esperienza di entrare e uscire due o tre volte al giorno dall’appartamento vuoto di qualcun altro, di sedere per un po’ sulle sedie altrui, di sfogliarne i libri e le riviste e di guardare dalle loro finestre, mi aveva lasciato un’impressione abbastanza forte. Ci sono poi voluti un paio d’anni prima che quell’impressione riaffiorasse sotto forma di racconto, ma appena è riemersa mi sono semplicemente seduto e l’ho scritta. All’epoca sembrava una storia abbastanza semplice da raccontare e, in effetti, è stata composta piuttosto rapidamente quando l’ho buttata giú sulla carta. Il vero lavoro sul racconto, forse il segreto della sua riuscita artistica, è cominciato piú tardi. In origine il manoscritto era lungo quasi il doppio, ma ho continuato a ridurlo nelle successive revisioni e poi a ridurlo ancora, fino a che non ha raggiunto la lunghezza e le dimensioni attuali.
Oltre la confusione, o il disturbo della personalità al centro del racconto – immagino si tratti del tema principale – credo che la storia sia riuscita a cogliere una sensazione essenziale di mistero o di stranezza che deriva in buona parte da come l’argomento è stato affrontato e che in questo caso costituisce lo stile del racconto. Si tratta infatti di un racconto molto «stilizzato» ed è proprio questo che contribuisce a dargli valore.
Ogni volta che torna nell’appartamento degli Stone, Millar sprofonda sempre piú in un abisso che si è scavato da solo. Il punto di svolta del racconto, è chiaro, si ha quando Arlene insiste per recarsi da sola nella casa accanto e alla fine Bill è costretto ad andarla a prendere. Il suo aspetto e le sue parole (ha le guance molto colorite e «c’era una peluria bianca, sul suo maglione, dietro») rivelano che anche lei si è dedicata a sua volta allo stesso tipo di rovistamenti ed esplorazioni che avevano impegnato il marito.
Secondo me, il racconto, piú o meno, è artisticamente riuscito. L’unico mio timore è che sia un po’ troppo esile, troppo ellittico e sottile, troppo disumano. Spero tanto di no, ma a dir la verità non lo considero il tipo di racconto che si ama senza riserve e a cui ci si abbandona, il racconto che in definitiva resta nel ricordo per la sua portata, per l’ampiezza, la profondità e i sentimenti realistici dei personaggi. No, questo è un racconto di tipo diverso – magari non migliore, ma certo spero anche non peggiore, comunque diverso – e le verità e i valori interni ed esterni del racconto non hanno molto a che fare, temo, con la descrizione di personaggi o con alcune delle altre virtú apprezzate nella narrativa breve.
Quanto agli scrittori e alle scritture che amo, tendo a trovare intorno a me molte piú cose che mi piacciono rispetto a quelle che mi dispiacciono. Secondo me, oggi si scrivono e si pubblicano un sacco di belle cose, sia sulle riviste importanti che su quelle a tiratura limitata, e anche sotto forma di libri. Certo, c’è pure un sacco di roba non tanto buona, ma perché preoccuparsi di quella? A mio parere Joyce Carol Oates è la prima scrittrice della mia generazione, forse di qualsiasi generazione recente, e dovremo tutti imparare a vivere sotto la sua ombra o incantesimo – perlomeno nel prossimo futuro.
Titolo originale: On «Neighbors».
Questo scritto è apparso per la prima volta, senza titolo, nell’antologia Cutting Edges: Young American Fiction for the 70’s, a cura di Jack Hicks (Holt, Rineheart and Winston, New York 1973). È stato infine ripubblicato con il titolo con cui appare qui in No Heroics, Please. Uncollected Writings cit. Il racconto Vicini è pubblicato in italiano in Vuoi star zitta per favore?, traduzione di Riccardo Duranti (Einaudi, Torino 2009).

A proposito di Bevendo e guidando

Non mi considero un poeta «nato». Molte delle poesie che scrivo le scrivo perché non sempre ho tempo per scrivere racconti, il mio primo amore. Un risultato della mia preferenza per la prosa è che a una linea narrativa ci tengo e, di conseguenza – credo – parecchie delle mie poesie hanno una tendenza narrativa. E poi mi piacciono le poesie che mi dicano qualcosa alla prima lettura, anche se ci sono poesie che mi piacciono molto, oppure non mi piacciono particolarmente ma ne intuisco il valore, che leggerò una seconda, terza, quarta volta per scoprire che cos’è che le fa andare. In tutte le mie poesie cerco di definire uno stato d’animo preciso o un’atmosfera. Uso sempre il pronome personale di prima persona, anche se molte delle poesie che scrivo sono di pura invenzione. Però, in effetti, hanno spesso anche un sia pur tenue collegamento con la realtà, come per esempio succede in Bevendo e guidando.
La poesia è stata scritta un paio di anni fa. Secondo me in essa c’è una certa tensione e voglio credere che riesca a comunicare il senso di smarrimento e di vaga disperazione del narratore che pare – perlomeno a me – essere arrivato a un punto in cui non sa piú che fare. Quando l’ho scritta avevo un impiego abbastanza decente e lavoravo in ufficio dalle otto alle cinque. Ma, come succede sempre quando si lavora a tempo pieno, non c’era mai abbastanza tempo. Per un certo periodo non ho scritto e non ho letto niente. Forse è un po’ esagerato dire «in sei mesi / non ho letto un libro», ma all’epoca ero convinto che un’affermazione del genere non fosse poi tanto lontana dalla verità. Qualche tempo prima che mi venisse questa poesia avevo letto La ritirata da Mosca di Coulaincourt, uno dei generali di Napoleone, e un paio di volte, in quel periodo, ero andato in giro in macchina di notte con mio fratello; tutti e due ci sentivamo un po’ bloccati e senza meta e insieme ci lavoravamo una bottiglia di Old Crow. Comunque sia, quando mi sono seduto a scrivere la poesia, nella mia testa c’erano vaghi ricordi o tracce di questi fatti insieme a ben piú concrete sensazioni di frustrazione legate a quel momento. Credo proprio che tutte queste cose si siano fuse insieme.
In verità non vi posso dire molto di piú sulla poesia e sul suo processo di composizione. Non so neanche quanto sia venuta bene, ma secondo me ha i suoi meriti. Vi posso solo dire che è una delle mie preferite.
Titolo originale: On «Drinking and Driving».
Questa dichiarazione accompagnava il testo della poesia nell’antologia New Voices in American Poetry, curata da David Allan Evans, Winthrop Publishers, Cambridge (Mass.) 1973. È stato infine ripubblicato in No Heroics, Please. Uncollected Writings cit.
Il testo italiano della poesia si trova in Voi non sapete che cos’è l’amore. Racconti-poesie-saggi cit.

A proposito di riscrittura

Quando mi è stato chiesto se volevo scrivere una prefazione a questo libro [Fires], ho risposto di no. Ma poi, piú ci pensavo, piú mi pareva che forse ci voleva qualche parola d’accompagnamento. Però non una prefazione, ho detto. Non so perché, ma una prefazione sembrava un po’ presuntuosa. Le prefazioni e le introduzioni alle proprie opere, sia in prosa che in versi, dovrebbero essere riservate a eminenze letterarie che, diciamo, abbiano superato i cinquant’anni. Meglio magari una postfazione, ho detto. Perciò quel che segue, in bene o in male, sono alcune parole dopo il fatto.
Le poesie che ho scelto di inserire sono state scritte tra il 1966 e il 1982. Alcune sono apparse per la prima volta in raccolte come Near Klamath, Winter Insomnia e At Night the Salmon Move. Ho scelto anche poesie composte dopo la pubblicazione di quest’ultimo libro, nel 1976, poesie apparse in riviste, ma non ancora in libro. Le poesie non sono ordinate cronologicamente, bensí piú o meno organizzate in ampi gruppi che hanno a che fare con particolari modi di vedere e sentire le cose – una costellazione di sentimenti e di atteggiamenti – che mi sembravano operanti quando ho cominciato a considerarle con l’intenzione di raccoglierle in questo libro. Alcune di esse sembravano cadere naturalmente in certe aree o sotto determinate ossessioni. Per esempio, ce n’erano diverse che in un modo o nell’altro avevano a che fare con l’alcol; altre con viaggi all’estero o con personaggi stranieri; altre ancora incentrate soltanto su aspetti domestici e familiari. Insomma, quello tematico diventò il principio ordinatore del libro che stavo mettendo insieme. Per esempio, nel 1972 ho scritto e pubblicato una poesia intitolata Cheers («Alla salute»). Dieci anni dopo, nel 1982, in una vita molto cambiata e dopo parecchie poesie di natura completamente diversa, mi sono ritrovato a scrivere e a pubblicare una poesia intitolata Alcohol. Ma quando è arrivato il momento di fare una scelta di poesie per questo libro, è stato il contenuto o l’ossessione dominante (la parola «tema» non è che mi piaccia molto) a suggerire, la maggior parte delle volte, la posizione delle poesie. Non c’è niente di straordinario o di particolarmente rilevante in questo processo.
Un’ultima cosa: in quasi tutti i casi le poesie apparse nei libri precedenti sono state leggermente, a volte molto leggermente, riviste e corrette. Comunque, sono state sottoposte a revisione, l’estate scorsa, e secondo me ne sono uscite migliorate. Ma tornerò sull’argomento «revisione» piú tardi.
I due saggi sono stati scritti nel 1981, su commissione. In un caso, uno dei redattori della «New York Times Book Review» mi aveva chiesto di scrivere qualcosa su «un qualsiasi aspetto dello scrivere» e il risultato fu il breve saggio Il mestiere di scrivere. L’altro, invece, fu scritto diet...

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