La chiamiamo Rani dell’incrocio ma quando era madre…
Cosa significa quando era madre? Non smetti di essere madre solo perché i tuoi figli sono morti.
Guarda cosa hai combinato. Hai rivelato la fine della storia.
Come sarebbe la fine? Non ti arrabbiare con me, baba. Inizia dal principio.
Perché, da dove dovrei iniziare? Forse dovresti raccontarla tu questa storia. Sei diventato un esperto in questo campo, mi sembra.
Arrey, meri jaan, non ti arrabbiare. Non ti interrompo piú. Stiamo aspettando. Vogliamo sentire te e basta.
La chiamiamo Rani dell’incrocio ma quando era madre… no, non suona bene.
Jaan, non l’hai mai raccontata cosí questa storia. Ma è anche vero che non l’hai mai raccontata senza prima berti qualcosa di forte e scuro che ti sciogliesse la lingua.
Fammi provare un’altra volta.
Dicono che in realtà si chiamasse Mamta, ma per noi era solo Rani dell’incrocio. Se ne stava ferma agli svincoli dell’autostrada come uno spaventapasseri che qualcuno aveva strappato da una risaia e piantato per scherzo sotto un semaforo. Le sue braccia sottili si allargavano come le ali di Jatayu e dalla sua bocca le maledizioni uscivano come cicloni mandando in frantumi i parabrezza.
Cicloni! Io ero lí, dietro la tua sedia a rotelle, e non ho visto nessun ciclone, ma la racconti cosí bene che voglio crederti.
Taci.
La prima volta che abbiamo visto Rani dell’incrocio abbiamo pensato che avesse inventato un nuovo modo di elemosinare, ed eravamo invidiosi. Quelli in auto premevano i tasti per aprire i finestrini, la fotografavano col cellulare, ridevano abbassandosi quando gli sputi che lei gli lanciava li colpivano in faccia come fossero tombini. Però la guardavano.
Era un miracolo.
Vedi, nessuno ha piú tempo di lanciare un’occhiata a noi mendicanti, di avere pietà per le nostre facce maciullate dagli anni e dalla fame, per le nostre gambe fasciate che finiscono al ginocchio, per i bambini moccicosi che teniamo tra le mani come mazzi di fiori. Pensa che noi due elemosiniamo usando un altoparlante – eccolo qui, attaccato alla mia sedia – ma per quanto urliamo, a volte sembra che il mondo intero sia diventato sordo. Siamo pronti a fare qualsiasi cosa pur di attirare l’attenzione della gente. Ci infiliamo nel traffico per picchiare sui cofani delle macchine, schiacciamo la faccia sui finestrini freschi come fossero acqua, rigando di lacrime il vetro, nella speranza che un bambino intento a guardare i cartoni su uno di quei cosi alzi lo sguardo ed esclami: «Mamma, guarda quell’uomo. Compriamogli un gelato».
Te l’abbiamo detto, siamo disperati.
Ai vecchi tempi i medicanti andavano di porta in porta, picchiavano col catenaccio sul cancello, e gridavano: «Mamma, le avanza qualcosa oggi?», e la gente regalava roti secchi rimasti dalla cena della sera prima o un vecchio kurta che avrebbe usato come straccio per pulire il banco della cucina, o qualche spicciolo se il figlio aveva preso dei voti alti agli esami, o se avevano trovato un marito ricco per la figlia. Adesso invece, quelli ricchi abbastanza per dividere il cibo con noi vivono in quartieri protetti da cancelli, dietro muri alti il doppio di noi, con cartelli che dicono ATTENZIONE: CANI DA GUARDIA LIBERI, PARCHEGGIO A PROPRIO RISCHIO E PERICOLO, AI PARCHEGGIATORI ABUSIVI VERRANNO SGONFIATE LE RUOTE. A sorvegliare le loro residenze ci sono guardiani che nei pomeriggi invernali si scaldano le ossa al sole seduti su sedie di plastica fuori dai cancelli.
Mi stai facendo una lezione sui mendicanti? Che mi dici di Rani dell’incrocio?
Mi stai interrompendo. Un’altra volta.
Scusa tanto.
Pensavamo che Rani fosse una mendicante come noi finché qualcuno non ci ha detto che non era cosí. Lei se ne stava lí dritta nel suo sari verde a righe bianche, e noi guardavamo gli orli che col tempo si scucivano, e i colori che con tutti quei gas di scarico diventavano sempre piú scuri. I capelli in certi punti erano bianchi come i lampi degli dèi, in altri neri come l’ombra. La voce era forte e chiara, e prolungava ogni imprecazione a tal punto che tra «figlio» e «puttana» o «farti» e «fottere» si creava un intervallo sinistro: a dire il vero le parole che usava erano addirittura peggio, ma non è il caso di ripeterle qui, e nemmeno è necessario.
Ma fanno ridere.
Non ora.
Per favore, continua. Non fare caso a quel che dice questo imbecille.
Rani se ne infischiava dell’etichetta, e a volte sollevava il sari e la sottoveste, si tirava giú le mutande e faceva i suoi bisogni in mezzo alla strada, e chi trovava la cosa indecente chiamava la polizia. Chissà quante volte è stata arrestata e poi rilasciata. Forse la luna, le stelle o i nibbi in cielo hanno tenuto il conto.
Ogni volta che usciva di prigione andava a piazzarsi a un incrocio diverso. Ai suoi piedi si raccoglievano le monete tirate da chi scambiava i suoi improperi per benedizioni, e da chi invece le capiva benissimo ma aveva pietà di lei dopo che l’aveva riconosciuta per averla vista al telegiornale. Lei però i soldi non li toccava. Non comprava mai da mangiare, nemmeno un bicchiere di tè. Qualcuno diceva che mangiasse i cani randagi, i gatti o le capre che si allontanavano troppo da casa; che per dissetarsi leccasse l’acqua dalle pozzanghere, che sapeva di benzina e aveva i riflessi dell’arcobaleno. A noi tutto questo non interessava, eravamo come i guardabuoi che tolgono le zecche dal dorso delle vacche. Prendevamo le monete e litigavamo su come dividercele. Di lei non ci importava niente.
Finché lei non morí.
Ecco che hai svelato la fine, cretino.
Ma jaan, nemmeno questa è la fine.
Qualcuno ci disse…
… era uno che tirava il risciò o un venditore di noccioline?
Vuoi star zitto, per favore?
Non incontrammo mai Rani nei posti dove andavamo a nasconderci quando la squadra speciale contro l’accattonaggio provava ad arrestarci, o nei rifugi dove per entrare facevamo la fila nelle notti d’inverno in cui il freddo ci spezzava le ossa, o in coda per i viveri che i ricchi distribuivano gratis durante le feste di Ram Navami o di Janmashtami. Però abbiamo sentito tante storie su di lei: che aveva lavorato come cuoca in una decina di case diverse; che il marito era morto alcolizzato; che nel porto di Mumbai, il giorno del suo diciottesimo compleanno, il figlio era riuscito a imbarcarsi come bagaglio su una nave diretta a Dubai, ed era finito cadavere in Nigeria. Dicono che Rani avesse riposto tutte le sue speranze nella figlia, che di giorno studiava Ingegneria e la sera dava lezioni private, ma una notte, mentre rientrava a casa, la ragazza era stata rapita da quattro uomini. Gli uomini l’avevano riportata nel luogo esatto dove l’avevano sequestrata, ma a quel punto il suo corpo era talmente straziato che era stato impossibile salvarla.
Fu Rani ad accendere la pira funeraria della figlia, perché non c’era nessun altro, men che meno un uomo, a raccogliere un ceppo ardente per liberarne l’anima. Dopo di che si mise a frugare a mani nude tra le braci roventi per raccogliere le ceneri e i frammenti caldi delle ossa di sua figlia. Li mise in un vaso e andò fino a Varanasi per disperderli nel sacro Gange.
Per molto tempo fu convinta che la polizia avrebbe trovato gli aggressori. Venne intervistata dai giornali e comparve in tv per parlare della figlia, il-futuro-ingegnere-che-non-lo-sarebbe-diventata-mai-piú, ma i giornali finirono nella spazzatura, mangiati dalle vacche o spazzati via dalle scope. Lo scoppio di una bomba che aveva ucciso e mutilato un centinaio di persone spazzò via dallo schermo la faccia della figlia. Quando andò alla polizia, quelli le chiesero se la figlia era una ragazza di facili costumi; lo sanno tutti che soltanto un certo tipo di donna esce sola dopo una certa ora.
Rani tornò al suo lavoro di cuoca in quella decina di case dove aveva sempre lavorato, e le padrone le dissero nelle loro varie lingue – bengalese, punjabi, hindi, marathi –, «che sfortuna che queste cose capitino sempre a te», e poi le chiesero di togliere i semi dai peperoncini perché, nel breve tempo in cui era stata assente, baba o nana avevano iniziato a soffrire di acidità. «Un’acidità tale che pensavamo si trattasse di un attacco di cuore». Ma tutto quello che Rani cucinava aveva il sapore delle ceneri di sua figlia. Per quanto le strofinasse, le sue dita continuavano a odorare di fumo, di fuoco e di carne bruciata. Le padrone la mandarono via.
Fu allora che cominciò a mettersi agli incroci, insultando i passanti. Nella faccia di ogni uomo vedeva quella dell’assassino della figlia.
Ci siamo arricchiti sulla sua rabbia.
Nessuno si è arricchito. Eravamo mendicanti e mendicanti siamo rimasti.
Rani visse un anno dopo la morte della figlia, o forse due. Quando non hai una casa, come noi, e non hai niente che segni il passaggio del tempo se non le stagioni, e le stagioni sono piú o meno le stesse di anno in anno, forse un po’ troppo calde o un po’ troppo fredde, è difficile dirlo. Non sappiamo neanche quando siamo nati.
La polizia mandò un furgone a prendere il cadavere di Rani. Qualcuno ci disse che all’obitorio l’avevano fatta a pezzi come la figlia e poi l’avevano bruciata al crematorio vicino al fiume. Questo fecero, per lei: rimasero a fissare la legna che crepitava e scoppiettava mentre le fiamme lambivano quella povera donna, consumandola. Allora pensammo che avesse trovato finalmente pace.
Ci rendiamo conto che per voi è difficile ascoltare tutto questo. Non è certo il tipo di storia che i genitori raccontano ai figli per farli addormentare. Ma è un bene che la stiate a sentire. Dovete sapere com’è veramente il mondo in cui viviamo.
Se hai finito con la lezione…
… sí, certo, scusa di nuovo.
Per qualche mese dopo la sua morte, non abbiamo sentito parlare granché di Rani, poi, improvvisamente, non si parlava d’altro.
Accanto all’incrocio dove aveva trascorso piú tempo c’era una tomba con una cupola tutta incrostata per via della pioggia, dei gas di scarico e della cacca dei piccioni; tutt’intorno crescevano folti cespugli spinosi di cui nessuno sapeva il nome. Dicono che quando Rani era ancora viva, tra una raffica di maledizioni e l’altra andava a quella tomba per riposare le gambe deformi che non la reggevano piú.
Dopo la sua morte, gli amanti che venivano da altre parti della città e che in quella tomba si rifugiavano per interi pomeriggi, non rimanevano neanche la metà del tempo. C’era qualcosa di sudicio nell’aria, dicevano gli uomini. Sentivano delle voci che li chiamavano. Odori che ricordavano loro tutte le volte che avevano peccato, bottiglie di profumo rotte in un accesso di rabbia, l’assafetida nei piatti di dal rovesciati, la curcuma nel latte caldo che le mogli preparavano per loro la sera ai primi sintomi di febbre e raffreddore… e loro lí invece, con una donna che non era la moglie. Nell’aria c’era una strana energia, come l’attimo prima che il pugno colpisca la guancia.
I loro sospetti vennero confermati una sera di novembre, mentre l’oscurità scendeva veloce, come accade ogni inverno...