C’è uno scarto di tempo tra la testa che dice di correre e le gambe che obbediscono al comando. Arrivo al mercato, mi faccio largo senza chiedere permesso. Giro a destra, imbocco il viale alberato e vado piú veloce che posso. A ogni passo segue un attimo di sconcerto, come se gli organi interni dovessero ritrovare ciascuno il proprio posto. Svolto a sinistra, attraverso il corso alla cieca, un’auto inchioda: il conducente mi urla che sono un’idiota. Vorrei gridare: Fottiti. Sei a cento metri, fottiti. Ma non ho tempo né fiato da perdere.
Torni piú tardi, mormora un uomo in divisa, chiuso in un gabbiotto di vetro. Ma il sangue mi pulsa nelle orecchie cosí forte che non riesco a sentirlo e gli chiedo di ripetere.
Non è orario di visita, fa lui.
Allora gli dico chi sono. Ho la camicia incollata alla pelle e le braccia che formicolano come se ci avessi dormito sopra. La mano ha lasciato un’impronta sul vetro.
L’uomo in divisa esce dalla guardiola e mi indica la strada: devo seguire le frecce della terapia intensiva, prendere un corridoio, salire e scendere scale, uscire in cortile, raggiungere un’altra ala.
Mi perderò certamente, gli dico.
Invece arrivo al reparto senza perdermi. Un infermiere mi aiuta a indossare un camice verde, una cuffia e i copriscarpe. Mi invita a entrare in una grande stanza con le tapparelle abbassate e una debole luce al neon: conto quattro letti separati da pareti mobili, ma solo due sono occupati.
È qui. Ora vado a chiamare il dottore, mi dice.
Antonio è disteso sopra il lenzuolo. Gli occhi chiusi sono cerchiati di nero. Anche la pelle del viso è livida, ma forse è solo colpa dei neon. Indossa un camice bianco con dei piccoli disegni blu che gli lascia scoperte le gambe quasi glabre. Ha un tubo che esce da un lato della bocca, collegato a un respiratore, e un intreccio di tubicini e fili per il monitoraggio.
C’è una sedia, sistemata accanto al letto. Vorrei piangere ma il mio corpo è come prosciugato: non ho lacrime né saliva, non riesco nemmeno a deglutire.
Non mi pesa questo silenzio interrotto solo dai respiratori e dalle macchine del monitoraggio. Se lui fosse cosciente, invece, impazzirebbe.
Il silenzio è cosí preciso.
Ci sono giorni che lascio trascorrere senza quasi aprire bocca.
In genere i pensieri mi si accumulano nella testa ed escono dai denti solo dopo aver constatato che le parole non creano disturbo.
E ora ho questo pensiero che cresce e preme contro la scatola cranica: è stato un incidente. La scala era appoggiata a un albero, lui era sull’ultimo gradino.
Lo vedo oscillare, mentre cerca un appiglio tra i rami del melograno.
I rami si spezzano, la schiena si flette all’indietro, un braccio ruota nell’aria. È goffo, con quella bocca spalancata in un urlo che non arriva.
Osservo la pelle secca e l’intreccio di vene azzurre sui polpacci e per la prima volta mi accorgo che ha le gambe di un vecchio. I suoi movimenti, sembrano i gesti impacciati di un vecchio.
La scala non è alta, mi dico, potrebbe cavarsela con qualche graffio o un braccio rotto. E invece Antonio resta a terra e non riprende conoscenza.
Quelli del soccorso lo legano alla barella, lo caricano sull’ambulanza e mi chiedono di salire. Non salgo.
Rientro, mi sfilo il maglione e comincio a riordinare. È incredibile il disordine che quell’uomo riesce a produrre nelle poche ore che trascorre a casa. Scarpe, vestiti, tazzine di caffè e quotidiani abbandonati ovunque. Ogni spazio disponibile è riempito dalla sua presenza.
Sistemo tutto, passo l’aspirapolvere, cambio le lenzuola e vado al bar.
Sento un rumore di passi: suole di gomma sul pavimento di linoleum. Qualcuno mi ha appoggiato una mano sulla spalla e ha stretto lievemente le dita. Mi segua nel mio studio, dice la sua voce, e io obbedisco.
Signora Pichler, si sieda, dice il dottore.
Grazie, sto bene cosí.
La prego, insiste. Si sieda.
Dice che mio marito ha avuto un infarto, e che lo hanno sottoposto a un intervento di angioplastica.
La scrivania si mette a vibrare. Il telefono sta squillando, ma il dottore rifiuta la chiamata.
Mi spiega che hanno inserito un palloncino e riaperto l’arteria che si era chiusa, che la stenosi era avanzata, che una parte delle cellule era già in necrosi. Ma sono parole che non capisco: non so di cosa stia parlando. Lo interrompo e gli chiedo se si salverà.
L’operazione è riuscita, dice, ma un pezzo del suo cuore non tornerà piú a funzionare.
Il telefono squilla di nuovo. Il dottore indugia, poi chiede scusa e si decide a rispondere. Si è alzato dalla scrivania e passeggia guardandosi la punta delle scarpe, mentre si sfiora la barba con la mano libera.
Al telefono dice: Va bene amore, me lo racconti poi.
Non ricordo come si chiama. Dimentico i nomi delle persone un attimo dopo che si sono presentate e ora non so come si chiama l’uomo che ha salvato Antonio.
Chiude la telefonata e torna a sedersi.
Mi scusi, era mio figlio. È a casa da solo, oggi pomeriggio non dovrei essere di turno.
Mi dispiace.
È il mio lavoro, non deve dispiacersi.
Guardo la finestra e il cielo lattiginoso. La stanza è spoglia e pulita, eccetto il lenzuolo di carta sul lettino, che è già stato usato.
Il dottore è seduto sul bordo della sedia e ha le mani incrociate su una scrivania vuota. Penso alla mia scrivania, ingombra di libri, fogli volanti, vecchi giornali. Mi rilasso, abbandonandomi allo schienale. Aspetto che accenni alla fama di Antonio, al successo della trasmissione televisiva che conduce da tre anni, come fanno tutti. Invece mi chiede se so spiegare che cos’è accaduto.
Allora gli dico: Ha avuto un infarto, è stato lei a dirmelo. Io ero in casa, stavo lavorando.
Quindi non si è accorta subito che suo marito era caduto?
Ho sentito il rumore dei rami che si spezzavano e poi il rumore del suo corpo a terra. Sono corsa fuori.
Era cosciente?
No.
Non ha mai ripreso conoscenza?
No.
Signora Pichler, c’è stato un problema.
Quale problema?
È stato soccorso in ritardo.
Vorrei rispondergli che non è vero, non è andata cosí, non c’è stato alcun ritardo. Ma sono troppo stanca, resto in silenzio: pensi quello che gli pare. Poi gli chiedo di nuovo: È sicuro che si salverà?
Lui si sporge in avanti.
Sono sicuro, dice.
Piú tardi provo a chiamare la segretaria di Antonio, ma il telefono suona a vuoto. Allora mando un messaggio. Scrivo: Maria, c’è stato un incidente. Antonio è in ospedale. Vi tengo informati.
Poi spengo il cellulare.
Lei si chiama Anna e lavora in un giornale. L’ho incontrata a una festa, a Milano, circa un anno fa: prima che Antonio decidesse che le feste lo annoiavano a morte e smettessimo di frequentarle.
Beveva del vino, seduta su un divano viola. Indossava bracciali che risuonavano a ogni movimento della mano, e una gonna corta, leggera, che si apriva sul davanti e lasciava scoperte le gambe magre.
La casa era minuscola e piena di gente. Una carta da parati con dei pellicani neri rivestiva le pareti e c’erano libri e bottiglie e bicchieri dappertutto, e quell’enorme mazzo di fiori che avevamo portato in regalo non sapevamo nemmeno dove posarlo.
La padrona di casa ci ha salutati frettolosamente e poi è corsa in cucina a dare disposizioni per la cena. Le finestre erano aperte ma c’era poca aria. Di tanto in tanto qualcuno urlava per segnalare il suono del campanello, offrendosi di andare ad aprire.
Anna e Antonio si conoscevano già da prima. Ho un ricordo preciso di quella sera: lui la saluta a distanza, con un gesto della mano, lei distoglie lo sguardo. La osservo e penso che deve avere all’incirca la mia età, ma che ha un altro modo di portare i suoi anni. Con insolenza, mi verrebbe da dire.
Ha i capelli lunghi, che sotto la luce hanno riflessi ambrati e onde disciplinate che le ricadono sul petto. L’uomo che le sta seduto a fianco glieli sfiora e le sussurra qualcosa affondandole la faccia nel collo, lei scoppia a ridere, a voce troppo alta, gettando indietro la testa. La sua risata ha il rumore di un improvviso scroscio d’acqua.
Poco dopo Antonio mi propone di andarcene. Che ne dici di filarcela? mi suggerisce alle spalle. Ma un collega gli artiglia un braccio e lo trascina dall’altra parte della sala, mentre io mi ritrovo a discutere con uno sceneggiatore magro, vestito di nero, che mi chiede un’opinione sul cocktail che stiamo bevendo, un vodka zen: è il pezzo forte della serata, ma allo sceneggiatore pallido sembra di succhiare una caramella frizzante allo zenzero. Preferisce la versione con il vermouth. Io alzo le spalle annoiata: per quanto mi riguarda, non fa differenza. Ma lui non smette di parlare, vorrebbe sapere qualcosa di me. Tu che lavoro fai? mi chiede. E io cambio subito discorso, perché scrivo libri che firmano altri e nei contratti che stipulo con gli editori la clausola che prevede la mia invisibilità è ben piú lunga di quella che stabilisce i miei diritti.
Cerco mio marito con lo sguardo. È di spalle, lo vedo arruffarsi i capelli con una mano: da quando i capelli gli si sono diradati si afflosciano, s’incollano alla fronte e gli danno un’aria perbene. Lui non vuole sembrare perbene: è uno che indossa abiti da mille euro e poi si rifiuta di lucidare le scarpe. È questo che piace al suo pubblico: la sofisticata noncuranza. Bisogna prestare attenzione a un sacco di particolari, quando si vive costantemente su un palcoscenico.
Sta bevendo qualcosa di trasparente, forse un gin tonic. Riconosco le persone che sono con lui: uno scrittore, un comico, un’agente letteraria e infine Anna.
Tutti pendono dalle labbra di Antonio. Scommetto che vogliono sapere qualcosa di sensazionale. Chi vincerà le elezioni o dove colpiranno i terroristi: lo interrogano come fosse un oracolo. Vogliono una notizia formidabile da rigirarsi a lungo in bocca prima di risputarla altrove.
Mi avvicino, mentre Antonio prende il bicchiere di Anna per versarle del vino. Lei gli sfiora la schiena: la mano si appoggia alle scapole di mio marito e scende fino alle ultime vertebre. Ma lui non sembra turbato e nemmeno sorpreso. Come se il calore di quella carezza fosse qualcosa di familiare.
Anna riafferra il bicchiere colmo ma poi di scatto si volta e mi vede. La mano scivola via dalla schiena di mio marito e lo sguardo si posa sul contenuto del bicchiere.
Mi unisco al gruppo e mi sforzo di sorridere.
Non sapevo ancora chi fosse quella donna, ma sapevo che dovevo diffidare di lei.
Alle due, quando gli alcolici erano finiti e ci siamo ritrovati a bere Coca-Cola nei bicchieri di plastica, qualcuno ha detto che si era fatto tardi e che era ora di andare.
Sulla porta ci siamo scambiati baci, sfiorandoci le guance. Sentivo i passi di Anna allontanarsi sul marciapiede, tacchi non risuolati: le donne eleganti non fanno tutto quel rumore quando camminano.
Non ho piú visto Anna dopo la festa. Però ho saputo che è rimasta incinta e che, una settimana fa, è nato il suo bambino. Me lo ha detto Antonio.
Antonio è il padre di quel bambino.
Dipende dalle piogge. Se non piove per una settimana o due, non si respira. La loro puzza entra dalle finestre, un odore come di ammoniaca. Lui non ci fa caso. Dice che si è abituato e non la sente nemmeno. Dice che mi sono fissata. Io chiudo le finestre e le porte che danno sul giardino, viviamo barricati in casa fino alle nuove piogge, gli dico che quei gatti se ne devono andare, che prima o poi l...