Insultare gli altri
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Insultare gli altri

Filippo Domaneschi

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  1. 176 pagine
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Insultare gli altri

Filippo Domaneschi

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Il linguaggio verbale dispone di un vasto repertorio di espressioni deputate a svolgere una specifica funzione: insultare gli altri. Quasi tutte le lingue possiedono un arsenale di insulti che variano per quantità, contenuti e grado di volgarità. Illustrando i meccanismi psicologici e linguistici alla base della violenza verbale, questo libro analizza le ragioni che fanno dell'insulto e del linguaggio d'odio un fenomeno virale nelle conversazioni quotidiane, nel conflitto politico e, non in ultimo, nei social media. Gli insulti rappresentano il lato oscuro del linguaggio, un fenomeno deplorevole e maleodorante. La lingua parlata, tuttavia, merita attenzione in tutte le sue forme. Chi si occupa di linguaggio deve indagare tutte le possibilità espressive del linguaggio umano. Esaminare gli insulti può aiutarci a capire qualcosa di piú del modo in cui concepiamo il mondo e le persone che ci circondano.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858434789
Capitolo primo

Parole che offendono

L’epoca d’oro dell’ingiuria.

Insulti a Merkel, stima per Putin: le telefonate di Trump che allarmavano i suoi collaboratori1, Insulti omofobi di un genitore al maestro d’asilo2, Insulti alla Camera, Sgarbi: «Denuncio Carfagna e Bartolozzi»3, ... fischi e insulti all’intruso Salvini4, Salvini chiama Zingaretti “cretino”, poi ritira l’insulto5, Torino, insulti razzisti a un negoziante6. Sono solo alcune delle notizie che oggi, 2 luglio 2020, compaiono sulle prime pagine online dei principali quotidiani italiani. Il tema dell’insulto è un motivo che risuona con sempre maggiore frequenza nella politica interna ed estera, nella cronaca, cosí come nelle notizie di costume. L’insulto provoca reazioni, suscita indignazione, esorta a prendere posizione, quindi, fa notizia.
Abbiamo in effetti la netta sensazione di vivere in un’epoca in cui ingiurie, insulti e improperi piovono da tutte le parti. Forse, però, sarebbe ingenuo guardare al presente con preoccupazione, mossi dalla nostalgia per un piccolo mondo antico in cui i dialoghi erano scanditi da elogi e ossequi. Gli esseri umani si insultano, da sempre. Persino dalle bocche di Catullo, Sallustio e Cicerone uscivano spesso e volentieri insulti rozzi e volgari7. Che cos’è dunque che rende cosí attuale e urgente una riflessione sul tema dell’insulto? Vi sono perlomeno due motivi per credere che la diffusa considerazione per il fenomeno dell’insulto abbia a che fare con cambiamenti attuali nel modo di concepire la comunicazione e le interazioni con gli altri, che fanno dei nostri tempi l’epoca d’oro dell’ingiuria.
La prima ragione risiede nella frequenza con la quale le espressioni di insulto ricorrono nel linguaggio politico odierno. Insulti e offese sono oggi piú che mai un attrezzo retorico di delegittimazione dell’avversario e di costruzione del consenso politico. È sufficiente una frettolosa ispezione dei piú recenti tweet di Trump per rendersi conto di come emerga con facilità la strategica e sistematica propensione all’annientamento degli oppositori politici per mezzo di denigrazione – «The New York Times» ha stilato una lista delle 598 persone, luoghi e cose insultati da Trump su Twitter8. I rivali vengono spesso appellati come «deboli», «incompetenti», «falliti», «frivoli», «stupidi» o «clown». I nomi propri dei suoi detrattori sono abilmente storpiati con rodati meccanismi retorici tramite i quali l’avversario viene ribattezzato come dope-, drogato, sloppy-, sciatto o crazy-, folle: «Dope Frank» (Frank Bruni, giornalista del «New York Times»), «Dopey Mort» (Mortimer Zukerman, proprietario del «New York Daily News»), «Sloppy Graidon» (Graidon Carter, ex editore di «Vanity Fair»), «Sloppy Michael» (Michael Moore, noto documentarista americano), «Crazy Nancy» (Nancy Pelosi) e «Crazy Bernie» (Bernie Sanders). Nulla di particolarmente nuovo dalle nostre parti. Ricorderanno in molti, nel periodo caldo dei Vaffa-day, come Beppe Grillo infarcisse le sue sfuriate pubbliche di sostantivi ingiuriosi per chiamare in causa i bersagli della sua satira politica: «Psiconano» Berlusconi, «Rigor Montis» Mario Monti, «Salma» e «Zombi», rispettivamente, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Walter Veltroni, «Alzheimer» Prodi o, senza timore di cadere nella coprolalia piú violenta, anche perifrasi piú ingiuriose, come nel caso di Giuliano Ferrara definito «un container pieno di merda liquida»9.
Il secondo motivo che fa dell’insulto una questione quanto mai viva e attuale ha a che fare con un problema che risiede là dove oramai tutti puntano lo sguardo: i social media. Un insulto pronunciato su una piattaforma social sottopone al pubblico ludibrio. L’esposizione pubblica sulla rete comporta un senso di vulnerabilità che talvolta può persino tradursi in diverse forme di insicurezza sociale. Questo anche perché la trincea dei social media è perennemente esposta alle raffiche del fuoco nemico. È noto che le comunità online straripano di haters e trolls, utenti che, o per puro divertimento o forti della protezione che l’anonimato nei social media conferisce, si abbandonano a raffiche di scherni, rimproveri o ingiurie pungenti nei confronti degli altri membri della community. I social media, in tal senso, rappresentano un nuovo terreno di interazione sociale particolarmente fertile per il proliferare del linguaggio denigratorio.

Caccia all’insulto.

Con l’espressione hate speech si fa generalmente riferimento a quelle parole o a quei discorsi che diffondono e promuovono contenuti violenti e offensivi nei confronti di persone o gruppi oggetto di discriminazione religiosa, razziale, etnica o legata all’orientamento sessuale. Le piattaforme social costituiscono uno dei principali territori ove prendono piede episodi di cyberbullismo e di propugnazione di messaggi d’odio, che spesso si traducono in azioni criminose. Un caso di qualche tempo fa: il 27 ottobre 2018, Robert D. Bowers, un quarantaseienne originario della Pennsylvania, armato di un fucile d’assalto e di tre pistole automatiche, entra in una sinagoga nel quartiere ebraico di Squirrel Hill di Pittsburgh e fa fuoco uccidendo 11 persone. Dalle indagini emerge che Bowers non era noto alle autorità locali prima dell’attentato. Da mesi, tuttavia, egli condivideva liberamente in modo ossessivo insulti e messaggi d’odio nei confronti degli ebrei e degli immigrati sulle pagine social di svariati movimenti antisemiti dell’ultra-destra statunitense. Non è altro che uno degli innumerevoli casi di cronaca di una strage annunciata (sui social) che grida ai quattro venti la necessità di un rapido intervento su una questione focale: sviluppare delle tecniche di individuazione (ed eventualmente rimozione) delle forme di linguaggio offensivo e ostile sulle piattaforme online.
Ad oggi, luglio 2020, YouTube conta circa 2 miliardi di utenti attivi mensilmente, Instagram 1 miliardo, mentre il piú datato Facebook ben 2,6 miliardi. Per le grandi multinazionali del web che gestiscono i social media è diventato pressoché impossibile esaminare tutti i contenuti che quotidianamente vengono pubblicati dagli utenti delle community. Si tratta tuttavia di una questione impellente, che da tempo è nel mirino della politica e della giurisprudenza. In Germania, ad esempio, dal 1o gennaio 2018, è in vigore una legge (la NetzDG) che impone ai principali social media di rispettare le rigide leggi tedesche in materia di incitamento all’odio e alla diffamazione10. La norma, tra i vari provvedimenti previsti, impone ai gestori dei social media di rimuovere post illeciti, volti a diffondere contenuti discriminatori, entro e non oltre 24 ore dalla loro pubblicazione. Si tratta di una serie di disposizioni particolarmente rigide, che non hanno tardato a generare le prime seccature per Zuckerberg e colleghi: a luglio 2019, il ministero federale della Giustizia tedesco (Bundesamt für Justiz, BfJ) ha multato il colosso americano Facebook con un’ammenda da ben 2 milioni di euro per aver fornito un elenco incompleto delle denunce ricevute in merito alla presenza di contenuti illeciti di hate speech sulla piattaforma online.
La questione dell’individuazione e rimozione dei contenuti insultanti e violenti sul web è controversa per almeno due ragioni. Primo, rischia di porre seri vincoli alla libertà di espressione degli utenti dei social media. Occorre stabilire anzitutto in che misura un contenuto ritenuto offensivo va censurato e quando, invece, è ascrivibile alla legittima manifestazione del dissenso. In estrema sintesi, potremmo dire che su questo tema si rintracciano due principali approcci11. Da un lato, il punto di vista, per cosí dire, statunitense, facendo appello al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America – che tutela la libertà di culto, di parola e di stampa – respinge ogni istanza di controllo e censura che limiti la libertà di parola. Questa visione si ancora al presupposto che la libertà di espressione sia un diritto fondamentale dei cittadini e non debba essere soggetta ad alcun intervento dello Stato; il conflitto d’opinione, da questo punto di vista, non si risolve nel contenimento delle possibilità espressive dei cittadini bensí nella moltiplicazione delle idee, delle opinioni e dei punti di vista in gioco12. Dall’altro lato, secondo la visione per cosí dire continentale, europea, la libertà d’espressione incontra dei limiti ben precisi nella difesa dei diritti umani nonché, in primis, nel rispetto degli individui. Le parole che veicolano odio e offesa, secondo questa visione delle cose, vanno espulse dal lessico del confronto democratico. Il bandolo di questa intricata matassa che impantana alcuni ambiti della giurisprudenza contemporanea pare dunque in buona parte di natura linguistica. Il quesito cruciale è: quali espressioni del linguaggio hanno una funzione offensiva e quali no?
Il secondo grattacapo ha a che fare con lo sviluppo di efficaci tecniche di individuazione dei contenuti offensivi e denigratori online. Ad oggi, le grandi aziende come Google e Facebook hanno di fatto adottato due principali strategie per arginare la diffusione di espressioni d’odio sul web. In primo luogo, tramite logiche di autoregolazione. I social media predispongono delle linee guida di utilizzo che prescrivono le norme di comportamento degli utenti nelle piattaforme, con diversi gradi di rigore. A posteriori, i processi di sorveglianza sono poi demandati a un algoritmo che raccoglie le segnalazioni degli utenti e, tramite un software di trattamento automatico del linguaggio naturale, segnala i contenuti denigratori, razzisti o violenti. L’analisi automatica viene poi supervisionata da squadre di deciders che valutano eventuali segnalazioni ritenute immotivate o che di fatto non confliggono con le norme d’uso adottate dalla piattaforma social13. Scovare i casi di linguaggio ingiurioso, odioso e violento rimane tuttavia un’impresa che comporta notevoli complicazioni teoriche. Un problema su tutti: la definizione di linguaggio insultante e offensivo non è in alcun modo perspicua e, se consideriamo che piú di un quarto degli abitanti del pianeta Terra è utente attivo di una piattaforma come Facebook, il numero e la varietà di circostanze che possono dar vita a contenuti potenzialmente offensivi diventa incalcolabile. Ecco dunque che inciampiamo in un altro rompicapo linguistico: quando e perché certi vocaboli si fanno veicolo di contenuti denigratori e offensivi?
L’urgente questione di chiarire quali espressioni del linguaggio umano giochino una funzione offensiva sembra bussare nuovamente alla porta dei linguisti e delle linguiste. Quali termini possono essere considerati insultanti? Per quale motivo alcune parole offendono? Le risposte a queste domande si scontrano con un problema di non poco conto. L’insulto è un complesso fenomeno sociale, che si realizza in forme diverse e con svariate funzioni a seconda dei contesti culturali di riferimento, della lingua parlata, dei parlanti e degli scopi in gioco nella comunicazione. Sebbene il concetto stesso sia in una certa misura universale, le sue declinazioni specifiche sono innumerevoli: un comportamento del tutto innocuo in una certa comunità può essere considerato tragicamente offensivo in un’altra. L’insulto, dunque, sfugge a una definizione univoca. Per capirne la natura e la genesi, occorre piuttosto osservare con attenzione le combinazioni di parole, azioni e cre...

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