Che le è preso a Clara Morrow? Fino a qualche anno fa era una grande artista. #MorrowBollita
Stai scherzando, spero. L’hanno riammesso alla Sûreté? #SûretéVergogna
– Merde.
– Merde? – Myrna Landers scrutò l’amica da sopra il suo tazzone di café au lait.
– Scusa, – disse Clara Morrow. – Volevo dire cazzo. Cazzo, cazzo e stracazzo.
– Adesso sà che ti riconosco. Il motivo?
– Non lo indovini?
– Sta per arrivare Ruth? – Myrna si guardò intorno con una smorfia di panico solo in parte simulata.
– Peggio.
– Impossibile.
Clara le allungò il telefono in silenzio, ma la libraia sapeva già cosa ci avrebbe trovato.
Prima di accettare l’invito a colazione dell’amica, aveva scorso rapidamente il feed dei suoi contatti Twitter. Sullo schermo, sotto lo sguardo del mondo intero, c’era il cadavere ormai freddo della carriera artistica di Clara Morrow.
Mentre Myrna leggeva, Clara avvolse le mani sporche di pittura intorno alla tazza di cioccolata calda, una delle specialità della casa, girando il viso verso il piccolo villaggio del Québec al di là del vetro.
Se il telefono era il coltello, pensò, la finestra era il balsamo. Non una cura miracolosa ma almeno un palliativo, la perfetta cornice intorno a un paesaggio familiare.
Il cielo grigio annunciava un temporale o una lunga pioggia: forse avrebbe addirittura nevicato. La strada era una poltiglia di fango, sull’erba lercia indugiavano chiazze di neve. Le poche persone uscite a portare a spasso il cane erano bardate con stivali di gomma e strati di vestiti, per impedire a quell’aprile di penetrare sotto pelle e nelle ossa.
Uno sforzo inutile.
Dopo i morsi dell’inverno canadese, l’inizio della primavera li coglieva sempre impreparati. Era colpa dell’umidità , degli sbalzi di temperatura e della vana speranza che di là a poco, per forza di cose, le temperature si sarebbero alzate.
Il bosco dietro il villaggio somigliava a un esercito invernale di spettri scheletrici, le braccia penzoloni e le membra che ticchettavano nel vento.
Dai comignoli delle case di pietra, legno o mattoni usciva un rivolo di fumo, un segnale destinato a una qualche entità superiore. Aiutateci. Mandate un po’ di calore. Mandate una vera primavera e non questa merdosa sequela di giornate fredde e fangose, di neve e disgeli.
In Québec, aprile è un mese di contrasti crudeli. Di pomeriggi sublimi da passare stravaccati al sole con un bicchiere di vino per poi svegliarsi l’indomani sotto trenta centimetri di neve. La gente impreca a mezza voce per gli stivali bagnati e le macchine luride, i cani si rotolano nell’erba e si scrollano in soggiorno. Le facciate delle case sono perennemente chiazzate di fango – fango sulle pareti, sui soffitti, sui pavimenti e sugli esseri umani.
In Québec, aprile è una vera e propria tempesta di merda. Un casino di proporzioni epiche.
Ma ciò che stava accadendo oltre le grosse finestre era rasserenante, rispetto al dramma che si consumava sullo schermo del cellulare di Clara.
Lei e Myrna avevano spostato le sedie accanto al camino, dove i ceppi crepitavano e le braci guizzavano su per il comignolo di pietra. Il bistrot del villaggio sapeva di fumo, sciroppo d’acero e caffè forte appena fatto.
– Clara Morrow è nel suo periodo marrone, – lesse Myrna. – Se definissimo «merda» i suoi ultimi lavori faremmo un torto ai liquami di fogna. Speriamo che sia solo una fase, e non il requiem di una carriera.
– Oh! – Myrna posò il telefonò e prese la mano dell’amica. – Merde.
– Dio santo. Dai Reati Gravi mi hanno appena girato questo link. Sentite un po’.
Gli agenti nella stanza ascoltarono in silenzio il collega mentre leggeva a voce alta dal cellulare. – Oggi Armand Gamache rientrerà nella Sûreté du Québec dopo nove mesi di sospensione in seguito a una serie di scelte sconsiderate e disastrose.
– Disastrose? Stronzate, – sbottò uno degli agenti.
– Già . Stronzate ritwittate da centinaia di persone.
Gli agenti e gli ispettori scrollavano in fretta i post, lanciando sguardi nervosi alla porta per assicurarsi che…
Mancavano undici minuti alle otto, e la squadra Omicidi stava per cominciare la solita riunione del lunedà mattina sui casi in corso.
Solo che quella riunione non si annunciava affatto come una delle solite. Nella stanza c’era un’elettricità amplificata dalle parole che scorrevano sullo schermo dei cellulari.
– Merde, – borbottò una degli agenti. Poi scandà a voce alta: – Raggiunte le piú alte vette del potere, il capo della Sûreté Armand Gamache non ha esitato ad abusarne, consentendo l’ingresso nel Paese a grossi carichi di oppioidi. In seguito all’inchiesta, è stato sospeso dal servizio.
– Certo che ne scrivono, di balle. E comunque poteva andare peggio.
– C’è dell’altro: In un mondo ideale sarebbe stato silurato, come minimo. E forse pure processato e sbattuto in galera.
– Oh.
– È scandaloso! – esclamò una delle agenti piú anziane. – Chi è l’autore di questa merda? Neppure un accenno al fatto che il carico l’abbiamo recuperato.
– Ovvio.
– Speriamo che lui non lo veda.
– Scherzi? Lo vedrà di sicuro.
Nella stanza calò il silenzio. Si sentivano solo i clic delle dita sui telefoni, come il fruscio del vento tra i rami spogli.
Mentre leggevano, gli agenti borbottavano parole a mezza voce. Parole che per i loro nonni avevano un’aura sacrale, e che adesso invece erano semplici imprecazioni. Tabernac. Câlice. Hostie.
Uno dei piú anziani mise giú il telefono per massaggiarsi le tempie, poi lo riafferrò di scatto. – Adesso gli rispondo per le rime.
– No. Lascia fare ai piani alti. Il commissario Toussaint li rimetterà a posto.
– Per adesso è rimasta zitta.
– Risponderà . Ha fatto l’addestramento con Gamache, starà dalla sua parte.
Nell’angolo piú remoto della stanza una di loro studiava il telefono con una profonda ruga tra le sopracciglia.
Mentre gli altri erano sbiancati, lei era avvampata. Invece di un articolo o un tweet, stava scorrendo una mail.
Nonostante avesse da un pezzo superato i quaranta, Lysette Cloutier era la novellina della squadra Omicidi, alla quale era approdata di recente dal reparto amministrativo. Per anni aveva gestito nell’ombra il budget multimilionario della Sûreté, finché Gamache aveva notato il suo talento e l’aveva destinata a risolvere delitti.
Tra loro, Lysette Cloutier era l’unica che non sapeva individuare una traccia di Dna né mettersi alle costole di un assassino, però era brava a seguire i soldi. E spesso quelli portavano anche al colpevole.
Se tutti i colleghi in quella stanza si erano fatti il culo per entrare nel dipartimento piú tosto della Sûreté, Cloutier faceva del suo meglio per esserne sbattuta fuori e tornare al piccolo mondo prevedibile della contabilità , lontano anni luce dagli orrori quotidiani, dalla violenza fisica, dal terremoto emotivo della squadra Omicidi. Alle riunioni sceglieva sempre la stessa sedia: quella che dava le spalle alla lunga bacheca con le foto segnaletiche.
Scorse un’altra volta la mail che aveva appena ricevuto, poi scrisse una risposta e schiacciò su «Invia» prima di avere il tempo di ripensarci.
– Scommetto che alcuni di quei tweet li ha messi in giro Beauvoir, – fece uno dei piú giovani.
– L’ispettore capo Beauvoir? Scherzi?
All’improvviso tutti i poliziotti si girarono verso la porta, poi scattarono in piedi facendo grattare le sedie sul pavimento.
Ferma sulla soglia, lo sguardo fisso sul giovane agente che aveva parlato, c’era Isabelle Lacoste. Quando staccò gli occhi dal ragazzo per esaminare la stanza e le facce dei colleghi, le scappò un mezzo sorriso.
L’ultima volta che aveva partecipato a una riunione del lunedà era il capo della squadra Omicidi. Ora entrava in quella stessa sala con il passo zoppicante. Era guarita, ma non del tutto. Non sarebbe piú tornata quella di prima.
Gli agenti le si strinsero intorno per festeggiarla, mentre lei si affrettava a spiegare che non aveva ripreso la guida del dipartimento. Promossa a commissario, si trovava in centrale per discutere dei tempi e delle condizioni del suo rientro in servizio.
Eppure non era una coincidenza che di tutti i giorni della settimana fosse passata proprio il lunedÃ. Isabelle Lacoste scelse la sedia a capo tavola e fece cenno agli altri di riaccomodarsi, poi tornò a fissare il giovane agente che aveva nominato a sproposito Beauvoir.
– Spiegami un po’ cosa intendevi.
Aveva la voce calma ma una postura innaturalmente rigida. I veterani della squadra riconobbero la luce che le infiammava il volto e provarono quasi pena per lo sciocco pivellino che si era attirato i suoi strali.
– Lo sappiamo tutti che l’ispettore capo Beauvoir sta per lasciare la Sûreté, – rispose il ragazzo. – Va a Parigi, ma solo tra un paio di settimane. Nel frattempo Gamache rientra in servizio, e saranno cavoli amari. Preferirei stare sotto il fuoco nemico che nei panni di Beauvoir. E scommetto che lui la pensa come me.
– Ti sbagli, – disse asciutta Lacoste.
Gli altri rimasero in silenzio.
È giovane e stupido, pensò Lacoste. E probabilmente cerca un po’ di gloria facile.
Sapeva che quell’agente in una sparatoria non ci si era mai trovato: l’espressione che aveva usato ne era la conferma. Chiunque avesse mai puntato una pistola contro un altro essere umano, preso la mira e sparato piú volte – chiunque si fosse...