Toby Fleishman si svegliò, una mattina, nella città in cui aveva trascorso tutta la sua vita da adulto e che ora brulicava all’improvviso, inopinatamente, di donne che lo desideravano. Non donne qualunque, bensà donne realizzate e indipendenti e che sapevano quel che volevano. Donne che non cercavano aiuto né erano insicure o prive di autostima, a differenza delle ragazze da lui prese in considerazione nella sua ormai remota giovinezza. («Prese in considerazione» nel senso che a lui piacevano, ma loro non lo avevano mai degnato neanche di un’occhiata). No, queste erano donne motivate e disponibili e interessanti e interessate ed eccitanti ed eccitate. Non erano di quelle che si aspettavano una telefonata entro il termine socialmente accettabile di uno o due o tre giorni dopo il primo incontro: ti mandavano direttamente le foto dei loro genitali il giorno prima. Donne di larghe vedute e disposte a tutto ed esplicite riguardo ai loro desideri e bisogni, donne che usavano espressioni tipo «mettere le mie carte in tavola» e «senza strascichi» e «dobbiamo fare in dieci minuti perché devo andare a prendere Bella a danza». Donne che ti scopano come se ti dovessero dei soldi: cosà le descriveva il nostro amico Seth.
Davvero, chi l’avrebbe mai detto che Toby Fleishman, all’età di quarantun anni, si sarebbe ritrovato con il telefonino illuminato dalla mattina alla sera (e di notte con una luce piú forte) da messaggi che contenevano perizomi e solchi tra le natiche e paia di tette – solo zona inferiore o laterale o anche intere – e parti anatomiche femminili che lui non aveva mai neanche osato sognare di vedere davvero in una persona tridimensionale in senso proprio, cioè in un luogo che non fosse la pagina di una rivista o un sito web. E tutto questo dopo una giovinezza in cui il due di picche, per lui, era stato la norma! Tutto questo dopo aver fatto la scommessa della vita puntando su una sola donna! Chi avrebbe potuto prevederlo? Chi avrebbe mai immaginato che in lui ci fosse ancora cosà tanta possibilità di vita?
Eppure, mi disse, c’era qualcosa che lo spiazzava. Rachel era andata, e la sua assenza non quadrava con quello che lui si era atteso. Intendiamoci: lui non la desiderava, non la voleva assolutamente piú. Non sperava affatto che lei si rimettesse con lui. D’altra parte, però, Toby aveva passato cosà tanto tempo a smaltire le scorie del matrimonio e a preparare i documenti necessari a divincolarsene – oltre a parlarne con i figli, a trovare un’altra casa, a informare i colleghi – da non aver mai pensato a come sarebbe stata la vita a cose fatte. Su un piano astratto, sapeva bene cos’era un divorzio, ma nel concreto non si era ancora adattato all’altra metà del letto vuota, a non avere qualcuno che gli dicesse che era in ritardo, al fatto di non appartenere a nessuno. Quanto tempo gli ci era voluto prima di poter guardare – apertamente e non con la coda dell’occhio – le foto delle donne sul suo telefonino, foto che loro stesse gli avevano mandato con entusiasmo e spontaneamente? Okay, meno di quanto aveva immaginato, ma non ci era riuscito subito. Di certo, non subito.
Finché era stato sposato, non aveva mai guardato altre donne nemmeno una volta: a tal punto era innamorato di lei (a tal punto era innamorato di qualsiasi istituzione o sistema). Si era solennemente e con diligenza impegnato nel tentativo di salvare la relazione anche quando sarebbe apparso chiaro a qualunque persona ragionevole che il loro travaglio non era soltanto una fase. C’era un che di nobile in quell’impegno, credeva lui. C’era un che di nobile nella sopportazione. E anche dopo aver capito che era finita, aveva dovuto dedicare anni, plurale, all’impresa di convincerla che non era giusto, che erano infelici, che erano ancora giovani e potevano ancora rifarsi una vita ognuno per conto proprio (e neanche allora aveva mai permesso al suo occhio di divagare, sia pure di un millimetro). Perlopiú, diceva lui, perché era troppo occupato a essere triste. Perlopiú, perché si sentiva sempre una schifezza, e una persona non dovrebbe sentirsi sempre una schifezza. Soprattutto, una persona che si sente una schifezza non dovrebbe arraparsi. La coincidenza di arrapamento e scarsa autostima sembrava la condizione ideale per il consumo di pornografia.
Ora, però, non aveva piú nessuno a cui essere fedele. Rachel non c’era. Non era nel suo letto. Non era nel suo bagno a mettersi con la precisione di un robot da artroscopia l’eye-liner nella zona in cui le palpebre incontrano le ciglia. Non era in palestra né stava tornando dalla palestra di un umore piú nero del solito (non di tanto, magari, ma un po’ sÃ). Non era in piedi nel cuore della notte a lamentarsi dell’insondabile abisso della sua insonnia infinita. Non era alla serata di presentazione organizzata dalla scuola dei figli (nel West Side, privatissima eppure per certi versi anche un po’ progressista), appollaiata su una sediolina ad ascoltare quali nuove e piú complicate prove i bambini avrebbero dovuto affrontare rispetto all’anno precedente. (Del resto, raramente ci era andata, a quelle serate: era sempre al lavoro, o a cena con qualche cliente, a «fare la mia parte», come diceva quando voleva essere gentile, o a «fare la tua gallina dalle uova d’oro», quando non lo era). Insomma, non era lÃ. Era in un’altra casa: quella che fino a poco tempo prima era stata anche la casa di Toby. Ogni mattina, svegliandosi, veniva per un attimo sopraffatto da questa consapevolezza che lo mandava nel panico, e la prima cosa che pensava appena sveglio era: «C’è qualcosa che non va. Sono a pezzi. Sono nei guai». Era stato lui a chiedere il divorzio, eppure: «C’è qualcosa che non va. Sono a pezzi. Sono nei guai». E ogni mattina scacciava il pensiero. Ricordava a sé stesso che la separazione era stata la cosa piú saggia e appropriata e rispondente all’ordine naturale. Lei non doveva piú essergli accanto. Lei doveva essere nella sua casa personale e piú bella.
Quella particolare mattina, però, Rachel non era neppure in quella casa. Lui lo scoprà quando si protese verso il comodino Ikea e prese il telefono, di cui aveva già percepito la vibrante presenza nei pochi minuti precedenti l’apertura ufficiale degli occhi. Aveva sette o otto messaggi, perlopiú di donne che lo avevano contattato nottetempo attraverso la app di incontri, ma i suoi occhi andarono dritti al messaggio di Rachel, piú o meno a metà della serie. Sembrava emanare una luce diversa da quelli che contenevano parti anatomiche e pizzi di mutande; attirò i suoi occhi come nessun altro. Alle cinque del mattino gli aveva scritto:
Io sto andando a un ritiro yoga al Kripalu per il week-end; i bambini sono da te. A titolo di cronaca.
Ebbe bisogno di rileggerlo per decifrarlo, e non appena ci fu riuscito, ignorando l’erezione che aveva lasciato maturare al pensiero di tutti quei messaggi pieni di nuovo materiale da masturbazione, saltò giú dal letto. Si lanciò in corridoio e vide i bambini nelle rispettive camere da letto, addormentati. «A titolo di cronaca» i bambini erano l� A titolo di cronaca? «A titolo di cronaca» era come un poscritto; «a titolo di cronaca» era un’aggiunta. Non era essenziale. L’informazione essenziale sembrava essere che i bambini erano stati depositati a casa sua in piena notte a un’ora non programmata, facendo uso di una chiave che lui le aveva fornito per eventuali e drammatiche emergenze.
Tornò in camera sua e le telefonò. – Che cosa ti è saltato in mente? – sibilò sottovoce. Quel sibilo sottovoce non gli riusciva ancora tanto bene, ma Toby progrediva ogni giorno di piú. – E se io fossi uscito senza accorgermi della loro presenza?
– Proprio per questo ti ho scritto, – disse lei. Rachel rispondeva ai suoi sibili sottovoce con una sbrigatività esasperata.
– Li hai portati qui dopo mezzanotte? Visto che io sono andato a dormire a mezzanotte…
– Li ho lasciati là alle quattro. Ero in lista d’attesa per il week-end. Qualcuno ha disdetto. Il programma comincia alle nove. Non mi stressare, Toby. È un periodaccio. Ho davvero bisogno di un po’ di me-time –. Come se non lo avesse già , il suo tempo, tutto, dall’inizio alla fine, completamente per sé.
– Non puoi farmi questi scherzi di merda, Rachel –. Ormai pronunciava il nome di lei solo alla fine delle frasi, Rachel.
– Perché? Questo week-end, comunque, toccava a te.
– SÃ, ma non prima di domani mattina! – Toby si portò due dita sul setto nasale. – I week-end cominciano il sabato. E questa è una regola che hai voluto tu, non io.
– Avevi impegni?
– Che accidenti significa? E se ci fosse stato un incendio, Rachel? E se avessi avuto un’emergenza per qualche mio paziente e fossi uscito di casa senza accorgermi che c’erano i bambini?
– Be’, non è successo. Mi dispiace. Avrei dovuto svegliarti per dirti che te li avevo portati? – Lui si immaginò la scena di Rachel che lo svegliava, e pensò a che catastrofe sarebbe stata ai fini della sua progressiva comprensione del fatto che lei non rientrava piú nella routine del suo risveglio.
– Non avresti dovuto portarli e basta, – disse.
– Be’, se quel che dicevi ieri sera è vero, allora avresti potuto prevederlo.
Toby frugò nel suo cervello annebbiato in cerca dell’ultima interazione, piena d’odio, e se ne ricordò con improvviso e profondo terrore: Rachel aveva farfugliato assurdità a proposito di aprire un ufficio della sua agenzia sulla West Coast, perché cosà com’era non aveva abbastanza impegni, non annaspava a sufficienza. Sinceramente, il ricordo era confuso. Lei aveva chiuso la conversazione, rammentava lui, urlando tra i singhiozzi, sicché Toby aveva capito ciò che lei aveva detto solo dopo la fine della chiamata, quando Rachel aveva riagganciato. Era quello, ormai, il modo in cui terminavano le loro conversazioni, non piú con scuse reciproche offerte per forza d’inerzia. Toby aveva sentito ripetere per tutta la vita che essere innamorati significava non dover mai chiedere scusa. Invece no: essere divorziati era la condizione in cui non si doveva mai chiedere scusa.
– Non è una cosa che ho fatto a cuor leggero, Toby, – disse lei. – So di averteli lasciati in anticipo, ma tu non devi far altro che portarli al campo estivo. Nel caso tu abbia altri impegni, chiedi a Mona di venire. Perché siamo ancora qui a parlarne?
Come poteva non capire, Rachel, che non era una faccenda di poco conto? Lui aveva un appuntamento, quella sera. Non gli andava di lasciare i bambini con Mona: questa era la soluzione tipica di Rachel, non la sua. Toby non riusciva, evidentemente, a farle capire che lui era una persona reale, che non era un cursore lampeggiante in attesa delle sue istruzioni, che lui continuava a esistere quando lei non c’era. Non vedeva il senso di tutti gli accordi che avevano preso, se poi Rachel non faceva neanche finta di rispettarli né si scusava dopo averli violati. Lui le aveva dato una chiave del suo nuovo appartamento non perché lei gli facesse scherzi del genere, bensà solo per mantenere un rapporto amichevole. Amichevole amichevole amichevole. Avete notato che la parola «amichevole» si usa sempre e soltanto in relazione al divorzio? Dipenderà forse dal fatto che si preferisce non contaminare nient’altro con quella parola, troppo spesso utilizzata in situazioni di divorzio? Un po’ come con l’aggettivo «maligno», che potremmo anche usare per cose diverse da un tumore, ma poi evitiamo?
I bambini stavano per svegliarsi, ma vabbe’, tanto, l’erezione era passata.
Solly, il figlio di nove anni, si alzò; Hannah, invece, la figlia undicenne, voleva restare a letto. – Mi spiace, ragazza, non se ne parla, – le disse Toby. – Dobbiamo essere fuori dalla porta tra venti minuti –. Si trascinarono in cucina con la vista offuscata, e Toby dovette rovistare nel bagaglio dei figli in cerca dei vestiti che dovevano mettere per andare al campo estivo. Hannah gli fece notare, ringhiosa, che aveva preso la roba sbagliata, che i leggings erano per il giorno dopo, e allora lui le porse i minuscoli pantaloncini rossi, che lei gli tolse dalle mani con l’espressione di disgusto tipica di chi non si sente tenuto ad alcuna considerazione di proporzionalità in fatto di manifestazioni emotive. Dopo di che, con narici frementi, labbra tese e, inspiegabilmente, senza disserrare i denti, gli disse che lei gli aveva chiesto di comprare i Corn Flakes, non i Corn Chex, sottintendendo: che cazzo di imbecille mi è capitato come padre?
Solly, invece, mangiò i Corn Chex di buon grado. Chiudeva gli occhi e scuoteva la testa, compiaciuto. – Hannah, – disse. – Devi provarli.
Toby non mancò di sentire gratitudine per la triste scena di solidarietà del figlio. Solly capiva. Solly sapeva. Solly era suo in un modo che non lo portava mai a domandarsi se ne fosse valsa la pena. Come il padre, anche il figlio aveva bisogno, nel profondo, che tutto andasse bene. Solly desiderava la pace, come Toby. Si assomigliavano anche fisicamente. Avevano gli stessi capelli neri, gli stessi occhi castani (certo, quelli di Solly erano appena piú grandi di quelli di Toby, ragion per cui dava sempre l’impressione di essere un po’ spaventato), lo stesso naso a virgola, la stessa figura miniaturizzata – nel senso che non erano solo bassi, bensà bassi e proporzionati. Non erano esili o minuti, e a vederli senza un termine di riferimento per l’altezza, non si capiva quanto erano bassi. Questo era un bene, perché era già abbastanza difficile essere bassi. Ma era anche un male, perché la gente che in un primo momento li vedeva senza termini di raffronto restava delusa quando poi li incontrava di persona.
Anche Hannah era sua, sÃ, solo che aveva i capelli biondi e drittissimi, gli occhi piccoli e azzurri e il naso aguzzo di Rachel: una faccia che era un atto d’accusa, proprio come quella della madre. La piccola, però, aveva quel particolare tipo di sarcasmo che le proveniva dal ramo dei Fleishman. Un tempo, perlomeno, lo aveva. L...