Ancora oggi, dopo tre anni, quando mi sveglio e penso a mia nonna, Rita, il desiderio, automatico, è vederla.
Mi dico: vado a trovare nonna. Non ricordo che sia morta.
Per salvarne la memoria l’ho privata del tempo, destinandola a un’eternità intima.
L’ho trasformata in una sempreviva sempremorta.
Ho cercato una fotografia di cinque anni fa, un autoscatto.
Io e Rita. Sono malata e non so di esserlo. Sono incinta e non so di esserlo. La osservo, la giro, la capovolgo, copro il volto di nonna poi copro il mio, guardo un occhio poi un altro, le nostre rughe che finiscono per somigliarsi e fare mappa.
Mi accorgo che nel mio viso c’è una traccia della vita che nascondo e che non vedo. Il tempo la decodifica: la vita di Pietro è già nella morbidezza delle mie labbra, nello sguardo disteso e negli occhi privi di ombre. Rita guarda verso l’obiettivo, muove la mano sinistra come a dire «Attenta a te».
Me lo diceva sempre.
Rita è il passato con cui prendere le misure. Glielo dicevo sempre. Ogni volta che la vedevo cucire, ricurva sul marmo del davanzale, seduta davanti alla finestra che dava sulla strada principale del quartiere, sulle vite degli altri.
Guardavo i fili, gli aghi, il ditale d’ottone e il suo metro rosa, ormai sbiadito, e le dicevo: «Nonna, mi fai prendere le misure col passato?» Lei non capiva e continuava a cantare una vecchia canzone di Beniamino Gigli, «Mamma son tanto felice perché ritorno da te, la mia canzone ti dice che è il piú bel giorno per me».
Era la canzone preferita di nonno, diceva, e ogni volta pensavo che fosse un omaggio che lei gli consegnava da lontano.
Indossava vestaglie a fiori smanicate sopra le gonne e le camicie, per non sciuparle, i capelli sempre corti, velocemente ingrigiti e poi bianchi.
In casa sua c’era sempre l’odore dell’ordine degli umili. Il pavimento lucidato di primo mattino, mai un granello di polvere sul tavolo del soggiorno, l’aria riempita dal calore denso della pasta frolla delle crostate, o dall’alkermes della zuppa inglese.
Divideva il calendario dei dolci sulla base dei nostri compleanni e delle nostre preferenze, per me dolci secchi, per mia zia il tiramisú, mia madre la zuppa inglese e cosí via.
L’espressione del dono per Rita era l’attenzione. In effetti, me l’ha insegnata lei, l’attenzione. Ogni amore, per lei, era singolare e ogni gesto era riflesso di quella singolarità: la macchinetta del caffè già preparata e pronta da mettere sul fuoco per la prima visita del mattino, il rumore dei ferri per lavorare la maglia, dritto rovescio, dritto rovescio, e una tuta di lana di colore pastello per ogni nuova nascita, la grazia con cui divideva la solitudine silenziosa della vecchiaia con tutti quelli che, piú soli di lei, bussavano alla porta di casa sua.
Cucinava tanto, al lato del forno c’era la Singer, la macchina da cucire, che ha smesso di battere il tempo del rammendo quando tutto è diventato piú economico dunque sostituibile e gli oggetti hanno cominciato a perdere l’incanto della storia. Era in cucina che ci riunivamo per il caffè e una fetta di dolce, le donne – tutte – della famiglia di mia madre. Rita è sopravvissuta a suo marito, alle due sorelle, alle sue amiche del quartiere, con cui divideva il casco casalingo per capelli, alle vicine di casa con cui prendeva il caffè alla pasticceria da Luigi, e alla fine è rimasta sola, con gli aghi, i fili, il ditale d’ottone, la foto di nonno sul comò della camera da letto, la gamba malata, i ricordi dei sacrifici di una vita, la sua famiglia – cioè noi – e la sua dignità.
Non voleva andarsene da lí. Come ogni anziano avrebbe voluto morire nella propria casa.
E quelle mura erano di certo cosa sua. Lo sono ancora.
Dopo la sua morte non sono riuscita a entrarci.
Nemmeno per il congedo che si deve al sentimento delle cose.
Nell’autunno di tre anni fa Rita ha cominciato a ricordare meno e ricordare peggio. Aveva scatti d’ira che si trasformavano in aggressività. Una mattina lanciò un bastone verso mia madre.
Mia madre e i suoi fratelli decisero che sola non potesse piú restare, cosí per alcuni mesi Rita ha vissuto qualche settimana con un figlio, qualche settimana con un’altra e qualche settimana con mia madre.
Essere una famiglia solida e sana – quella di mia madre lo è – spesso non è condizione sufficiente per attraversare la fatica di una mente anziana che si scompone.
La mente di Rita era diventata una mente mutilata. I pezzi erano frasi prive di inibizioni o frammenti di sguardi vuoti. Il tempo non era piú di sua competenza.
Era amata, ma ospite. Condizione inabitabile per la dignità degli umili abituati a cavarsela da soli.
Una mattina Rita e mia zia sono andate in ospedale per le analisi del sangue di routine, Rita aveva qualche problema al cuore, cosí a intervalli di qualche mese si svegliavano alle sei del mattino e andavano in ospedale. Volevano essere le prime. Quella volta però la visita stanò un cancro. Mia nonna aveva un tumore al fegato in stadio avanzato, metastasi ovunque, eppure nessun sintomo. Il cancro era arrivato e si era fatto strada velocemente dalla visita precedente, cinque mesi prima. Era uscita di casa con la tessera sanitaria, le riviste nella borsa e gli occhiali da vista. Tanto le bastava per riempire una manciata d’ore di attesa, aveva pensato.
Dall’ospedale sarebbe uscita solo per essere trasferita nell’hospice nel parco di Santa Maria della Pietà, a nord di Roma, in cui è morta tre mesi dopo.
Il luogo che un tempo è stato il piú grande ospedale psichiatrico d’Europa, trentaquattro padiglioni da cinquanta posti ognuno. Il padiglione degli epilettici, degli schizofrenici, dei dementi, quello dei criminali e quello delle agitate. A destra gli edifici per gli uomini, a sinistra quelli per le donne, divisi da una rete metallica, prima che, per effetto della legge Basaglia, l’ospedale psichiatrico fosse chiuso, definitivamente, nel 2000.
Il padiglione dove oggi c’è l’hospice è il numero 22, un tempo era destinato ai sudici.
Intorno, centocinquanta ettari di parco.
Dove prima c’erano i matti oggi c’è la coda per la Asl, i corridori del mattino presto, giovani a passeggio col cane e meno giovani a prendere il fresco la sera, di tanto in tanto sui viali si incontrano i parenti di chi muore al padiglione 22. Si riconoscono perché sono sovrappensiero. A volte piangono.
La stanza di Rita era al primo piano, in fondo al corridoio. Sul muro, a sinistra della porta, un cartellino riportava il suo nome, accanto al disegno di una margherita gialla.
Nelle dodici settimane che ha trascorso lí prima di morire, ogni medico, infermiera, portantino che ha varcato la porta della sua stanza le ha sorriso chiamandola per nome.
– Come stai oggi, Rita?
In quei novanta giorni è stata ancora una persona prima di essere un corpo malato.
– Come sei bella, Rita, stamattina.
Il nome è un patto che si rinnova ogni volta, l’unicità di ogni essere umano.
Per questo anche io, qui, la chiamo Rita.
Un hospice non è un ospedale e si capisce dall’odore: i corridoi non sanno di disinfettante ad alcol, sui davanzali ci sono mazzi di fiori e vassoi di biscotti.
Gli hospice sono strutture sanitarie residenziali per malati terminali, in Italia sono trecento, tremila posti e anche per questi, per andare a morire cercando di soffrire il meno possibile, bisogna mettersi in lista perché non ci sono letti per tutti. La medicina in luoghi come questi non cura, protegge dalla sofferenza.
Come per i malati cronici, come per me, la medicina non guarisce ma contiene.
Nel caso di Rita conteneva il dolore. Iniezioni di morfina in un corpo che urla la fatica di morire, finché il corpo non ha piú forza di urlare né voglia di sostenere la fatica, e muore.
L’hospice non è solo il luogo dell’inguaribilità, è – almeno dovrebbe essere – il luogo della consapevolezza dell’inguaribilità. Chi entra ha un’aspettativa di vita inferiore a novanta giorni e sa – almeno dovrebbe sapere – che non uscirà vivo.
Ma l’hospice è anche uno spazio insincero e, nello spaesamento di un addio lento, mi è stato chiaro che la morte è un affare di chi resta.
Chi resta non vuole guardare in faccia la fine, perché la fine è un fallimento.
E allora la paura allarga le insicurezze, come quando si distendono le lenzuola ai quattro lati, prima di piegarle. La paura è una stanza vuota, in mezzo c’è il paziente, a combattere tra la coscienza della fine e la voglia di resistere un giorno di piú al conto alla rovescia, e ai quattro lati della stanza, a tenere gli angoli del lenzuolo, i sopravviventi, che fingono una salvezza impossibile perché non sanno nominare la fine, la mistificano, la tacciono e inventano la speranza per pensarsi tra i salvati.
Intorno a Rita è stato lo stesso.
Le conversazioni intorno al letto di un degente anziano servono ai vivi, chi sopravvive al male di un altro non ama la verità spudorata della morte, cosí la trucca con frasi incoraggianti: «dài, che oggi hai un bel colore sulle guance», «il dottore ha detto che hai passato una buona nottata, dài, ancora un altro sforzo e ti riportiamo a casa», «coraggio, mamma, hai fatto trenta, fai trentuno, che devi vedere i bisnipoti in prima elementare, mangia», e lei ha mangiato finché ha avuto pietà del nostro accanimento. Poi ha smesso, troppo il dolore, troppa la fatica, troppa la consapevolezza della fine di fronte ai «rimettiti, mamma, mangia, cosí ti riportiamo a casa». Sono i vivi che vogliono essere ingannati, sono i vivi che hanno paura.
I malati, no. I malati lo sanno, che stanno morendo, anche quando fingono per non far soffrire chi resta.
I medici hanno sostituito i pasti con le flebo, una la nutriva, una, nell’altro braccio, conteneva la morfina a rilascio prolungato che le moderava il male.
Rita è stata piú generosa di noi. È stata, come sempre, onesta e degna.
Finché ha potuto ci ha fatto credere di credere che sarebbe tornata a casa.
Un giorno, era marzo, stavo per partire per la Libia, sono andata a trovarla.
Per qualche minuto sono rimasta sola nella stanza con lei. Era domenica, dalla finestra alla sinistra del corpo disteso di mia nonna si vedeva il parco. Una grande magnolia brillava dritta accanto a noi, la luce era quella della primavera ai primi accenni, che procede a piccoli passi, timida, con pudore, finché un raggio di sole si appoggia sul davanzale e la luce invade la stanza, spudorata.
Sono qui, pare dire la primavera, sono qui, nonostante tutto.
Mi sono avvicinata al letto, il volto di Rita non era piú il suo. La pelle era gialla, il viso scavato dal digiuno, la pelle appiccicata alle ossa del volto e del cranio, come la buccia di un frutto dimenticato al sole, d’estate. Il respiro era un rantolo sempre piú lento e cavernoso. E poi l’inconfondibile odore del malato, l’odore...