Il lavoro di una vita
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Il lavoro di una vita

Sul diventare madri

  1. 184 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il lavoro di una vita

Sul diventare madri

Informazioni su questo libro

Il racconto preciso come una lama di cosa significhi diventare madre.Cosa succede a una donna - occidentale, emancipata, lavoratrice - quando diventa madre? Di quell'evento destabilizzante che è la nascita di un figlio si parla sempre in termini di dissimulazione e autoinganno, con immagini di madri traboccanti di felicità e amore. Rachel Cusk, invece, raccontando la sua esperienza di maternità, dalla scoperta di essere incinta fino al primo anno di vita della figlia, si confronta con la dimensione ambivalente e conflittuale che investe ogni donna che diventa madre. Impreparata alle trasformazioni del corpo, della mente e della propria vita, descrive con impietosa sincerità e feroce ironia il passaggio da convegni e cocktail party in abito da sera alle notti insonni nel tentativo di placare i pianti della figlia: un incubo a occhi aperti che viene vissuto come un martellante atto d'accusa, e che la porta a sondare i sentimenti piú crudeli e inconfessabili che l'hanno attraversata. Tra folgoranti divagazioni letterarie e vita reale, Rachel Cusk ci consegna un saggio ricco e profondo, un viaggio ai limiti dell'amore, della solitudine, della notte.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806245573
eBook ISBN
9788858435854

Quaranta settimane

Negli spogliatoi della piscina si possono osservare i corpi delle donne. Nudi, posseggono una qualità narrativa, come dipinti rupestri; una qualità di solito occultata dagli abiti e dal contesto, e che si vede soltanto qui, nell’umidità di questo edificio comunale, dove siamo raggruppate in modo anonimo, per genere. Sebbene anch’io abbia un corpo di donna, la loro vista per un attimo risveglia in me una paura infantile, un misto di repulsione e timore per questi seni, pance e fianchi, questa carne tutt’altro che ideale, primitiva, che, dimentica del proprio fascino, pare assemblata per scopi puramente riproduttivi. I phon ronzano, gli sportelli degli armadietti si aprono e chiudono sbattendo, oli e schiuma rendono scivoloso il pavimento piastrellato. Gambe venate, muscolose vanno avanti e indietro; braccia nude districano capelli arruffati e asciugano corpi frementi per lo sforzo. Seni, pance e fianchi, personalizzati da nèi e cicatrici, da pelle rugosa o liscia, incisi da rune o uniformi come marmo appena scolpito: materiali ed eloquenti, esistono in quanto oggetti, comunicando con la forma soltanto. A volte negli spogliatoi ci sono anche bambini, e li vedo fissare quei corpi come facevo anch’io, e in parte ancora vorrei fare: con meraviglia illecita e terrore per la suggestività della fisionomia adulta, con le sue manifeste prominenze, la peluria e la patina dell’età e dell’esperienza che testimoniano taciuti misteri di piacere e dolore, di copulazione, gestazione e parto. Come il trailer di un film horror, il corpo adulto allude senza mezzi termini a ciò che va provvisoriamente mantenuto entro i limiti dell’immaginazione, finché non si raggiunge il legittimo accesso alla sua piena rivelazione.
Fin da bambina, quando cominciai a capirne le implicazioni, ho avuto timore del parto, di cui ho maturato una conoscenza senza note a piè di pagina, senza clausole che precisassero che avere figli, indipendentemente dal poterne avere, non è obbligatorio: come tutti i fatti della vita, il parto assunse una forma non negoziabile. Tutto ciò che sapevo, guardando allo specchio il mio corpo esile e longilineo, era che un giorno da quel corpo ne sarebbe uscito un altro, anche se non era chiaro come o da dove. Da quel che capivo, non sarei stata dotata, in seguito, di un qualche congegno di estrazione. Quel medesimo corpo prometteva una futura violenza, uguale in questo a una piñata messicana piena di dolciumi. C’era chi, malgrado un desiderio pressante, ostinato, conservava quelle bambole, incapace di infliggere loro la tragedia cui erano destinate. Ma la maggior parte della gente no. Alle festicciole per bambini in California, dove sono cresciuta, le colpivamo con un bastone finché non si frantumavano, liberando il loro meraviglioso contenuto. Non ci voleva un particolare acume per capire che il parto sarebbe stato assai doloroso. Sfruttai le mie prime esperienze del dolore per capirlo appieno. Credevo che la capacità di tollerare il disagio fisico fosse una qualità imprescindibile per il mio sesso, e ogni volta che mi tagliavo, mi facevo un livido, cadevo o andavo dal dentista, non solo sentivo il dolore, ma anche il terrore di averlo provato, di aver sofferto per cosí poco quando sul mio futuro pendeva la spada di Damocle di quella terribile, misteriosa agonia.
A scuola ci fecero vedere il filmato di una donna in travaglio. Era nuda, con braccia sottili, vigorose, e gambe che si divaricavano dall’enorme gobba dolente della pancia, e i capelli erano lunghi e arruffati. Non era distesa in un letto, attorniata da un alone luminoso di medici e infermiere in camice bianco. Anzi, sembrava proprio che non fosse in ospedale. Se ne stava sola in una stanzetta vuota, a parte uno sgabello al centro. Quell’oggetto mi turbava. Sembrava una difesa inadeguata contro l’assalto imminente. La telecamera proiettava una scena fioca, notturna, e l’impressione degli spettatori era di guardare voyeuristicamente qualcosa di terribile attraverso un buco nel muro, qualcosa destinato ad andare oltre la nostra comprensione e il nostro desiderio di guardare. La donna si aggirava per lo stanzino gemendo e gridando per il dolore, come una pazza o un animale in gabbia. Di tanto in tanto si appoggiava alla parete per qualche minuto, con la testa tra le mani, prima di lanciarsi con un grido verso la parete opposta. Era come se stesse lottando contro un avversario invisibile: la sua solitudine, tra il rumore e l’energia delle sue reazioni, sembrava strana. Ben presto notai che, in effetti, non era sola: un’altra donna, vestita invece di tutto punto, sedeva tranquilla in un angolo. Di tanto in tanto mormorava qualcosa, suoni che, seppur inintelligibili, erano senza dubbio d’incoraggiamento. La sua presenza conferiva un certo grado di ufficialità alla procedura, ma l’incapacità di aiutare o perlomeno compatire sembrava incomprensibilmente crudele. La donna nuda si strappava i capelli arruffati e ruggiva di dolore. D’un tratto si diresse barcollando verso il centro della stanza e si mise seduta sullo sgabello, con una gamba piegata e l’altra tesa elegantemente di lato, e le mani strette al petto come se stesse per cantare. La sua compagna andò a inginocchiarsi di fronte a lei. La telecamera, essendo fissa, non ci offriva un primo piano dello svolgersi degli eventi. Anzi, come per premonizione, l’immagine si andava facendo piú scura e sgranata. Per un attimo le due donne rimasero immobili in quel tableau vivant in penombra; poi, all’improvviso, la donna vestita si piegò in avanti, a mani tese, e afferrò il minuscolo corpo sfinito di un bebè. L’ultimo grido di dolore della donna nuda si levò al cielo come un canto di gioia.
Scrive Tolstoj della sua romantica eroina nelle ultime pagine di Guerra e pace:
Nataša si era sposata al principio della primavera del 1813, e nel 1820 aveva già tre figlie femmine e un maschietto, che aveva desiderato appassionatamente e adesso allattava. Era ingrassata e diventata piú massiccia, tanto che era difficile riconoscere in quella madre forte la Nataša di un tempo, sottile e sempre in movimento. I tratti del suo viso si erano definiti e avevano un’espressione di placida dolcezza e serenità. Nel suo viso non c’era piú quel fuoco di vitalità che un tempo ardeva incessantemente e costituiva il suo fascino. Spesso ora si vedevano solo il suo viso e il suo corpo, ma l’anima non si vedeva affatto. Si vedeva solo la femmina forte, bella e feconda1.
In gravidanza, la vita del corpo e la vita della mente non si sforzano piú di differenziarsi, e diventano fatalmente e storicamente intrecciate. In quanto seguito di giovinezza, bellezza o indipendenza, la maternità promette sin dalla prima pagina di essere un tomo piú lungo e piú difficile: la storia di come la Nataša di Tolstoj da seduttrice canterina e infiocchettata diventa un’imperscrutabile matriarca, di come le figlie diventano madri e implacabili avversarie della trama romantica. Tolstoj non scrisse quel tomo. Scrisse invece Anna Karenina, riportando alla luce la donna ancora esistente nella madre e dimostrandone il potere distruttivo, perché la maternità è una carriera nel conformismo da cui nessun sotterfugio può liberare l’anima senza violenza; e la gravidanza è il suo campo di addestramento.
Il mio arrivo in quel campo è meditato, ma non informato. Della gravidanza so solo ciò che sanno gli altri, ovvero quel che sembra vista dall’esterno. L’ho incrociata diverse volte. Mi sono chiesta che cosa accada dietro quelle mura inespugnabili. Consapevole del dolore che ogni carcerato deve sopportare come condizione per il proprio rilascio, ho immaginato che la gravidanza sia un posto dove avviene un addestramento segreto e specializzato, dove informazioni riservate vengono consegnate in buste sigillate, che spiegheranno il dolore e lo renderanno innocuo. Dico al mio medico che sono incinta, e lui si mette a calcolare date su un pezzo di carta. Siamo in luglio. Mi dà una data in marzo dell’anno seguente. Mi ci vuole un po’ per capire che è la data nella quale è prevista la nascita del bambino. Mi dice di parlare con l’ostetrica. Chiuda la porta quando esce, aggiunge.
L’ostetrica mi fornisce informazioni, ma di un tipo particolare: relative a ciò che potrebbe succedermi, senza dire tuttavia in che modo lei o qualcun altro potrebbero intervenire. Mi dice di tornare fra due mesi. Mi aspettavo che fosse prevista una figura professionale con il compito di mitigare la paura. Cosa devo fare in tutto questo tempo? Vedendo la mia espressione affranta, l’ostetrica mi consiglia un paio di libri sull’argomento. Li compro mentre torno a casa. La gravidanza dura duecentosessantasei giorni, quaranta settimane, nove mesi, o tre trimestri, a seconda di come la si vuole calcolare. I medici usano le settimane. Il resto del mondo, per il quale le gravidanze altrui trascorrono in un lampo, conta in mesi. Non so chi scelga i trimestri, forse gli insegnanti, o le donne che stanno per avere il quinto figlio. Soltanto chi soffre, gli individui incarcerati ingiustamente, le persone con il cuore spezzato, usano i giorni per misurare il tempo. Io passo nervosamente da un metodo all’altro, ma la storia di una gravidanza si racconta meglio in trimestri. Il primo è caratterizzato da nausea e stanchezza. Il secondo da una grossa pancia e una sensazione di benessere. Nel terzo trimestre possono manifestarsi gonfiori del viso, dei polsi e delle caviglie, vene varicose, emorroidi, bruciore di stomaco cronico, costipazione, goffaggine, smemoratezza, affaticamento, ansia in vista del parto e desiderio che tutto finisca al piú presto.
In nessuno di quei libri, noto, si menziona un aspetto specifico della gravidanza, ovvero che si comincia a intuire in che modo il bambino verrà fuori. Dell’evento vengono fornite numerose illustrazioni, di solito nella forma di una serie di disegni in sezione: il primo mostra il bambino nel ventre della donna, e l’ultimo il bambino fuori dal corpo della donna. Comincio a sospettare che sia un’esperienza analoga a quella di essere scelti fra i passeggeri di un jet dopo il decollo per pilotare l’aereo, atterraggio compreso. Di tanto in tanto trovo qualche fotografia, immagini di donne pietrificate, quasi fossero in punto di morte: smorfie, sudore, sguardi imploranti, occhi serrati o levati al cielo, i corpi affondati in un groviglio di lenzuola e tubicini d’ospedale, o inarcati dal dolore come fossero crocifissi, a braccia aperte. Si direbbe che in quelle fotografie venga narrata una storia femminile segreta, un racconto di sofferenza occultato da una cospirazione. Ma nemmeno la franchezza delle immagini sembra scalfire il mistero del parto. «Molte donne trovano piú sopportabile il travaglio se adottano una posizione verticale», dice una didascalia; e un’altra: «Il bambino viene alla luce in un’atmosfera quieta e senza tempo».
Mia madre è sempre stata molto onesta sulla propria esperienza. Quando sarà il momento, mi dice, prendi ogni analgesico che ti vorranno somministrare. Ho avuto consigli allarmanti anche da altre donne, donne che sentendo la parola «dolore» sghignazzano esasperate, o commentano misteriosamente che dopo non sarai piú la stessa. Indizi che non vengono mai chiariti; anzi, tutte tacciono all’improvviso, come se avessero inavvertitamente infranto un voto di silenzio. Per quanto mi riguarda, decido di comunicare pubblicamente le mie esperienze ogni volta che mi sarà possibile, dopo che le avrò vissute; ma il fatto che io non abbia mai incontrato una discepola della verità, che in tutta la mia vita non abbia mai sentito né letto un resoconto lineare di un avvenimento cosí universale, m’induce a pensare che qualcosa di ancora piú spaventoso avvolga il mistero: ovvero che, durante quelle ore di tortura, venga in qualche modo rimossa una componente fondamentale di sé, cosicché dopo il parto, sebbene il suo aspetto e i modi siano all’incirca uguali a prima, una donna è un simulacro, le è stato fatto il lavaggio del cervello, è programmata per non divulgare la verità. Ricordo il film L’invasione degli ultracorpi, dove si assiste a un’analoga presa di coscienza, quando uno dei due soli personaggi non ancora posseduti dagli alieni rivela che, in realtà, gli alieni si sono impossessati di lui. Il film si conclude con un primo piano del viso terrorizzato della sua ragazza, quando capisce di essere rimasta sola in un mondo di automi.
La donna moderna privilegiata è una creatura per la quale il proprio sesso può rimanere, indefinitamente se vuole, un tratto superficiale. Cosa intendo con il termine «femminile»? Una cosa finta; un ricettacolo di cosmesi, un mondo di boutique profumate e acquisti impacchettati, di ciglia finte, di creme francesi, di ciprie e rossetti; un mondo in cui parole come sofferenza, autocontrollo e sopportazione esistono, ma di solito in riferimento al perdere peso; un mondo che si macera in una volontaria e blanda autovessazione; un mondo ai cui margini può capitare d’incrociare la realtà: particolari tipi d’infelicità, o discriminazione, o paura, o un intero universo esistenziale passato e presente che si fa sempre piú individuale, indeterminato e inesprimibile col passare del tempo. Ciò che un tempo significava essere una donna, sempre che si possa stabilire tale significato, oggi non regge piú; eppure in un’accezione fondamentale, quella della procreazione, vale tuttora. Il destino biologico delle donne rimane saldo tra le macerie della disuguaglianza, e nell’avvicinarlo ho la sensazione di deviare dal corretto sentiero della mia vita, di procedere, ma senza sapere quanto; come se fossi salita su un treno e dal finestrino vedessi la strada dov’ero sempre stata, una strada che il treno per un tratto costeggia prima di prendere velocità e allontanarsi inesorabilmente verso est o ovest, verso un panorama di colline sconosciute, lasciando che dietro tutto svanisca.
Vado a fare trekking sui Pirenei. L’unico indizio, per ora, del mio diverso stato è che per tutta la settimana sono inseguita da uno sciame di minuscoli insetti che mi ronzano intorno come fan, o guardie del corpo. Verso la fine della settimana, abbandono il sentiero per raggiungere un lago ghiacciato ad alta quota. Impossibile riconnettermi al mio itinerario senza discendere fino ai piedi dei monti, cosí decido di avanzare in mezzo alla neve nella giusta direzione, sperando di ritrovare la strada sull’altro versante del passo. Cammino sulle rive del lago, una straordinaria voluta artica intorno alla quale la terra s’innalza scoscesa come gli spalti di un anfiteatro. Questi spalti, coperti di neve e ghiaccio, sono terribilmente sdrucciolevoli, e dopo aver strisciato in qualche modo intorno al lago, mi è chiaro che corro il rischio di scivolare e sprofondare nell’acqua ghiacciata sotto il peso dello zaino. Torno indietro a fatica e cerco di raggiungere l’altra sponda, dove la traccia di un sentiero prosegue a zigzag e poi s’inerpica fino al passo. In cima, nel vuoto angusto del passo, scopro un’edicola con la statua della Vergine Maria. Colta da un impulso superstizioso, mi metto a pregare. Davanti a me si stende quella che sembra la Francia intera, chilometri piú a valle. Ai miei piedi, la montagna scende a picco in uno stretto canalone innevato, che a quanto pare dovrò percorrere. La neve è alta e soffice, come una nuvola, e il fondo del canalone è lontano quanto la terra vista dal cielo. Una sorta di follia si impadronisce di me. Come una bambina che crede di poter volare, smarrisco il senso della realtà del mio corpo e i suoi limiti. Il paesaggio splendido e terribile tutt’a un tratto appare minuscolo e magico, come un mondo di bambole che penso di poter attraversare a passi da gigante. Per giorni mi sono aggrappata a queste montagne, arrancando e trascinandomi, e ora, deliziata, come se avessi raggiunto il paradiso, balzo nella neve con un grido entusiasta. La neve, ovviamente, non è neve. È ghiaccio. Capisco troppo tardi ciò che ho fatto, mentre il cielo e la montagna sfrecciano alle mie spalle sfocati dalla velocità. Il pendio è molto scosceso e io precipito veloce, sulla schiena, cercando freneticamente di puntare i piedi o i gomiti nella dura e ruvida superficie ghiacciata, ma il mio zaino si trasforma in una sorta di slitta, facendomi accelerare. Davanti a me, come un’infinita pista di sci, la montagna si tuffa a precipizio e solo molto piú in basso si appiattisce prima d’incontrare una parete rocciosa. La mia pelle brucia, mentre scivolo sul ghiaccio. Come una pietra, comincio a rotolare e rimbalzare, facendo la ruota nell’aria. Mi rendo conto di essere del tutto impreparata al dolore, pur sapendo che tra poco probabilmente mi romperò l’osso del collo. Da quanto riesco a vedere, non c’è nulla che possa arrestare la mia interminabile caduta, e sebbene cerchi di cavare qualcosa da me stessa, una qualche comprensione, una qualche capacità di prepararmi, una qualche atavica conoscenza o l’accettazione che il mio corpo tra poco morirà, rimango la stessa di sempre; stordita dal terrore e dall’incredulità, ovviamente, ma comunque la stessa. È questo fatto inatteso ciò che piú mi spaventa. Sbatto contro un grosso macigno, e mentre il mio corpo lo sorvola, cerco freneticamente un appiglio. Le mie unghie si strappano come carta velina, ma mi àncoro alla roccia con le mani e le braccia, stringendola in un abbraccio mortale. Di colpo, mi fermo. Intorno al macigno c’è un ammasso di ghiaia, su cui mi puntello. Le mie braccia sono intorpidite e sanguinano. La mia isoletta rocciosa è a circa metà del canalone. Mi siedo e piango, mentre la sera comincia a calare sui colori smaltati dell’immensa montagna. Si direbbe che io abbia abdicato a ogni passata pretesa di coraggio, buonsenso o umanità. Ho rinunciato a rivendicare una personalità, alle sue ingannevoli offerte di protezione, ai suoi inesistenti benefici. Non posso aiutare né proteggere nessuno, posso solo starmene qui e piangere la misera cosa che sono, una cosa che a quanto pare ho scoperto solo nell’imminenza della sua distruzione.
La questione di come farò a scendere il resto del canalone prima che scenda la notte rimane irrisolta. Ma ecco che qualcuno, dapprima minuscolo come una formica, poi via via piú grande, avanza lentamente dal basso. Un uomo sta risalendo la superficie ghiacciata del canalone, con corde e ramponi. Non è venuto, come una madre, a prendermi per portarmi a casa. Come un diverso tipo di madre, ha intenzione di spiegarmi come scendere correttamente una superficie gelata, da sola. Devi sempre tenere gli occhi verso la montagna, dice. Scavi dei buchi per i piedi e le mani. Colma di autocommiserazione, mi fa rabbia che non voglia portarmi giú lui stesso. Mi ero immaginata una lettiga, forse un elicottero. Sono ferita e spaventata da quel baratro, e soprattutto non so se avrò il coraggio di muovermi. Spero che lui se ne renda conto, ma non siamo in un luogo di emozioni. E io ho solo emozioni. Dopo avermi fornito le necessarie istruzioni, l’uomo riprende la sua arrampicata nel crepuscolo. Mi tolgo lo zaino e lo spingo giú per il canalone, per facilitarmi le cose. Rimbalza, precipita e sparisce come un ciottolo. So di non avere altra scelta che tornare sul ghiaccio, e quindi ci vado, e scendo lentamente, memore della caduta di poco prima. A quanto pare, ciò che sento non è di ostacolo a quanto riesco a fare. Avendo sempre vissuto in un mondo di sentimenti, nella vita non ho mai sperimentato una competizione cosí diretta fra azioni ed emozioni. Di tanto in tanto, mentre scendo, penso che preferirei essere cosí, pratica e coraggiosa. Ma quella notte, nella tenda, ripenso con terrore a ciò che mi è successo. Mi chiedo se esista una qualche risposta superiore a ciò che è accaduto. Mi chiedo se conti di piú la mia sopravvivenza o il mio terrore. Ancora non ho riflettuto molto sulla maternità, ma sospetto che implichi una combinazione altrettanto inquietante di fatti e sentimenti.
Tornata a casa, mi metto a letto e ci rimango per due settimane. A quanto pare soffro di vertigini. La forza di gravità, il vorticoso girare della terra, la mia paura della verticalità, mi tengono inchiodata a letto. Una nausea premonitrice mi torce le budella. Sotto le coperte, il mio corpo cresce caldo e morbido, i miei piedi callosi, la mia pelle ispessita dal freddo e dalle scalate sembrano cedere, fondersi e dilatarsi con il passare dei giorni. Quando mi alzo dal letto sono diventata un bozzolo.
Muova i fianchi su e giú, mi ordina l’ecografista, cosí vediamo se lo convinciamo a muoversi. Sullo schermo del computer accanto al lettino, un minuscolo crostaceo monocromo giace al centro di una tempesta di scariche elettriche. Obbediente, risentita, muovo i fianchi. Forza, la dottoressa rimprovera la creatura, facci vedere che ti muovi! Preme con piú forza lo scanner sulla mia pancia. La creatura agita le braccia esili, come se fosse stanca. Sento che dovrei proteggerla da supplizi di questo tipo, ma non dico nulla. Mi viene ordinato di muovere i fianchi ancora per qualche minuto, e mi domando se sia una prassi medica, ma evidentemente la visione della creatura che si muove ha come unico scopo il mio intrattenimento. Mi torna alla mente un western in cui un cowboy costringe un indiano a ballare sparandogli a pochi centimetri dai piedi. Mi viene chiesto se mi piacerebbe avere una fotografia, e ricevo un foglio di carta lucida su cui è stampata l’immagine sgranata che ho visto sullo schermo.
Mentre torno a casa la guardo. La creatura è ripresa di fianco, una sagoma indistinta adagiata fra le ombre, la testa è una bolla di materia cerebrale attaccata alla pallida tastiera della spina dorsale. In ospedale mi è stato consegnato anche un fascio di opuscoli sulla dieta, l’agopuntura, lo yoga, i corsi di preparazione al parto, sulla genitorialità, sul parto con ipnosi e il parto in acqua, nessuna informazione che io già non sappia, dal momento che la gravidanza moderna è governata da un regime spaventoso quanto a omogeneità di propaganda, iconografia e linguaggio. Nessuna squadra nordcoreana di ragazze pon pon è mai stata governata con un pugno di ferro paragonabile a quello con cui si trattano le donne incinte nel mondo anglofono. Non vedo l’ora di recepire qualche messaggio di ribellione, qualche messaggio cifrato di resistenza. Il mio sesso è ora una trappola angusta, piazzata da tempo e arredata con cura, nella quale sono inavvertitamente incappata e dalla quale non posso fuggire. Sono stata etichettata, come con un microchip, dalla gravidanza. I miei movimenti di donna vengono costantemente monitorati.
Il decalogo della gravidanza è doviziosamente illustrato in un volume che s’intitola Il diario di Emma. Ha una copia di Emma? mi chiedono all’ospedale, ed è chiaro che non si riferiscono a Jane Austen. Ne prenda un’altra, non si sa mai. Apprendo che Emma è un personaggio di fantasia creato dal servizio sanitario nazionale, e che tiene un diario settimanale della sua gravidanza. Ha un marito, Peter, e una passione per i punti esclamativi. Ha capelli castani ben pettinati, occhi azzurri e indossa vestiti ben stirati in sfumature pastello. Ha due amiche, incinte anche loro. La prima è una ragazza nubile che ama divertirsi, con un fidanzato che va e viene. La seconda è una donna di colore piú avanti negli anni, con un marito all’antica e due figlie. L’amicizia di Emma con queste due signore, che Peter cavallerescamente le consente di coltivare, consiste nell’annotare le difficoltà che esse incontrano in vite che sono parecchio piú comp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione alla seconda edizione
  4. Il lavoro di una vita
  5. Introduzione
  6. Quaranta settimane
  7. La bambina di Lily Bart
  8. Coliche e altre storie
  9. L’amore e l’abbandono
  10. Madrebebè
  11. Orso grosso
  12. Una cucina d’inferno
  13. Aiuto
  14. Strilla, strilla per benino
  15. Addio al sonno
  16. Respiro
  17. Cuore di mamma
  18. Ringraziamenti.
  19. Il libro
  20. L’autrice
  21. Della stessa autrice
  22. Copyright