– L’inferno è vuoto, Armand, – dichiarò Stephen Horowitz.
– L’hai già detto. E i diavoli sono qui? – chiese Armand Gamache.
– Be’, forse non proprio qui, – Stephen abbracciò i dintorni con un gesto ampio, – però sÃ.
«Proprio qui» era il giardino del Musée Rodin, a Parigi, dove Armand e il suo padrino si stavano godendo una meritata pausa. Oltre le mura si sentivano il traffico, la fretta e l’animazione della grande città .
Però lÃ, proprio lÃ, c’era pace. La profonda pace che derivava non solo dal silenzio ma dall’intimità . Dalla consapevolezza di trovarsi al sicuro. In un giardino. In compagnia l’uno dell’altro.
Armand allungò al suo amico una tartelette au citron e si guardò pigramente intorno. Era un tiepido e soave pomeriggio di fine settembre. Le ombre si distanziavano gradualmente dagli alberi, dalle statue, dalle persone. Si stiracchiavano. Battevano in ritirata.
La luce era in vantaggio.
I bambini correvano liberi, ridevano e s’inseguivano sul lungo prato davanti all’edificio. Giovani genitori li tenevano d’occhio dalle panchine di legno con le assi ingrigite dal tempo. Lo stesso sarebbe accaduto a loro, piú o meno. Ma quel pomeriggio erano rilassati, grati per i loro bambini e per la parentesi di sollievo che quel posto sicuro regalava.
Era dura immaginare uno scenario meno adatto ai diavoli.
Eppure, pensò Armand, l’oscurità piú nera non era forse il risvolto della luce? Ai cattivi non sarebbe parso vero di calpestare senza pietà un giardino cosà bello.
Non sarebbe stata la prima volta.
– Ti ricordi… – esordà Stephen. Armand si girò verso il vecchio seduto accanto a lui. Sapeva dove sarebbe andato a parare. – Quando hai deciso di chiedere a Reine-Marie di sposarti? – picchiettò sulla panchina dove stavano seduti. – Qui davanti al museo.
Armand seguà il gesto con gli occhi e sorrise.
Era un aneddoto che conosceva bene. Stephen lo raccontava appena poteva, specie quando insieme al suo figlioccio tornava a rendere omaggio a quel posto.
Il loro preferito in tutta Parigi.
Il giardino del Musée Rodin.
Molti anni prima, il giovane Armand aveva pensato che non esistesse luogo migliore al mondo dove chiedere a Reine-Marie di sposarlo. Aveva l’anello. Si era preparato il discorso. Per quel viaggio aveva messo da parte sei mensilità del suo magro stipendio da agente semplice della Sûreté du Québec.
Voleva portare la donna che piú amava al mondo nel luogo che piú amava al mondo per chiederle di trascorrere il resto della vita con lui.
Non aveva soldi a sufficienza per pagare l’albergo e avrebbero dovuto accontentarsi di un ostello, ma sapeva che a Reine-Marie non sarebbe importato.
Erano innamorati ed erano a Parigi. Presto si sarebbero fidanzati con tutti i crismi.
Alla fine, però, come spesso accadeva, gli era corso in aiuto Stephen, prestando alla giovane coppia il suo appartamento nel settimo arrondissement.
Non era la prima volta che Armand soggiornava lÃ.
In quel sontuoso palazzo haussmanniano, le immense finestre che affacciavano sull’Hôtel Lutetia, ci era praticamente cresciuto. C’erano camini di marmo, un lustro parquet a spina di pesce e soffitti altissimi che riempivano le stanze di luce e aria.
Pieno di nicchie e anfratti, quel posto era il paradiso dei bambini curiosi. L’armadio con i cassetti finti offriva un nascondiglio adatto a uno della sua taglia, e in assenza di Stephen c’erano parecchi tesori con cui giocare.
Mobili perfetti per saltarci sopra.
Fino a sfasciarli.
Stephen era un collezionista d’arte, e ogni giorno sceglieva un quadro e illustrava al suo figlioccio l’artista e il suo lavoro. Cézanne. Riopelle e Lemieux. Kenojuak Ashevak.
Con una sola eccezione.
Un piccolo acquerello appeso ad altezza occhi di un novenne. Stephen non ne parlava mai, forse perché, come aveva dichiarato una volta, non c’era molto da dire. A differenza degli altri non era un capolavoro, però aveva qualcosa di speciale.
Dopo una giornata a zonzo per la metropoli, la sera tornavano a casa esausti, e mentre Stephen preparava un chocolat chaud nella minuscola cucina il giovane Armand girellava per casa.
Immancabilmente, l’uomo lo trovava impalato di fronte all’acquerello, intento a scrutare come da una finestra il placido villaggio racchiuso nella cornice.
– Quello è una crosta, – diceva Stephen.
Crosta o no, era il quadro preferito di Armand. A ogni visita ci si ritrovava calamitato. Capiva d’istinto che un luogo in grado di offrire tanta pace aveva un valore impagabile, e sospettava che il suo padrino fosse dello stesso avviso, altrimenti non l’avrebbe appeso insieme a tanti capolavori.
Armand era venuto a Parigi per la prima volta a nove anni, pochi mesi dopo aver perso entrambi i genitori in un incidente stradale. Lui e Stephen avevano camminato a lungo per la città senza parlare.
Dopo qualche giorno, Armand aveva alzato il capo e cominciato a notare ciò che lo circondava. Gli ampi boulevards, i ponti. Notre-Dame, la Tour Eiffel, la Senna. Le brasserie con i parigini seduti a piccoli tavoli di marmo a bere caffè, birra o vino.
Quando dovevano attraversare la strada, Stephen gli afferrava la mano e la teneva stretta finché non si trovavano dall’altra parte.
A poco a poco, il giovane Armand aveva capito che con quell’uomo era al sicuro, e lo sarebbe sempre stato. Aveva capito che poteva arrivare sano e salvo dall’altra parte.
A poco a poco, aveva ricominciato a vivere.
LÃ a Parigi.
Poi un mattino il suo padrino gli aveva detto: – Oggi, garçon, andiamo nel mio posto preferito di tutta la città . Poi ci prendiamo un gelato all’Hôtel Lutetia.
Cosà avevano risalito boulevard Raspail e svoltato a sinistra su rue de Varenne. Avevano superato negozi e pasticcerie, e Armand rallentava davanti alle vetrine per guardare i millefoglie, le madeleines e i pains aux raisins.
Si erano fermati in un posto e Stephen aveva comprato due tartelettes au citron, passando ad Armand il sacchetto di carta.
E poi eccoli arrivati. Un varco in un muro di cinta.
Avevano pagato i biglietti ed erano entrati.
Armand, il pensiero fisso ai dolci nel cartoccio, registrava a stento quanto lo circondava. Quella visita aveva tutta l’aria della corvée prima della dovuta ricompensa.
Ogni due passi apriva il sacchetto e ci sbirciava dentro.
Stephen gli aveva posato una mano sul braccio. – Devi avere pazienza. La pazienza comporta una scelta, e le scelte comportano potere.
Quelle parole non significavano nulla per il ragazzino famelico: intuiva solo che non poteva ancora sbafare la sua pasta.
Controvoglia, Armand aveva chiuso il sacchetto e si era guardato intorno.
– Allora? Che te ne pare? – gli aveva chiesto Stephen.
In quel momento dava l’impressione di leggere nei pensieri del figlioccio, e a dirla tutta non era un’impresa difficile.
Come poteva esistere un posto del genere nel cuore della città ? Appartato, quasi nascosto dietro le alte mura. Era un mondo a parte. Un giardino magico.
Se fosse stato solo, Armand l’avrebbe oltrepassato senza notarlo, tutto preso dalle paste nel sacchetto. Si sarebbe clamorosamente perso quel bellissimo castello con i finestroni smisurati e la terrazza circolare.
Con tutto il suo stupore infantile, Armand non s’incantava piú davanti ai magnifici palazzi di Parigi. La città ne era piena. A meravigliarlo, là dentro, era il giardino.
I prati curatissimi, gli alberi a forma di cono. Le fontane.
A differenza degli enormi giardini del Lussemburgo, progettati apposta per lasciare a bocca aperta, quel posto era quasi intimo.
Poi c’erano le statue, piantate qua e là nel verde, come se da decenni aspettassero diligentemente il loro passaggio.
Ogni tanto filtrava dal mondo fuori l’ululato di una sirena. Lo strombazzare di un clacson. Uno strillo.
Ma quei rumori per Armand non facevano che amplificare l’estrema pace incontrata nel giardino. Una pace che non aveva piú provato dal giorno in cui, dopo una serie di colpi discreti alla porta, la sua vita era cambiata per sempre.
Avevano fatto un giro lento e svagato: per la prima volta Stephen non lo guidava ma camminava un passo indietro, mentre Armand si fermava davanti ai capolavori di Rodin.
Il suo sguardo, però, scivolava di continuo verso il gruppo di statue riunite all’ingresso e all’uscita del giardino.
Alla fine era tornato a osservarle.
– Sono i Borghesi di Calais, – gli aveva spiegato Stephen a voce bassa. – Devi sapere che durante la Guerra dei cent’anni Edoardo III d’Inghilterra assediò il porto francese di Calais.
Guardò il piccolo Armand per capire se stava ascoltando: era come ipnotizzato davanti alle statue.
– La città andò in crisi. Non c’era niente da mangiare, le provviste non riuscivano a oltre...