Arcadipane, scansati il tesserino e una moneta da venti centesimi, riconosce sotto le dita l’ultimo dei sucai comprati da Elsa il giorno prima. Con cura lo estrae, elimina la lanuggine del fondo tasca, lo mette in bocca e aspetta l’istante in cui i granelli di zucchero della superficie saranno ricordo e la liquirizia all’olio d’arancio realtà . Roba di tre secondi, quindi scende, chiude con la chiave la sua Alfa 33 e si avvia tagliando il cortile verso la porta a vetri installata il mese scorso per volere delle alte sfere.
Sul pianerottolo di cemento una linea adesiva indica il punto in cui la fotocellula capta e schiude. Arcadipane si ferma e attende. Niente.
– Ma porca…
Fa un passo avanti. Niente. Uno indietro. Niente: il marchingegno continua a scrutarlo dall’alto con l’occhietto rosso, indifferente al suo metro e sessantotto per ottantanove chili. Controlla l’ora al polso, le quattro e tre minuti, mentre l’ultima lama di sole entra nel cortile trafiggendo quei due metri di anticamera.
– Ma di quella…
Accosta il viso al vetro, cancellando il riflesso della propria faccia sudata, le guance mal rasate, i capelli pochi e sbrindellati, gli occhi scomparsi nell’incavo neandertaliano delle orbite. Fratamico sta nella guardiola d’accoglienza come un Bambin Gesú nella cotonina, il capo chino sul computer, di sicuro impelagato nei suoi traffici di acquari, riscaldatori e tartarughe d’acqua.
– ’Sto capa di minc…
Arcadipane dà un’occhiata panoramica alle finestre che affacciano sul cortile. Nessuno. Pare. Ma quanti ne ha visti nelle ultime settimane tarantolarsi sotto quella fotocellula tra gli sghignazzi dei colleghi dietro le tapparelle? C’è pure un video che qualcuno ha messo sul tube. Figurarsi se il giullare è quel minchione che ti dice vai lÃ, vai là , prepara il rapporto e come hai fatto a non pensarci… Una manna.
Toglie di tasca il cellulare e lo alza sotto la fotocellula fingendo di cercare campo. Niente.
– Ma santo…
Adesso, si dice Arcadipane, sparo a questa fotominchiula, salgo in ufficio e firmo che al suo posto ci piazzino una serranda da bar, un soffietto da cesso, un basculante, una… La porta si apre.
Nell’atrio lo accoglie il calore malsano degli edifici pubblici in mezza stagione: qualche termosifone ancora acceso e non si sa perché, detersivi dozzinali, aria muffita, arabica di macchinetta e sottoscarpe.
– Non si apriva? – fa Fratamico, il dito ancora sul tasto rosso dell’apertura.
– Che dici? Ci sto tutte le mattine dieci minuti davanti alla porta a decidere se entro o no! Non dovevano venire quelli che l’hanno piazzata?
– Venuti e andati, – dice Fratamico. – Secondo loro funziona al millimetro. Bisogna solo stare nel punto giusto.
– Tipo già dentro?
Fratamico lo guarda nell’attesa di capire.
– Senti, – lo solleva dall’incombenza Arcadipane, – lasciala aperta. Ci sono trenta gradi qua.
– Certo, commissario. Sempre aperta.
Arcadipane imbocca le scale, ascensore rotto, percorre il corridoio rispondendo con minimi movimenti facciali ai saluti, cinquantadue metri lineari di rassicurante ipocrisia, quindi raggiunge il suo ufficio ed entra lasciando la porta aperta. Segnale. Infatti dopo pochi secondi arriva Pedrelli, si chiude la porta alle spalle e non si siede, perché non si siede mai.
– Il ragazzo è di sotto, commissario. L’abbiamo prelevato stamattina presto come ha detto.
Arcadipane guarda l’uomo che da vent’anni è il suo sottoposto: sempre in camicia, sempre con la riga, sempre piemontese, sempre puntuale, sempre non in mutua, sempre per bene, sempre d’altri tempi, sempre una rottura di coglioni, sempre senza di lui come farebbe.
– Come l’ha presa? – chiede.
– È venuto senza fare questioni. In casa c’era solo la madre. Piangeva, ma nemmeno tanto. Credo pensi a una delle solite faccende di spaccio.
Arcadipane prende il fascicolo nella cartellina verde che riposa da ieri sera tardi sulla scrivania. Sopra c’è scritto METROPOLITANA a lettere stampatelle, come scrivono quelli che non sono a loro agio quando scrivono. Cioè lui.
– Prima vediamo un’altra volta il filmato, – dice, alzandosi.
Ripercorrono senza piú cenni di saluto il corridoio sventrato sei anni prima per rendere gli uffici all’americana: divisi uno dall’altro solo da un vetro. Arcadipane con la sua andatura basculante da macchina da lavoro, Pedrelli sottile e leggero come un paggio. Alla loro sinistra le scrivanie dei colleghi, due o tre per loculo: gli altri fuori perché il mestiere della polizia si fa per metà per lo stipendio e per metà all’aperto.
La sala video è nell’ammezzato. Il regno di Franco. Non serve annunciarsi. È sempre lÃ. Quando non lavora sul materiale che gli passano le questure, monta video di matrimoni, cresime, gare di rally e partite di calcio. Arrotonda e nessuno ha da ridire perché quando deve fare il suo è bravo, puntuale e disponibile. Un po’ di elettricità e l’usura delle macchine non manderanno in rovina lo Stato.
Lo trovano al terminale. I capelli rossicci e l’aria del ragazzino, anche se ha trentasei anni, due figli, una laurea in Informatica e abbastanza cervello da non voler fare carriera.
Arcadipane siede sulla poltroncina girevole.
– Me lo fai rivedere?
Franco clicca e il filmato che teneva pronto sullo schermo si avvia. In alto corre un timer con data e ora. L’ora indica le 22.16, i secondi scorrono veloci come fanno i secondi. Una figura compare in cima alla scala mobile. Franco la ferma al centro dello schermo.
– Qui è quando entra a Lingotto.
Arcadipane avvicina il volto. Franco ingrandisce.
– Piú grande sgrana, – dice, – cosà è il compromesso migliore.
Arcadipane spinge il collo avanti, poi indietro, cercando la distanza per mettere a fuoco. Il tizio indossa una casacca legata in vita da una cintura e un paio di bermuda da mare con molti fiori. Ai piedi anfibi militari. E si sta calando sulla faccia una maschera.
– Della maschera siete sicuri?
Franco sposta le dita su una tastiera piú piccola. Un altro schermo, finora buio, si accende. C’è una maschera in primo piano, bianca, occhi, naso e bocca scuri, i lineamenti deformati in una smorfia. Le immagini hanno una definizione molto buona.
– Questo è l’horror dove l’hanno usata la prima volta, poi è stata ripresa in una serie di film demenziali. La trovi in rete, nei supermercati, anche nelle cartolerie. Direi che piú o meno la conoscono tutti.
Arcadipane lascia andare la schiena, gira un po’ a destra e a sinistra, molleggiando sul perno.
– Ok, fammi vedere quando esce.
Franco lavora sulla tastiera fino a che all’immagine di prima della metropolitana se ne sostituisce un’altra: lo stesso tizio, la maschera indosso, si sta facendo trasportare verso l’alto dalle scale mobili. Franco lo blocca. Indica il timer.
– Principi d’Acaja, sono undici fermate. Le dieci e trentotto. Calcolando attesa e viaggio ci siamo, – ingrandisce l’immagine, – e questo è il kimono. Il nome della palestra si vede bene.
Arcadipane accosta le mani alla bocca, quasi volesse soffiarci dentro. Fissa la scritta scura sullo sfondo chiaro del tessuto.
– Il proprietario della palestra?
– Un tipo serio, – dice Pedrelli, rimasto alle sue spalle, – maestro vecchia maniera, nell’ambiente lo conoscono tutti. Dice che il ragazzo frequenta da due anni. Sa dei precedenti, ma in palestra si comporta bene. Ha vinto anche delle gare. Nessun problema con i compagni.
– Fumo? Erba?
– Spaccia davanti al suo vecchio istituto e forse nella discoteca dove lavora, ma in palestra sembra di no.
Arcadipane si alza, sfiora la spalla di Franco, che è il suo modo di ringraziare, ed esce.
Fanno le scale, un pianerottolo, altre scale verso il basso. Tutto in silenzio perché un pugile avanti negli anni e il suo secondo non hanno bisogno di dirsi granché dallo spogliatoio al ring. Arcadipane fa un cenno di saluto alla guardia ed entra per primo. Pedrelli dietro.
Il ragazzo siede al tavolo al centro della camera che sembra quadrata, ma alla larghezza mancano sedici centimetri. Ha diciannove anni, i capelli rasati sui lati e un po’ di cresta al centro. La solita faccia da culo delle case popolari.
Arcadipane si avvicina alla scrivania e ci posa sopra la cartellina.
Il ragazzo non sembra grosso, ma ha un giubbotto largo. Arcadipane gli guarda i polsi e vede che sono tosti, meccanica efficiente, roba che non si rompe. Il collo è sottile, ma nervoso. Se lo immagina fuori dalla discoteca dove lavora, un posto di merda per tamarri, il bomber nero, gli anfibi, l’espressione da duro e l’auricolare. I buttafuori piú vecchi che un po’ lo sfottono e un po’ lo tengono a bada. Comunque problemi pare non ce ne sono stati. O almeno nessuna denuncia. Ma da un posto del genere denunce non ne arrivano mai. Ci si regola in altra maniera.
Arcadipane scosta la sedia e si accomoda. Apre il fascicolo e lo sfoglia con molta calma.
– Sono cinque ore che aspetto! – fa quello.
Arcadipane non ha bisogno di guardarlo, lo sa già a memoria: sopracciglia curate, sguardo incazzato, nessun orecchino. Probabilmente anche niente tatuaggi. Forse un po’ fascio. O comunque pende da quella parte.
– C’era traffico, – si limita a dire, mentre porta un foglio vicino alla faccia come non ci vedesse bene.
– Luca Apostolo. Che cognome è Apostol...