Come capita spesso quando una città è molto antica, e i nomi dei suoi abitanti sono gli stessi da secoli, le dicerie trasportate dal vento fra le montagne di Nablus nel corso degli anni si erano trasformate in leggende. Storie di matrimoni, di rivalità , di maledizioni e di sortilegi lanciati dai samaritani. E del galletto condannato a morte per aver cantato sul terreno del sindaco, e dello hakawati marocchino che rubava solo gioielli d’oro, e del principe beduino che dormiva a cavallo e sparava le sue cartucce al cielo.
Una di queste storie riguardava una regina di Gerusalemme di nome Melisenda, discendente di crociati francesi, che aveva ereditato dalla madre armena occhi neri e una passione per le cavalcate sotto il sole. La madre non aveva dato alla luce eredi maschi, cosà il re suo padre, sul letto di morte, aveva diviso il regno fra Melisenda e il figlio di lei, Baldovino. Raggiunta la maggiore età , quest’ultimo aveva reclamato il regno tutto per sé, e a tal scopo aveva radunato un esercito per assediare la madre e costringerla all’esilio. Bandita dalla Città Santa, Melisenda aveva passato il resto della vita in un palazzo nel centro di Nablus. Ogni giorno le guardie della prigione le permettevano di uscire per andare a cavallo, e Melisenda si spingeva oltre il monte Gerizim, fin dove la valle si apriva nella pianura color maggese.
Otto secoli dopo, nell’anno 1915 del calendario gregoriano e 1333 di quello hijri, le fondamenta del palazzo crociato di Melisenda erano ancora visibili vicino alla moschea nel quartiere di Yasmineh, e la campagna in cui andava a cavalcare era diventata parte del villaggio di Zawata. Su quello stesso pezzo di terra viveva un uomo chiamato Haj Hassan Hammad, che in un caldo pomeriggio d’agosto si era appena sdraiato all’ombra di un ulivo, quando sua moglie era corsa verso di lui attraverso il prato. Era arrivato un messo turco con un mandato di comparizione al tribunale di Jamal Basha ad Aley, una città a una ventina di chilometri da Beirut.
Nella primavera di quell’anno i turchi avevano cominciato a deportare gli armeni. Prima avevano arrestato in massa gli intellettuali di Costantinopoli – Krikor Zohrab, il poeta Daniel Varoujan, Rupen Zartarian, Ardashes Harutiunian, Atom Yarjanian «Siamanto», il romanziere Yervant Srmakeshkhanlian – per un totale di piú di duemila uomini portati nei centri di detenzione ottomani, spesso torturati, quasi tutti uccisi. Poi i turchi avevano costretto tutti gli altri civili armeni a marciare nel deserto senza scorte di viveri. L’Impero stava morendo, e nella sua agonia uccideva con paranoica ferocia tutti i dissidenti. Ormai bastava la razza a farti accusare di tradimento. Le donne venivano violentate prima di essere strangolate, e l’Eufrate era zeppo di cadaveri. Messo sotto pressione dalla Grande guerra, l’Impero, che pure aveva avviato da poco riforme in senso democratico, attaccava senza pietà chiunque non fosse, e non volesse essere, turco.
Il messo disse a Haj Hassan che il suo amico e collega Fuad Murad era stato citato in giudizio con lui ed era già partito da Nablus per Aley. Hassan gli assicurò che si sarebbe messo in viaggio immediatamente e lo congedò. Richiuse la porta e trovò sua moglie Nazeeha, che aveva ascoltato la conversazione, in lacrime. Pensò che suo zio Haj Tawfiq Hammad, rappresentante di Nablus al parlamento ottomano, avrebbe potuto intercedere per lui. Gli scrisse un messaggio e lo fece recapitare dal suo servitore all’ufficio del telegrafo di Nablus. Avrebbe passato la notte alla fattoria aspettando la risposta di Tawfiq, e recuperato il giorno dopo le ore perdute.
Quella sera, dopo la cena a base di agnello e lenticchie, tutti i membri della famiglia si dileguarono, chi per andare a dormire, chi per pregare, tranne Hassan, che ne approfittò per uscire in giardino. Nazeeha avrebbe voluto rimanere con lui, ma Hassan la mandò via. Dal bordo della piscina, guardò la luce delle stelle che luccicava sull’acqua, e ascoltò l’impianto di irrigazione bagnare i pompelmi nel terreno sottostante.
Tornato nel suo studio, preparò una valigetta per il viaggio: due camicie pulite e un paio dei suoi migliori pantaloni francesi; il Corano; una saponetta. Mentre stava allacciando le cinghie entrò la domestica con un ospite. Era il suo amico Haj Taher Kamal, il mercante.
– Jamal Basha è nervoso e assetato di sangue, – disse subito Haj Taher. – Non devi andare, sarebbe morte certa. Al-Lamarkaziya, al-Ahd, tutti i gruppi indipendentisti sono una minaccia. Non sarà un processo equo.
– Noi non abbiamo mai chiesto l’indipendenza, – disse Hassan. – Noi siamo il Partito della decentralizzazione. Chiediamo solo riforme.
Ma Haj Taher era convinto del pericolo che avrebbe corso, e insistette perché non andasse ad Aley. Hassan capiva le sue ragioni, ma aveva già preso una decisione, e poi ovviamente contava su Tawfiq. Le intenzioni di Haj Taher erano buone, ma non era un politico.
Prima di mezzanotte arrivò un telegramma di Tawfiq: sÃ, avrebbe intercesso a suo favore. Hassan sarebbe stato graziato.
Si alzò all’alba, baciò la moglie addormentata, montò a cavallo e si diresse a nord attraverso le colline. Mentre il sole cominciava a scaldare l’aria arrivò a Jenin, dove si fermò a casa di suo cugino a sostituire il cavallo con una carrozza con cocchiere. Trasportato da quest’ultimo, si appisolò sul sedile posteriore. Attraverso le pareti di legno sentiva il fondo accidentato della strada, e si svegliò al sommesso brontolio delle ruote sulla pietra quando la temperatura scese sul lago di Tiberiade. Mangiò uno dei pezzi di pane che si era portato dietro e offrà l’altro al cocchiere. Quando giunsero al fiume Leonte, gli venne di nuovo fame, ma non avevano altro che un sacco di semi per i cavalli, cosà chiese all’uomo di fermarsi alla locanda di posta che si cominciava a intravedere in cima alla collina di fronte.
Mentre il cocchiere dava da mangiare ai cavalli, Hassan si avvicinò all’edificio. L’esterno era stato ristrutturato da poco, e alle foglie del carrubo vicino si erano appiccicate croste di intonaco. Comparve sulla soglia il locandiere, un uomo basso con gli occhi neri e un grembiule sporco. Niente cibo, disse. Haj Hassan fece la faccia torva e l’altro si ricordò che forse a pensarci bene erano rimaste un paio di uova… se effendi poteva aspettare solo un attimo. Gli diede un giornale da leggere, e zoppicando si allontanò.
Hassan si sedette su una pietra al sole della tarda mattinata e aprà il giornale. C’erano i soliti annunci di nascite e morti, la notizia che gli inglesi erano stati respinti a Gallipoli, e la lunga recensione di un libro su un siriano immigrato in America. Le diede una scorsa. Girando pagina lesse: «Undici nazionalisti crocifissi a Beirut».
A metà dell’elenco di nomi c’era quello del suo amico Fuad Murad. Murad era già morto! E c’era anche il suo nome, con una fotografia! Hassan Hammad era ricercato. La fotografia era di due anni prima e lo ritraeva con la faccia rasata. Si toccò la barba e si alzò per andarsene. Trovò il cocchiere che faceva i suoi bisogni contro un albero, e alla sua vista si sentà di nuovo piegare le ginocchia. Il cocchiere aveva scelto l’albero sbagliato e stava cercando di evitare gli schizzi della pipà che scendeva copiosa dai nodi della corteccia. Mentre l’altro era occupato, Hassan prese una rapida decisione. Salà in cassetta e lanciò i cavalli al galoppo, ignorando lo sbraitio dietro di lui.
Attraversò il Leonte su un ponte pericolante, facendo bere i cavalli solo quando l’ebbero superato. Da là si diresse verso est, dalla parte opposta di Beirut ma senza una meta precisa. Ogni volta che incrociava un villaggio faceva un’ampia deviazione: non poteva rischiare di essere l’unico straniero nel suq.
Dopo un’ora e mezza di giravolte verso est, si imbatté in un soldato turco seduto da solo sul bordo della strada, con le caviglie bianche di polvere. Il militare si alzò e salutò Hassan. Una fila di bottoni dorati gli brillava sul petto e una baionetta gli luccicava sul fianco. I folti baffi erano impomatati alla moda ottomana e a terra, accanto alla sua sedia, aveva una cassetta di arance. Hassan fermò i cavalli e smontò, e in un arabo con un marcato accento turco il soldato gli chiese di vedere un documento di identità . Osservò con attenzione il suo abbigliamento.
– È la sua carrozza?
– SÃ, – disse Haj Hassan. In perfetto turco, continuò: – Sto cercando un posto in cui mangiare, ne conosce qualcuno nei dintorni?
Visibilmente entusiasta del turco impeccabile di Hassan, il soldato gli prese un braccio e gli offrà un’arancia. Haj Hassan accettò e si accinse a sbucciarla; la scorza gli riempà di succo le mani impolverate. Il soldato aggiunse la buccia alle altre già presenti nella cassetta, e, mentre mangiava uno spicchio, Haj Hassan decise che doveva fugare i sospetti che poteva aver destato. Disse al soldato che, in effetti, era partito con un cocchiere per andare a trovare la famiglia a Beirut, ma che, quando si erano fermati in un caravanserraglio, il cocchiere l’aveva derubato ed era fuggito. Un vecchio bottegaio si era impietosito e gli aveva gentilmente imprestato la sua carrozza, che lui si era impegnato a restituire.
– Non ho documenti, niente, – aggiunse, guardando il soldato in faccia per vedere la sua reazione.
– Il mio alloggiamento è poco distante, – replicò il soldato. – E ho un telegrafo, se vuole mandare un messaggio alla sua famiglia.
Hassan ebbe un attimo di esitazione. Sembrava affidabile, ma era pur sempre un turco. E se aveva indovinato che era un fuggitivo, poteva sperare in una ricompensa. Vagliò le diverse possibilità . Poteva scappare a gambe levate. Gli conveniva staccare uno dei cavalli per essere pronto a fuggire.
Il soldato lo portò a una baracca sotto la strada, sopra la quale i cavi zigzaganti del telegrafo oscillavano adagio nel vento. Appena il soldato entrò, Hassan slacciò le tirelle di uno dei suoi cavalli e assicurò la correggia con un pezzo di corda al telaio della carrozza, porse una manciata di semi ai labbroni dell’animale e ne sfregò il muso caldo. All’interno, il soldato aveva già messo a bollire l’acqua sul fuoco. In un angolo c’era un tavolo ricoperto di materiale elettrico: una scatola verticale simile a una radio, con le due pareti laterali piene di manopole di diverse dimensioni e valvole di rame, e, dietro, un’altra scatola ricoperta da altre manopole, con bobine e indotti fissati ad ogni piano perpendicolare, luccicanti.
– Sa come usarlo?
Hassan non rispose. Il soldato rise.
– Non si preoccupi. Scriva quello che vuole dire e glielo mando io. Prego.
Gli diede un pezzo di carta e Hassan scrisse un conciso messaggio in turco. Non era per sua moglie, comunque: era indirizzato al suo amico Haj Taher Kamal.
Il soldato si sedette e cominciò a batterlo sul tasto di trasmissione. L’acqua bolliva e il caffè schiumava; Hassan spense il fuoco.
– Adesso non c’è altro da fare che aspettare la risposta. Laggiú ci sono delle tazze pulite.
La baracca aveva una sedia sola, quella davanti all’apparecchio, e il soldato insistette perché la prendesse Hassan, mentre lui si sarebbe appoggiato al muro. Tra un silenzio e l’altro, Hassan gli fece qualche domanda banale sul suo servizio, senza perdere di vista i loro diversi ruoli nel grande gioco dell’Impero, ed evitando qualunque argomento che potesse puntare l’attenzione sulla barriera che li divideva. Passò un’ora, e gli venne in mente che il soldato, contando sul fatto che Hassan non conoscesse l’alfabeto Morse, poteva aver battuto un messaggio totalmente diverso ai suoi superiori, che avrebbero potuto comparire da un momento all’altro. Forse era ancora in tempo per fuggire. Pensò al cavallo. D’altro canto, se il soldato era in buona fede, e aveva effettivamente mandato il messaggio a Haj Taher, lui si sarebbe perso la risposta. Studiò il modo di superare il soldato e uscire dalla porta, e driz...