Elio Germano entra dal fondo della platea, vestito in jeans, camicia bianca e maglione a girocollo blu scuro, scarpe di cuoio. Sulla scena ci sono: al centro un piccolo podio centrale rotondo; a sinistra un leggio trasparente in plexiglass con alcuni fogli posati sopra; a destra un cubo-sgabello sempre in plexiglass, con una bottiglia d’acqua di vetro trasparente a fianco; un fondale argentato, poco illuminato, sullo sfondo.
Elio ha un tono disteso e coinvolgente, molto semplice, spiritoso e accattivante. Entra, spalle al pubblico, dalla stessa porta da cui sono entrati gli spettatori, ed è accolto da un applauso: la gente è da subito con lui, ride alle sue battute, si lascia trasportare dalla sua bella energia. È leggermente microfonato, un’amplificazione molto naturale, di puro sostegno. Inizia con un tono leggermente ironico, provocatorio, non si capisce bene dove voglia arrivare, ma la posa è quella del parolaio, dell’affabulatore un po’ simpatico, un po’ piacione, quasi del comico, o del bravo presentatore televisivo, dunque il pubblico si sente subito a suo agio e si lascia inavvertitamente trascinare in quello che a poco a poco prenderà la forma di una sorta di prologo infinito.
Eccomi signori, buonasera. (Applausi). Entro alle vostre spalle, come il peggiore dei vostri incubi.
Benvenuti! Come va? Tutto bene?… Ci siamo tutti? Aspettiamo ancora qualcuno? Possiamo iniziare? Qui ci sono dei posti liberi, volete spostarvi? Venite… chissà quanto costeranno queste poltrone in prima fila. Avanti, se c’è qualcuno lassú (indica i palchi o la galleria) che vuole scendere può farlo: quel che ha pagato ha pagato!
Su, facciamo gli ultimi aggiustamenti e poi si comincia, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, che poi si chiude il teatro e non entra (e non esce) piú nessuno.
Allora, spero che siate seduti comodi, che la poltrona sia confortevole, che siate belli rilassati, che abbiate spento il vostro telefonino e lasciato tutti i pensieri là fuori, perché stasera qui, tutti insieme, cercheremo di fare dei ragionamenti.
Mi rendo conto che sono parole un po’ forti: è una cosa a cui non siamo piú tanto abituati, ma state tranquilli, andrà tutto bene. Voi fate finta di niente, qualsiasi cosa succeda.
Alle volte magari capita di sentire un po’ di puzza di bruciato, ma è soltanto il cervello di qualcuno che è andato in sovraccarico; voi non vi preoccupate, fate finta di niente, tanto qui ci sono i pompieri, è tutto in sicurezza. (Risate).
Bene. Innanzitutto grazie di essere qui, perché non è nemmeno una cosa scontata al giorno d’oggi. Già riuscire ad alzarsi dal divano e uscire di casa per venire a teatro è una cosa eccezionale.
Dopo avere combattuto, litigato, discusso tutto il giorno, dopo aver magari cucinato e mangiato in fretta qualcosa, dopo aver messo a letto i figli (per chi ancora crede nella procreazione), uno approda finalmente al divano, ultima meta di ogni giornata, la nostra isola di salvezza.
È solo quando si arriva al divano che la giornata finisce davvero e uno può iniziare a rilassarsi.
A quel punto, signori, riuscire ad alzarsi e rivestirsi per uscire è veramente un atto eroico! Per venire a teatro poi! In un posto buio, pieno di gente sconosciuta, che magari avrà anche un’igiene discutibile, magari c’è qualcuno qua che non si lava da mesi. Sarà pieno di microbi, di malattie, stasera tra di noi… Voi avete vinto le vostre paure! Signori, siete davvero persone speciali! Facciamoci un bell’applauso, tanto per cominciare! Al vostro coraggio! Avanti, ve lo meritate. (Il pubblico applaude).
Non si ringrazia mai abbastanza il pubblico, gente che paga, oltretutto, per infilarsi in una situazione del genere! E senza sapere niente, poi, veramente a scatola chiusa!
Sfido qualsiasi persona a capire il significato delle cose che abbiamo scritto sulla brochure di presentazione. (Risate).
Sicuramente ci saranno degli abbonati… Vabbè, quelli si vedono sempre tutto, hanno comprato un pacchetto, per cui se si perdono anche una sola serata non gli conviene piú.
Ci sarà qualcuno che non voleva nemmeno venire, magari l’hanno costretto, magari gli hanno comprato un biglietto a sua insaputa, come a Scajola… ve lo ricordate Scajola? Adesso è diventato sindaco di Imperia, chissà se stavolta qualcuno glielo avrà comunicato.
Ecco, mi dispiace per chi stasera è venuto qui pensando a una serata d’evasione, leggera. Uno dice: vado a farmi due risate, a distrarmi un attimo… Ecco, rimarrà molto deluso. Mi dispiace immensamente. Ma tanto ormai siete qui e non potete uscire.
La cosa positiva è che non durerà molto: se fate i bravi e nessuno si fa prendere da manie di protagonismo o da attacchi di panico, con un’oretta ce la caviamo. Un’ora di paura e vi libero. E poi via a mangiare, a ballare, a fare l’amore! Per chi ne avrà ancora voglia, ovviamente.
Sul serio, io odio gli spettacoli lunghi a teatro, quelli che non finiscono mai. Il bello del teatro, dopo tutto, qual è? Che a un certo punto finisce. No? Quello è il momento piú bello, quando si torna a casa sani e salvi, ché tutto è passato: era solo uno spettacolo.
E questo vale anche per noi che lo facciamo, il teatro. Anzi, a maggior ragione, perché per noi è lavoro! Anche io quando finisco qui con voi non vedo l’ora di andare a cambiarmi, mangiare in fretta qualcosa e lanciarmi sul mio amatissimo divano e, tra telecomando e telefonino, sentirmi per un attimo ancora padrone del mondo.
Purtroppo, ecco, a proposito di telefonini, c’è solo un’ultima spiacevole pratica che ogni sera si frappone tra la fine del mio lavoro e il mio rientro a casa sano e salvo, sul divano: il momento dei selfie con il pubblico… quando gli esseri umani si trasformano.
Arrivano queste persone con certi sguardi che, si capisce subito, non promettono niente di buono. Uno sguardo vitreo. Non guardano te, guardano oltre. Stanno già pensando a chi la devono inviare quella foto, con chi la devono condividere e come te la devono chiedere. Qualcosa che abbatte ogni possibile forma di comunicazione.
Tu provi anche a dire qualcosa: «come va?» Ma loro, niente: non parlano. «Vi è piaciuto lo spettacolo?» «No, guarda, noi siamo venuti solo per la foto». Molto bene. Che poi io ho un problema coi flash: a un certo punto non vedo piú niente.
Comunque, per carità, uno le foto le fa, uno fa tutto. Però, davvero, è sempre piú raro trovare uno che venga a chiederti qualcosa, anche solo cosí per parlare, per conoscere un retroscena, con una sua curiosità. Ma io dico: parliamo un po’ piuttosto, no? Almeno un minimo di qualcosa ce lo scambiamo!
Per fare la foto poi nemmeno ci si guarda, perché ci si mette subito abbracciati uno accanto all’altro, di profilo. Non fai nemmeno in tempo a stringere la mano a qualcuno che te lo ritrovi guancia a guancia: cioè, io alla fine sono pieno di foto con persone che non sono nemmeno mai riuscito a guardare in faccia… Gente che poi ti abbraccia, come se avessimo appena condiviso chissà quale impresa, con un trasporto, una voluttà! E dopo la foto ti abbandona, ti lascia là tutto solo. Ma come? Proprio adesso che tra noi stava iniziando a nascere qualcosa. È davvero stranissimo!
Il fatto è che non siamo piú abituati a parlarci, a toccarci… Vi ricordate quando ci parlavamo?
Una volta, signori, ci si parlava! Sugli autobus, nei negozi… «Buongiorno, come va? Tutto bene? Ha sentito cosa è successo?» E sui treni? Sui treni nascevano delle vere amicizie! Che ingenui eravamo: ci fidavamo di tutti. (Risate).
Oggi invece, fortunatamente, abbiamo dei fantastici strumenti di autodifesa!
Elio fa una piccola pantomima: prima finge di sentirsi osservato, poi si tasta le tasche, e infine ne estrae sollevato un oggetto. Non è altro che la sua mano aperta, come se fosse uno specchio o appunto un telefonino dietro al quale letteralmente si nasconde, come i bambini, che solo coprendosi il volto immaginano di essere spariti.
I nostri telefonini! Che meraviglia… quando qualcuno si avvicina, se ci sentiamo osservati… tac! Ci mettiamo a leggere un messaggio, ascoltare la musica, guardare un video… È cambiato il nostro modo di comunicare! Adesso è tutto piú immediato, piú igienico, piú sicuro. Mandiamo un cuoricino, una faccetta, un pollicione… se dobbiamo fare le condoglianze a qualcuno mandiamo la faccetta che piange: non c’è piú bisogno di esporsi, di provare imbarazzo o vergogna… parliamo solo con chi vogliamo! E ce li abbiamo sempre a portata di mano i nostri amici, i nostri gruppi, i nostri followers, sono tutti sempre con noi, non ci manca davvero piú niente e nessuno.
Certo, uno potrebbe obiettare, cosí ci stiamo sempre piú distaccando dal mondo reale… ma meno male, dico io! Con quello che è diventato il mondo reale! Non c’è piú da fidarsi della gente nel mondo reale, signori: le persone intorno a noi sono tutte potenzialmente pericolose!
Ma non lo vedete cosa è diventato tutto? Tutti cercano di fregarti, sempre, di venderti qualcosa, anche tra amici, tra parenti: è un tutti contro tutti generale! Siamo tutti concorrenti, ormai, tutti in competizione, l’uno contro l’altro. Poi dice che uno è stressato! (Risate).
Già veniamo giudicati in continuazione: per come ci vestiamo, per la musica che ascoltiamo, per il taglio di capelli che portiamo, per la macchina che abbiamo comprato… Oggi dobbiamo curare la nostra immagine, sia quella reale che quella virtuale, il nostro profilo; il nostro futuro dipende dal nostro appeal, dalla nostra credibilità, dobbiamo convincere, piacere a tutti, ottenere consenso. Perfino in famiglia, con gli amici… per non parlare del lavoro! Siamo in una continua campagna elettorale! No?
Piú «mi piace» ti mettono, piú ti condividono, piú vali: altrimenti non sei nessuno, nemmeno esisti.
Questo è il mondo che stiamo costruendo: il mondo della gente che piace, non della gente che vale! Non è ...