Che bella risposta! Ciò che dici mi infonde coraggio. Dunque ti sembra che il libro di Sarah e del cugino possa riuscire. Un libro nostro, da fare, o magari disfare, insieme. Un’impresa comune. Perché no? Dunque posso contare su di te. Usarti. Abusare della tua pazienza e amicizia. Un amico, disse una volta André Gide, è colui con il quale si commette un’azione cattiva, un mauvais coup.
Ho una gran storia per le mani, dici tu. Descrivila con dovizia, con generosità . Schiaccia il pedale del realismo. Procurati dei numeri di «Life» di allora, osserva quei volti e fa’ che ti entrino dentro.
Grande idea! Vita inventata creata da fotografie vere di «Life». Qualcuna di quelle foto potrei anche piazzarla nel libro. Ne uscirebbe una bella storia in technicolor, ricca di solidi fatti storici. Però, vedi, i fatti storici non sono cosà importanti, lo sai. Inoltre vanno sempre a scadere nella banalità . Ciò che conta è il significato degli avvenimenti, non la loro verosimiglianza. E cosÃ, ancora una volta, mi ritrovo a ragionare su una storia che finirà per contenere soltanto le ipotesi sui modi di raccontarla. Sono incorreggibile. Chissà se stavolta, mentre gioco con il suo aspetto formale mi riuscirà di raccontare una storia compiuta. Ricordi come diceva Blake? Il fuoco si diletta della sua forma.
L’altra notte alle tre nel dormiveglia, come se continuasse un discorso cominciato il giorno prima, mia moglie mi dice: il tuo problema è la forma, la forma, sempre la forma! Mi sono voltato verso di lei, nel buio: sÃ, ma vedi, la forma mi dà equilibrio, mi rende felice. Non siamo piú riusciti a prendere sonno, cosà abbiamo acceso il televisore e guardato un filmetto porno.
È stata una settimana proficua. È finita in allegria, anche se venivo da abissi di ansia. No, non ho cominciato a scrivere. Non sono pronto. Potrebbero passare settimane o mesi, prima che metta qualcosa sulla carta. Prima di partire devo visualizzare tutta la vicenda, sentirne le voci, ridisegnarne la geometria. Fisso date d’inizio, ma continuo a rimandare.
Sarah e il cugino devono essere inquadrati nella cornice appropriata, un posto assolutamente sicuro dove sia possibile dire qualcosa di definitivo su di loro. Hai sollevato un bel problema a proposito del cugino di Sarah. Perché sono cosà riluttante a dargli un nome? Non lo so. Ho provato per gioco alcuni nomi possibili: tutti assolutamente inadatti, perciò archiviati immediatamente. Forse lo sento troppo simile per affibbiargli un nome falso. Magari, alla fine, un nome si dimostrerà una necessità inevitabile. Ma per il momento sento che deve rimanere un ascoltatore remoto, senza nome, della storia di Sarah. Anche se la sua storia si sovrappone a quella di lei.
Mi domandi perché sono cosà vago sui tempi. Perché non dico esattamente quando si sono verificati i fatti. Né dove. C’è qualche segreto?
Cosa possono importare il quando e il dove, visto che non c’è niente di verificabile? Non abbiamo a che fare con la verosimiglianza, ma con la verità . E non è la stessa cosa. Certe verità per essere affermate non hanno bisogno di luoghi e tempi precisi. Una guerra è una guerra e non importa dove e quando sia avvenuta. E il dolore non ha tempo. Ognuno di noi vive come un esilio il momento della nascita, che differenza può fare se sai quando e dove comincia?
Visto che questa storia è ancora allo stadio di congettura, anche se indicassi delle date precise, esse finirebbero per modificarsi con il progredire del racconto. È inevitabile. Le date conferiscono un aspetto solido e coerente ai racconti. In questo, solidità e coerenza non possono esistere.
L’unica data certa è che precisamente trentacinque anni fa i due cugini si separarono per andare in direzioni diverse. Lui aveva diciotto anni e Sarah quindici. Ciò che oggi, nel giorno in cui tornano a incontrarsi, stanno cercando è il senso di quella separazione, il significato di un’assenza reciproca. Perciò, invece di questionare sul dove e sul quando, faresti meglio a domandare quanto questa assenza abbia segnato la loro vita, quanto abbia modellato il loro carattere. Già , ciò che bisognerebbe indagare riguarda la personalità di quello scultore parcheggiato come una statua in un aeroporto, e quella di Sarah, che lo aspetta nell’altro.
La sensibilità ironica e disincantata di lui, specie riguardo alle proprie sconfitte, il temperamento emotivo al massimo grado, accettato cosÃ, senza cercare rifugi in oasi di tranquillità , la fantasia audace e ricca di senso dell’umorismo, eppure severa e malinconica, che percepisce se stessa in un’unica qualità , l’ambiguità degli opposti, ecco ciò che voglio incidere nel suo carattere. Nonostante viva da molti anni nello stesso Paese, nel modo di parlare e di muoversi è rimasto ostinatamente straniero, e tuttavia non è un egocentrico come ci si potrebbe aspettare. Al contrario, è un inguaribile ottimista, benché anche a lui, come a me, sia capitato ultimamente di perdersi nei meandri della propria disperazione.
E Sarah, per come l’immagino io, è cosÃ: una donna di mezza età sensibile e ancora piuttosto attraente, i capelli cortissimi, la pelle liscia e gli occhi grigio chiaro. Anche lei rinchiusa fra valori di segno opposto: timida e ostinata, idealista e con i piedi per terra, romantica e irremovibile nei suoi sentimenti.
Seduto all’aeroporto, un libro aperto in grembo che non legge, il cugino pensa a Sarah. Negli anni si sono scambiati fotografie, ma lui la ricorda soltanto come la giovane donna che era, trentacinque anni fa, mentre la lasciava sul marciapiedi della stazione.
Aveva già messo la valigia sul treno e appoggiato la giacca su un sedile per tenerlo occupato, poi era sceso sul marciapiedi per dare a Sarah l’ultimo abbraccio prima che il treno partisse per condurlo alla nave. Che nave miserabile e che traversata tremenda! Ripensando a quella nave e a come doveva apparire disorientato, sorride, ma subito il pensiero torna a Sarah e la rivede là su quel marciapiede affollato, una donna-bambina di quindici anni, magrolina, intenta disperatamente a trattenere le lacrime dagli occhi grigi, mentre si abbracciano per l’ultima volta prima che il treno cominci a muoversi.
Senza rendersene conto gli affiora alle labbra il soprannome che le aveva affibbiato, Piccola pulce. Minuta e furtiva come un insetto spaventato, si rannicchiava sempre negli angoli delle stanze, contro le pareti, come se volesse nascondersi o sparire dentro i muri. Sarah aveva impiegato degli anni per ammettere e accettare il fatto che la sua morte se l’era lasciata alle spalle e poteva camminare e respirare senza paura. L’amava tanto e si era tanto preso cura di lei dopo il loro incontro alla fine della guerra. Per tre anni i due cugini avevano vissuto insieme in una stanza rimediata nei fondi di un caseggiato distrutto dai bombardamenti. Dormivano nello stesso letto, un materasso poggiato sul pavimento. Lui era tutto per lei: un fratello, un padre. Una madre, anche. Eppure, quando per lui giunse il giorno di andare, la abbandonò. Doveva andare. Una indefinibile necessità lo spingeva lontano. Qualcosa di irrisolto dentro di lui. Di irrisolto nelle sue mani. Non fu una decisione facile. La questione del visto si era appianata in modo cosà rapido e inaspettato.
Sarà solo per pochi mesi, continuava a ripeterle mentre l’abbracciava sul marciapiedi della stazione. Vedrai, quando sarò arrivato riuscirò a trovare il modo di farti venire. Ti manderò dei soldi. E il biglietto della nave. Andrò da quelli dell’ufficio immigrazione e spiegherò che sono il tuo unico parente. Capiranno. Gli spiegherò tutto.
All’inizio i due cugini avevano progettato di partire insieme, specie dopo aver capito che i genitori non avrebbero piú fatto ritorno. Forse laggiú le cose sarebbero andate meglio, avrebbero cominciato una nuova vita e dimenticato… ma a Sarah rifiutarono il visto perché non aveva superato la visita medica. Al consolato il dottore le aveva trovato una macchiolina nel polmone destro. Oh, niente di preoccupante, disse il dottore, niente di serio, per ora. Niente che non si possa curare con una buona alimentazione, molta aria buona, e naturalmente una terapia adeguata. Nel giro di pochi mesi andrà tutto a posto. Tuttavia, il buon dottore era spiacente, non poteva autorizzare il suo visto. È contro la legge sull’emigrazione concedere il visto a persone che non siano sane al cento per cento. Per settimane e mesi Sarah e il cugino si tormentarono sul da farsi.
Non voglio andare da solo, continuava a ripetere, pur sapendo bene che alla fine sarebbe partito. Non vado senza di te. No, non ti lascio. Non dobbiamo separarci mai piú. Ma Sarah continuava a ribattere, come se già fosse quella donna ostinata che sarebbe diventata, che era sciocco da parte sua rinunciare al visto, ora che lo avevano concesso dopo tanti mesi di attese e speranze. Si lasciò convincere, e alla fine decisero che sarebbe partito da solo e che lei lo avrebbe raggiunto una volta guarita. Pochi mesi, non aveva detto cosà il dottore? SÃ, è la cosa migliore, per allora ti sarai sistemato e per me sarà piú facile venire. Non ti preoccupare, me la caverò. Non sono piú una bambina, diceva sforzandosi di ricacciare le lacrime.
Trentacinque anni fa. Alla fine partà anche Sarah, con un gruppo di ragazzi che, come lei, avevano perduto la famiglia durante la guerra. Ma andò in un posto diverso. Andò a est, in un Paese pieno di promesse. Forse fu l’aria asciutta del deserto a cancellarle quella macchiolina dal polmone.
La scena alla pensilina della stazione svanisce e il cugino scivola indietro nel tempo, sino al giorno in cui lui e Sarah si erano ritrovati, alla fine della guerra, dopo la liberazione. Era maggio. La vide mentre girovagava nel vecchio quartiere, proprio cosÃ, non lontano da dove viveva prima che accadesse tutto quanto. Si aggirava per le strade, proprio come aveva fatto anche lui nelle ultime tre settimane, da quando era rientrato in città dal Sud, alla ricerca dei parenti che potevano essere sopravvissuti, usciti dai nascondigli. Molta gente lo stava facendo in tutta la città e in particolare nel vecchio quartiere di Sarah, tornato rapidamente alla vita. Era come se l’intera città si fosse messa a giocare una gigantesca partita di guardie e ladri. Puoi uscire, adesso, la guerra è finita!
Aveva lasciato la fattoria dove aveva lavorato negli ultimi tre anni, sicuro che una volta in città avrebbe trovato ad aspettarlo i genitori e le sorelle…
La fattoria! Devo parlare anche di questo. Di quanto abbia lavorato duro, lui che era ancora un ragazzo, come una bestia da soma, nei tre anni passati in quella fattoria per nascondersi dai soldati, di quanto fosse solo e triste e avesse il corpo sempre ammaccato, specie le mani, regolarmente ricoperte di piaghe, di vesciche, di tagli. Un ragazzo di città di dodici anni, impacciato e molto cresciuto per la sua età . Allora non aveva idea di chi fosse, né di cosa sarebbe diventato. Per il momento era soltanto un contadino, non per scelta, ma comunque un contadino. Alla fattoria il modo di vita semplice e rude di uomini e animali lo aveva coinvolto del tutto, anche se non comprendeva l’indifferente violenza di riproduzione e morte che lo circondava. Si sentiva perennemente sporco. Prigioniero della sporcizia. Inconsapevole di se stesso e dei sordidi affari del mondo, non riusciva in nessun modo a immaginarsi nel futuro. Tutti i suoi pensieri, sogni, fantasie, riguardavano il passato, un passato vago e confuso. Giorno dopo giorno, fino a tarda sera, faticava nei campi, totalmente assente da se stesso. Da quando, quel giorno di luglio, i genitori e le sorelle erano stati arrestati, e lui si era salvato per caso, girovagando per la campagna finché lo avevano raccolto quei contadini ai quali serviva un aiuto, aveva avvertito una strana dissociazione da se stesso, come se di colpo fosse stato tagliato fuori dalle naturali aspettative che riserva la vita. La sua esistenza si era bloccata, si sentiva rassegnato a una condizione di provvisorietà e cadde in uno stato di oscura confusione. Erano stati d’animo in stridente contrasto con la fiducia in se stesso e il coraggio di suo padre, che era un artista, faceva il pittore, il quale aveva sempre cercato di instillare nel figlio la stessa fiducia e lo stesso coraggio, pur consapevole che tutto, alla fine, si risolve sempre in sconfitta. Il ragazzo nutriva una forte ammirazione per il padre, un uomo del tutto imprevedibile che custodiva sulla punta delle dita un mondo di bellezza e piacere, prima che la sua vita venisse brutalmente interrotta a trentacinque anni. Alla fattoria il ragazzo si sentiva completamente infelice. Una specie di insopportabile insoddisfazione gli pervadeva il corpo, concentrandosi negli organi piú immediatamente a contatto con il mondo esterno, le mani, le dita. Proprio quelle mani e quelle dita che in futuro avrebbero fatto di lui un artista come il padre. Il loro aspetto lo sconvolgeva. Le mani erano sempre sporche, screpolate, doloranti e arrossate e non riusciva in alcun modo a tenere pulite le unghie… Ma sto divagando.
Era tornato in città dalla fattoria facendo tutto il viaggio su un carro armato. Un carro armato dell’esercito vittorioso che aveva liberato il Paese. Che viaggio felice. Stava tornando a casa. Sua madre, suo padre, le sorelle, tutta la famiglia lo stava aspettando. Ne era certo. Come tanti altri era sopravvissuto con quella falsa speranza e ora stava correndo incontro alla disillusione.
Si teneva in piedi sul carro armato e per centinaia di miglia aveva intonato canzoni insieme ai soldati. Fu meraviglioso. Era la mascotte dell’equipaggio del carro. Folle di gente lungo le strade nei villaggi e cittadine sventolavano bandiere e cantavano l’inno nazionale. Sollevatevi figli della Patria, il giorno della gloria è arrivato, abbattiamo insieme il tiranno! I soldati baciavano ogni ragazza e lanciavano alla gente dolci e sigarette. Proprio come nei film, quei brutti film girati alla fine di tutto. Non gli importava, stava tornando a casa.
Mentre vagava per il vecchio quartiere la vide, Sarah, la cuginetta: era al di là della strada, ferma sul marciapiedi, come se aspettasse qualcuno, come se si presentasse a un appuntamento preso anni prima, ma con un’espressione d’angoscia sul viso perché non si era fatto vedere nessuno. Si riconobbero anche se erano entrambi molto cambiati. Erano piú vecchi di tre anni, ma soprattutto portavano sul corpo e sul viso i segni di ciò che avevano passato. Nei loro occhi c’era tristezza e i gesti erano lenti e affaticati. Se ne stava lÃ, fragile e disorientata, come se fosse appena emersa da un buco nel suolo. Aveva dodici anni adesso, ma il suo corpo era già quello di una donna. Dopo un attimo di esitazione si corsero incontro e si abbracciarono proprio in mezzo alla strada stringendosi a lungo uno con l’altra. Sei tu, sei tu, continuavano a ripetersi asciugandosi a vicenda le lacrime… sei tu!
Il cugino è seduto nella sala d’aspetto dell’aeroporto; sorseggia un caffè bollente da un bicchiere di polistirolo e rivede se stesso in mezzo alla strada mentre stringe la piccola Sarah fra le braccia e sente, come in un lontano sussurro, la sua voce arrochita che singhiozza, sei tu, sei tu! Ancora una volta – lo ha fatto molto spesso durante tutti questi anni – prova a ripercorrere la storia della sopravvivenza di Sarah. Ma non è sicuro se ricorda quella che gli ha raccontato lei o se invece ne sta inventando un’altra, confondendo la storia della propria sopravvivenza con quella di Sarah, le sue parole con quelle di lei.
Quando vivevano assieme, finita la guerra, provavano spesso a raccontarsi ciò che era accaduto dopo l’arresto dei genitori, ma non riuscivano a portare a termine il racconto, non ce la facevano a tirar fuori tutto. Di notte, sdraiati vicini sul materasso, facevano in modo che l’altro cominciasse il racconto, ma poco dopo la storia si interrompeva, si disintegrava, svaniva, fino a diventare incomprensibile, come se rifiutasse di farsi raccontare. Il petto palpitante di Sarah e le lacrime che cominciavano a scorrerle lentamente dagli occhi interrompevano le parole. Il cugino la prendeva fra le braccia per tranquillizzarla, va tutto bene, va tutto bene, non occorre che vai avanti. L’importante è che siamo qui, insieme…
Avevo cominciato cosÃ, ti ricordi? Ti stavo descrivendo la vicina che diceva a Sarah di lasciare il pane da lei, mentre stava per accompagnarla al posto di polizia perché la riconsegnassero ai genitori. Bene, fammi andare avanti, proprio come sta cercando di fare il cugino di Sarah in attesa che l’aereo decolli. Ascolta…
Prima di portare Sarah alla polizia, la vicina la pettinò, le legò i capelli con un nastro e le rimise in ordine il vestito (le dita della vicina esit...