Non pronuncia mai la parola «assassinio», neppure nel confessionale della sua mente. Non è un atto che sta progettando, non nasce da lei questa cosa. Nel mondo sta accadendo qualcosa di sgradevole ed è costretta a reagire. Come il cattivo tempo, è del tutto indipendente dal suo controllo. Soprattutto, non guarda avanti, non si domanda mai cosa succederà. Non viene presa nessuna decisione. Ogni cosa scorre lentamente ma ineluttabilmente, come un fiume verso il mare. Non prova odio per lei, nessuno può odiare un bambino, ma questa bambina la irrita, la infastidisce. Non prova né ad attenuare l’irritazione né a condividerla con qualcun altro. Lascia invece che si guasti, come marciume che intacca i depositi sigillati di foraggio. Comincia a comprendere qualcosa che prima non le era chiaro. Non c’è nulla di casuale nel modo in cui si comporta la bambina, nelle cose che fa la bambina. La bambina non è piú intelligente di sua figlia, né piú bella, né piú accattivante di lei, ma è mossa da un prepotente bisogno di far apparire e sentire inferiore l’altra. In circostanze diverse ci sarebbero modi per risolvere la situazione, ma la bambina ha sedotto tutti quanti con le sue presunte attrattive. Se prova a separare le due piccole la odieranno, per quanto agisca per il bene di sua figlia.
Sta bene attenta a non mettersi nei panni della bambina. Non può certo rischiare di vedere le cose dal suo punto di vista. Al contrario, cerca di non considerarla affatto come si considera un bambino.
Immagina un incidente in cui la bambina muore. Tutti hanno pensieri di questo tipo, a volte. L’immaginazione va dove vuole lei. Non c’è né intenzione né colpa nel fare una cosa del genere. Immaginiamo anche di volare, sentiamo gli animali parlare con voci che riconosciamo, riportiamo in vita i morti per un po’. La porta di corno e la porta d’avorio. Eppure il sollievo che prova quando immagina l’incidente è meraviglioso. E forse quello che immagina in realtà non è un incidente. Forse quello che immagina sembra solo un incidente, un incidente terribile.
Incomincia a trastullarsi con idee che solo pochi mesi prima avrebbe trovato abominevoli. Le trova tuttora abominevoli, ma immagina una conversazione in cui giustifica queste azioni, una scena ipotetica che ha luogo a un certo punto nel futuro, in un tribunale per esempio. È amaramente pentita. Versa anche qualche lacrima, perché quando pensa a quello che è successo alla bambina, ora che in cuor suo finalmente le è concesso di chiamarla «quella povera bambina», prova davvero tristezza. Si difende, espone i suoi argomenti con chiarezza, è convincente. L’uditorio è inaspettatamente commosso dalla sua descrizione della contingenza in cui si è venuta a trovare e dal terribile dilemma che di conseguenza ha dovuto affrontare. A dire il vero, ha avuto il coraggio di risolvere un problema di fronte al quale altri sarebbero crollati. È assolta, perdonata.
Le viene in mente che potrebbe essere qualcun altro a eseguire il lavoro al suo posto. Lavoro è la parola giusta. D’ora in poi userà solo quella. Questa persona potrebbe portare la bambina lontano di lí ed eseguire il lavoro senza farsi vedere. Gli altri verrebbero soltanto a sapere che la bambina è scomparsa. Sarebbe una cosa triste, ma rimarrebbe un segreto insolubile. Anche lei ci penserebbe in quei termini. La bambina è semplicemente scomparsa. Quelli che le erano affezionati potrebbero sperare che sia ancora viva da qualche parte, o che sia morta in fretta e senza dolore.
Sembra un buon compromesso, una rinuncia agli scenari piú orribili che pure aveva considerato. La persona scelta per eseguire il lavoro dovrà essere, naturalmente, qualcuno di eccezionale, qualcuno per cui questo genere di compito sia qualcosa di semplice e normale, un soldato, forse, o un macellaio – qualcuno di incrollabilmente devoto, che obbedisca al suo ordine senza domande e senza ripensamenti. Potrebbe consolidare quella devozione con un compenso in denaro. Anzi, potrebbe dilazionare il compenso, un impegno da onorare per il resto della loro vita, a garanzia del silenzio di entrambi. Va da sé che sarebbe una persona priva di mezzi. Lei è ricca. Il costo sarebbe irrisorio. L’accuratezza di questo piano la soddisfa, e quella soddisfazione è abbastanza per il momento. Non c’è bisogno di precipitare le cose.
In questo preciso momento, tuttavia, è ferma davanti a una finestra fuori dalla biblioteca, che si affaccia sul secondo cortile dove il precettore Mesomede è seduto di fronte alle due bambine. Disegna un cerchio su una grande tavola d’ardesia con uno stilo metallico. – Pitagora era convinto che la terra fosse rotonda perché il cerchio, per lui e per i suoi discepoli, era la forma piú perfetta –. Phoebe si strofina il naso. Sospesa sopra la spalla del precettore c’è una nuvola bianca a forma di cavalluccio marino. Qualcuno sta battendo un tappeto nel cortile accanto. – Ma il primo a offrire spiegazioni logiche di tutto ciò è stato Aristotele. Il primo segno è che durante un’eclissi la terra proietta un’ombra circolare sulla luna, il secondo è che quando le navi superano l’orizzonte il primo a sparire è lo scafo, e il terzo è che nello stesso periodo dell’anno da punti diversi della terra si vedono costellazioni diverse –. Mesomede è un ometto rinsecchito dalla barba bianca ben curata; quando pensa si sfrega le mani, come se le idee fossero un banchetto allestito davanti a lui. Ha la spina dorsale che si incurva un po’ verso destra e l’alito pesante. – Ma è stato Eratostene ad avere l’intelligenza di misurare questa grande sfera su cui viviamo –. Segna due punti sul cerchio. Accanto a uno scrive Alessandria e accanto all’altro Syene. La nuvola sparisce dietro la sua testa. – Aveva sentito dire che a Syene durante il solstizio d’estate il sole splende direttamente dentro un pozzo profondo illuminando l’acqua sul fondo senza creare nessuna ombra. Ma ad Alessandria non era cosí…
Le ragazze hanno quattordici anni adesso. Phoebe non ha ancora perso la rotondità infantile che perderà nei due anni successivi, ma è atletica come lo era sua madre prima di raggiungere l’età in cui esserlo non conveniva a una ragazza. I capelli sono il globo perfetto di ricci neri che aveva suo padre prima che la peste lo facesse invecchiare di due decenni in un solo anno. È una ragazzina buffa e schiva, e ha la capacità straordinaria di fare l’imitazione di quasi chiunque a corte, in un modo che sarebbe giudicato crudele se a farle fosse un adulto.
Marina è la piú alta delle due, una cerbiatta che ancora non si è abituata alle sue lunghe zampe. Una cerbiatta anche nel temperamento, nervosa, con una risata che esprime piú tensione che divertimento: raramente riesce a sostenere lo sguardo degli altri e si rilassa soltanto quando è sola con la sua sorella adottiva. Ha la pelle scura e levigata e i capelli color mogano, ma quello che tutti ricordano di lei sono gli occhi, quasi neri in una certa luce, che danno alla sua bellezza qualcosa di spirituale.
– L’angolazione dell’ombra ad Alessandria corrispondeva alla cinquantesima parte di un cerchio. Ora, Eratostene sapeva che la distanza fra le due città era di cinquemila stadi…
Sono cresciute come due gemelle, hanno passato insieme ogni giorno della loro vita a parte i quindici giorni in cui Phoebe si è ammalata di una leggera forma di vaiolo. Il morbo le ha lasciato qualche segno sul viso, un fatto che non la turberebbe per nulla se non fosse per il silenzio che cala nella stanza ogni volta che qualche estraneo accidentalmente loda l’aspetto di Marina, ignaro della regola non scritta che vige in quella famiglia.
Come molte gemelle di sangue, hanno creato un mondo in cui possono entrare loro due soltanto, un mondo con la sua mitologia, le sue storie, la sua lingua. La madre di Phoebe ha trascorso la giovinezza a Baghdad parlando l’aramaico. Per riguardo a suo marito non usa mai quella lingua tranne nei momenti di rabbia e quando ha bisogno di parlare a quattr’occhi alle schiave che l’hanno accompagnata qui dalla sua città d’origine. Le ragazze, di conseguenza, conoscono una manciata di parole e su questa base traballante hanno costruito una lingua immaginaria parlata sull’isola immaginaria di Panchaia, abitata da ciclopi e centauri, lupi e uccelli grandi abbastanza da riuscire a portarsi via una capra adulta. Le ragazze sono dotate di poteri magici grazie ai quali sono in grado di conversare con queste creature. Ci sono gallerie sotterranee e tante di quelle camere collegate tra loro che ne hanno esplorato solo una piccola parte. Ognuna contiene qualcosa di magico, straordinario o terrificante: una fiamma che non brucia e si può portare in giro nel palmo di una mano per illuminare quei cunicoli bui che si aprono davanti a loro, un’intera camera col pavimento coperto da un tappeto di cornacchie morte, una donna meccanica fatta d’ottone, una foresta che sembra estendersi all’infinito e in cui si perdono completamente finché la donna d’ottone non viene in loro soccorso.
Sono entrambe ragazze intelligenti, e se Marina è un po’ piú sveglia, un po’ piú acuta, un po’ piú pronta a quei balzi intuitivi che superano il pensiero razionale, la differenza tra loro è davvero minima e di quasi nessuna importanza. Sono troppo vicine una all’altra per essere nemiche. Phoebe è orgogliosa dei successi della sua amica e qualche volta Marina si trattiene dal rispondere per prima in modo che le lodi vengano equamente distribuite.
A separarle c’è solo la loro origine. Phoebe sa che deve ritenersi fortunata. Anche se non sempre va d’accordo con suo padre e sua madre, è pur vero che loro sono vivi e che le vogliono bene. Eppure tutto ciò che è successo nella sua vita è successo in quella città, e quasi tutto all’interno di queste mura. In cuor suo agogna la tristezza che rende la sua amica una persona speciale, piú profonda, piú seria. Non riesce a immaginarsi al centro di una storia. Marina invece è una storia in sé.
Per esempio adesso che la lezione è finita e Mesomede è stato congedato, si siedono sul bordo scanalato della vasca al centro del peristilio. Ciascuna ha una ciotolina in mano per dar da mangiare sottili frammenti di pollo crudo alle grasse carpe arancioni che nuotano nella fontana e che emergono dalla superficie con le boccucce affamate a forma di O per carpire quel bendidio. L’acqua ricade dalle conchiglie appuntite delle ninfe acquatiche di pietra, dalle mura del giardino arriva il grido soffocato del pavone e improvvisamente Marina è altrove, una mano sul ginocchio, la ciotola che si inclina nell’altra, gli occhi persi chissà dove, lo spirito smarrito in quel luogo dove sua madre è ancora viva e suo padre non l’ha abbandonata. O almeno questo è ciò che immagina Phoebe, anche se Marina ignora ogni volta le sue domande, e a quel punto non le sembra il caso di indagare oltre. Poi la stupida invidia di Phoebe è spazzata via dalla realtà: la visione di quella cabina piena di sangue, le mani sporche di qualche maldestro medico di bordo che cerca disperatamente di estrarre il corpicino scivoloso prima che rimanga sigillato dentro un cadavere, la bara che affonda nell’oscurità gelida. Lei accetterebbe forse tutto questo in cambio della sensazione esaltante di essere una creatura speciale, piú profonda, piú seria?
In realtà, anche se ogni tanto si fa prendere dalla malinconia, Marina pensa di rado ai suoi genitori. Sono personaggi leggendari. Sua madre è morta di parto, suo padre ha salvato la città, dopo di che ha perso il senno riducendosi a una manciata di racconti assurdi e di voci prive di fondamento. Come è possibile che tutto questo sia collegato all’ottusa sequenza del dormire, lavarsi, mangiare, vestirsi, studiare? Phoebe, Dionisa e Cleone sono l’unica famiglia che abbia mai conosciuto. È stata Licoride a raccontarle quelle storie, ma Licoride raccontava ogni sorta di storie, tutte irrimediabilmente false. Per di piú, Licoride è morta di un tumore quattro anni fa, e ha portato con sé l’ultimo, tenue collegamento fra la vita di Marina a Tarso e l’esotica preistoria immaginaria.
In ogni caso, non è incline al rimpianto del passato né all’ansia per il futuro. È piena di risorse come suo padre e ottimista come sua madre, e in piú ha qualcosa che nessuno dei due possedeva. È questo, forse, il lascito principale del suo disgraziato esordio in questo mondo. Marina capisce gli altri, osserva, analizza. Lei sa, senza nemmeno rendersene conto, di non appartenere a quel luogo, di non appartenere a nessun luogo, di non poter dare nulla per scontato, di dover sempre tenere gli occhi aperti nei momenti di crisi, quando la gente bada soltanto a se stessa.
Una cosa sola la turba davvero. Dionisa non la ama. L’ha capito solo negli ultimi anni. Non è una cosa evidente. Anzi, Dionisa è sempre gentile e attenta a trattare le due ragazze nello stesso modo. Tuttavia a Marina capita ogni tanto di girarsi e sorprendere la matrigna a guardarla con un’inattesa durezza negli occhi, che subito svanisce. Cerca di affrontare l’argomento con Phoebe. Stanno per diventare donne e il rapporto di Phoebe con la madre qualche volta è irto di difficoltà, perciò Marina si aspetta che l’altra si immedesimi. Al contrario, Phoebe si mette inaspettatamente sulla difensiva. Stanno cominciando ad allontanarsi? Oppure Marina ha solo infranto la regola universale secondo la quale i figli possono disprezzare i propri genitori senza alcun limite, ma guai a chi altro osi farlo? Sia come sia, Marina si rende conto che deve risolvere il problema da sola.
Poi, all’improvviso, smette di essere un problema. Man mano che si avvicina il sedicesimo compleanno delle ragazze, Dionisa si ammorbidisce. La sua gentilezza sembra autentica adesso, la sua imparzialità appare naturale, per nulla forzata. Il tono della sua voce è piú affettuoso, la durezza è sparita dai suoi sguardi. Marina si sente piú a suo agio in presenza della madre adottiva di quanto le sia accaduto da molto tempo a questa parte. Forse è stata Phoebe a intercedere per lei. Forse il precedente malanimo era una conseguenza di qualche complesso problema adulto che a sua insaputa è stato risolto.
È proprio cosí, un complesso problema adulto è stato risolto. Dionisa ha trovato un uomo che ucciderà la sua figlia adottiva. Adesso può rilassarsi in compagnia di quel tarlo che la infastidisce da tanto tempo. Può permettersi di essere comprensiva, di ascoltare, di mostrarsi affettuosa, sapendo che non sarà costretta a farlo ancora per molto. Anzi, da un punto di vista diplomatico è saggio comportarsi in modo che nemmeno un’ombra di sospetto possa ricadere su di lei.
Lucius fa parte della guardia reale. Prima d’ora non gli ha mai prestato una particolare attenzione, come non ne ha mai prestata alle altre guardie. Tuttavia un giorno entra silenziosamente nella Corte delle cinque lepri e vede un balestruccio a terra sul lato opposto del colonnato, con un’ala spezzata. Pochi istanti dopo compare Lucius e senza un attimo di esitazione posa il piede sopra l’uccello e lentamente lo schiaccia, e quando la suola è aderente al pavimento fa ruotare il sandalo una volta a destra e una a sinistra. È come se le Parche avessero inscenato quel piccolo dramma a suo esclusivo beneficio. Lucius solleva il piede per esaminare quello che ha fatto, poi con un calcio spinge la poltiglia piumosa e umidiccia nel canale dell’acqua piovana che scorre tra le colonne. Dionisa sa essere dura di cuore all’occorrenza ma persino lei rimane agghiacciata da un comportamento del genere. Ha trovato il suo uomo. Gli impartirà gli ordini e stabilirà il pagamento, poi sarà sollevata per sempre da una pena che la tormenta da troppo tempo.
Lucius sarà anche crudele, ma non è certo uno stupido. Pretende metà del denaro subito e metà non appena la ragazza sarà morta. La regina incomincerà presto ad agitarsi e darà a qualcun altro l’incarico di uccidere lui. Farebbe lo stesso anche lui, se fosse al suo posto. Perciò deve essere già lontano quando lei avrà preso quella decisione. Il lavoro in sé è semplice, e la soluzione sono i maiali. Cinque o sei in un porcile sono in grado di digerire un corpo umano in men che non si dica, ossa, denti, capelli, tutto quanto. Pagherà quell’idiota di suo fratello per passare qualche giorno in prossimità della costa. Porterà con sé i vestiti della ragazza, i calzari, e il mantello da viaggio per far credere che sia fuggita. La porterà sulle colline legata e imbavagliata, le sfonderà il cranio con un sasso, la getterà nel recinto dei maiali e brucerà la corda insieme ai suoi effetti personali. Appena ricevuto il resto dei soldi si imbarcherà su una nave diretta a Tebe o Alessandria e comincerà una nuova vita.
Percorre il tragitto fra i dormitori delle guardie e la piattaforma di carico per sei notti consecutive assicurandosi di poter agire senza essere visto. Calcola il tempo che intercorre fra una ronda e l’altra, lubrifica i cardini delle porte. La settima notte il cielo è coperto da una fitta nube propizia. Spegne i candelabri nel corridoio. Grazie al cielo le ragazze non dormono nella stessa stanza con le loro schiave. Spegne anche la lampada a olio di fianco al letto e stringe forte il bavaglio prima di dire a Marina che rimarrà viva se e solo se rimarrà in silenzio. Le benda gli occhi in modo che non possa ricordare la sua faccia nel caso sia costretto a scappare prima di aver completato il lavoro. La ragazza è sorprendentemente forte per essere cosí magra, ma riesce a legarle mani e piedi abbastanza rapidamente. La avvolge nella pezza di tela rigida che tiene piegata nella sacca da viaggio e la lega a mo’ di tappeto con delle funi, per trasportarla piú facilmente. Poi rovista nel grosso baule ai piedi del letto e riempie la sacca vuota di indumenti che potrebbe portare con sé una ragazzina se progettasse di viaggiare durante la notte. Dopo di che ne usa altri per mettere insieme una rudimentale sagoma corporea sotto le coperte. Chiude il baule e se la carica sulle spalle.
Nessuno li vede percorrere il sentiero tortuoso tra gli edifici che compongono il palazzo, a parte un gufo reale che li osserva da un albero di alloro mentre passano attraverso le ombre profonde ai margini del Giardino esagonale, limitandosi a ruotare lentamente la testa con i grandi occhi fissi. È in quel momento che la notizia comincia a viaggiare? Oppure il mondo non umano queste cose semplicemente le sa, le informazioni che vanno oltre la ...